Premetto che non è mia intenzione
discutere di Sully e Snowden da un punto di vista
cinematografico – sebbene entrambe le pellicole offrano parecchia
carne al fuoco.
È interessante che due grandi
narratori di storie americane, quali Eastwood e Stone, nello stesso
momento storico (le primarie, il tracollo del partito democratico,
l'elezione di Trump), abbiano scelto, a soggetto delle rispettive
produzioni, due vicende accomunate da aspetti che vanno dalla
moralità al coraggio; dal confronto con la paura a quello con se
stessi; dalla professionalità all'etica di questa; dal mito
dell'eroe solitario alla sofferenza del gesto eroico. Ma soprattutto:
dallo straordinario senso della responsabilità dei loro
protagonisti.
La retrodatazione delle due vicende
può anch'essa essere vista come tratto di comunanza. Del 2009
l'ammaraggio del volo US 1549; del 2013 le rivelazioni del Guardian.
Gli estremi del primo mandato Obama.
In
un moderno e politicamente connotato gioco delle parti, l'allora
neo-eletto presidente riservò a Chesley 'Sully' Sullenberger un
trattamento da eroe (la tribuna d'onore alla cerimonia di
insediamento), proprio nel mentre l'agenzia statunitense per la
sicurezza del volo (NTSB),
in un'indagine dovuta, ne sottoponeva a verifica l'affidabilità in
maniera a dir poco insinuante. A fine-mandato, e alla ricerca della
rielezione, gli toccò invece dare della spia a tale Edward Snowden,
caricarlo in toto di
una responsabilità che la sua amministrazione, poco credibilmente,
disconosceva (ricordate la battuta
mi-sa-che-mi-sono-fidato-dele-persone-sbagliate, da Fahrenheit
911?), e con l'agenzia per la
sicurezza nazionale (NSA)
silente in quanto gabbata dal giovane – ed intelligentissimo –
tecnico informatico.
Sully
è una visione edificante, un film dove la tecnica cinematografica è
integralmente al servizio dell'espressività, del dramma umano che
Chesley Sullenberger si trova a vivere alla soglia della pensione,
investito da un'emergenza ignota al settore; il dramma di un uomo
sano, solido, responsabile, di fronte all'ignoto – appunto -, al
non-conosciuto. Anche l'integrale dell'ammaraggio, magistralmente
ricostruito in digitale, non indugia, temporalmente e personalmente,
su aspetti sensazionali – quali potrebbero essere le reali,
effettive reazioni dei passeggeri che, diversamente da 'Sully', non
realizzarono quanto stava per accadere loro fino all'impatto con lo
Hudson. Montata in tempo reale, è funzionale alla comprensione da
parte dello spettatore dell'immensità di ogni dramma necessario alla
comparsa di un eroe, e del prezzo da pagare per diventarlo. La
narrazione non si incentra sul gesto - indiscutibilmente eroico -
dell'optare per un ammaraggio e del realizzarlo. La storia di Sully
è quella di un uomo che deve giustificare, nell'ansia che segue ogni
tragedia attraversata, la propria scelta eroica. L'eroe conclamato è
visto nella difficoltà, nudo. È seguito dalla telecamera nel mentre
paga il prezzo dell'eroismo, come un uomo qualunque. Come tutti. Tom
Hanks interpreta la sofferenza dell'eroe in maniera sempre
equilibrata, davvero eccellente.
Il
parallelo con Snowden -
lontano dalla pensione, giovane, promettente, in carriera,
dotatissimo, patriota ed innamorato – è il confronto con un ignoto
del quale il protagonista scopre di essere non
spettatore, bensì parte integrante, funzionale ad un sistema di
schedatura che concresce autonomamente, svincolato da ogni controllo
giurisdizionale. Avevo promesso di mantenermi a distanza dalla
critica cinematografica, ma mi risulta impossibile non parlare di
quel movimento di camera, nel finale, che, transitando dietro allo
schermo del computer
portatile fa scomparire Joseph Gordon-Levitt rivelando allo
spettatore il volto di Edward Snowden in carne ed ossa. Vale l'intero
film, e lo dico senza
cattiveria. Un momento di grandissimo, commovente cinema civile
americano in grado di donare una speranza ed una forza che,
personalmente, avevo dimenticate.
In comune vi è
sicuramente l'aspetto della responsabilità, intesa nelle due
pellicole nelle sua accezione più nobile: non tanto il portare a
compimento un impegno assunto quanto l'accettazione delle sue
conseguenze. L'indagine ministeriale per 'Sully', l'esilio forzato
per Snowden.
Qui
non si tratta di raccontare come va a finire. Si tratta di provare a
capire perché due grandi, affermati registi, connazionali, abbiano
simultaneamente avvertito l'esigenza di narrare vicende solo
apparentemente diverse e distanti. Il bisogno dell'eroe – da non
confondersi con il nostrano, ciclico bisogno dell''uomo forte' –
denota l'assenza, nelle sfere decisionali, di persone capaci di
assumersi responsabilità vere. Capaci di scegliere (impossibile,
qui, non citare quello scrittore dal cuore grande come l'America che
è stato David Foster Wallace, con le sue bellissime riflessioni
sulle “[..] cause che travalicano l'interesse personale [...]”,
quando ebbe a scrivere sulla campagna di John McCain). La critica è
sicuramente rivolta alle facce che popolano un certo stabile di
Pensylvania Avenue, a Washington DC. E a casa nostra? Riuscite
davvero, in questo contesto, a non pensare a Virginia Raggi? Io no.
Ho sostenuto, moralmente, la sua candidatura. Una donna, giovane, a
capo della città più problematica e grande d'Italia. L'opportunità
di finalmente mostrare la forza di decisioni controcorrente, prese
con cognizione di causa (quanto Snowden e Sully hanno fatto
rispettivamente). E se funziona a Roma è probabile che l'esempio sia
replicabile altrove. Ebbene, mi sento, oggi, come chi ha acquistato
un'auto rotta pagandola come nuova. Non dubito del carico
gravosissimo che questa persona si è trovata sulle spalle, e che
curverebbe chiunque al suo posto. Ma questo è l'impegno che lei e i
Cinque Stelle hanno scientemente voluto assumersi. Questa
responsabilità è stata chiesta a gran voce da lei e dalla compagine
che l'ha sostenuta. Forse Virginia Raggi dovrebbe andare un po' più
al cinema e un po' meno in riunione con Beppe Grillo. Scoprirebbe di
persone in grado di prendere decisioni vitali in 208 secondi (!), e
dell'esistenza di giovani brillanti e promettenti, esattamente come
lei, disposti a rinunciare ad “una vita normale, un buono
stipendio, carriera, famiglia”, semplicemente per fare 'la cosa
giusta'. E che tutta quella merda trovata a Roma, insomma, è roba
risolvibile, consente una reazione - senza, tra l'altro, il rischio
di finire nel Tevere con l'intera giunta al seguito, o sottoposto a
waterboarding in uno
scantinato a Il Cairo.
Questo immobilismo, ormai lungo un semestre, non consente
giustificazioni. Con la sua gestione capitolina, incessantemente
sbandierata – e qui mi rivolgo al movimento, più che alla persona
-, non si è riusciti nemmeno nel fare 'la cosa sbagliata'. Siamo
all'inazione, alla paralisi decisionale. L'esatto opposto di Chesley
Sullenberger ed Edward Snowden.
È di queste ore
la notizia della piena disponibilità della giunta Raggi alla
costruzione di un nuovo stadio. È come se Chesley Sullenberger
avesse optato per un rientro al più vicino aeroporto, replicando
ottusamente quanto praticato in simulazione. E Edward Snowden avesse
proseguito indifferente nell'attività comandatagli, perché,
dopotutto, per citare il connazionale medio, “io faccio solo quello
che mi dicono di fare”: vivremmo in un mondo totalmente privo di
fiducia nel prossimo, e senza alcuna speranza.
Grazie a questi
eroi, il farsi di tale apocalittica prospettiva è rimandato ancora
per un po'.
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