[…] Got my red glitter coffin, man, just need one last nail
[…] Racist everyman, what have you done?
Man, you've made a killer of your unborn son. . .
[…] Crown my fear your king at the point of a gun
All I want to do is love everyone. . .
[…] There's no time for hatred, only questions
Where is love, where is happiness, what is life,
where is peace?
[…] And tell me where is the love in what your prophet has said?
Man, It sounds to me just like a prison for the walking dead
And I've got a message for you and your twisted hell
You better turn around and blow your kiss goodbye
to life eternal angel. . .
[…] Ecco la mia bara rosso sgargiante, manca solo l'ultimo chiodo
[…] Nullità d'un razzista, che hai fatto?
Amico, hai reso il figlio tuo mai nato un assassino. . .
[…] Incorona la mia paura al cospetto di un'arma. . .
tutto ciò che voglio è amare il prossimo
[…] Non c'è tempo per odiare, solo domande
dov'è l'amore, dov'è la felicità, cos'è la vita,
dove sta la pace?
[…] E poi dimmi dove sta l'amore nelle parole del tuo profeta?
Amico, sembra a me più una prigione per morti
Ed ho un messaggio per te e il tuo inferno di sbarellati
Fai meglio a voltarti e dare il tuo saluto alla vita eterna, angelo. . .
(Jeff Buckley, Eternal Life)
libera traduzione di Stefano Parenzan©
Alla luce dei recenti fatti di Parigi, non sono incredibili queste liriche?
Per me, la strage di Parigi è stata la sparatoria al Bataclan, il luogo simbolo, quello che nella grandiosa confusione ingenerata da ogni evento abominevole assume la curiosa funzione di segnalibro mentale. L'immagine delle due persone appese alle sue finestre è un chiodo sparato nel cervello. Il teatro, dunque. Lo stesso dove nel 1995, l'autore di Grace teneva un concerto poi finito su vinile; la stessa persona che di lì a due anni avrebbe conosciuto – chi lo sa? - quella 'vita eterna' cantata nel testo; lo stesso dove due settimane addietro quelle liriche sembrano avere avuto un'influenza esotericamente ispirante, per i folli che hanno scelto (?) il pubblico degli Eagles Of Death Metal come strumento di un'azione eclatante. Leggete il testo attentamente, se già non lo conoscete. È del 1994, ma potrebbe essere stato scritto a caldo della strage. Il teatro è il luogo dove va in scena il canto e la rappresentazione della vita, dove l'essere umano può trovare modi e tempi per riflettere, piangere o ridere della propria vicenda. Non sarò mai sufficientemente grato a mia moglie per avere trascinato un villico come me, più di dieci anni fa, alla prima rassegna teatrale della sua vita. Fu amore a prima vista (oltre che della consorte, del teatro).
Ho sentito discutere, alla radio, di un testo di recentissima pubblicazione, intitolato – spero di ricordare correttamente - I Fatti Di Parigi Spiegati Ai Bambini. Si parlava della necessità, sentita come civile, di spiegare ai piccoli l'orrore di quanto accaduto. In questi frangenti mi sento vecchio. Penso ancora che ai bambini l'orrore vada risparmiato (che – sebbene non l'abbia mai avuto tra i preferiti – è la tesi morale portante del film, Oscar 1999, La Vita È Bella, ed anche l'unica ragione per cui lo cito). È materia prima che abbonda, su questa terra. Ne disponiamo in tale quantità da non doverci preoccupare del suo razionamento per le generazioni future come per quelle che stanno crescendo or ora. Verrà presto il tempo, per i giovanissimi, quando, loro malgrado e senza l'ausilio di sciagure planetarie, dovranno fare i conti con l'orrore che gli verrà sottoposto dalla loro stessa sensibilità. Ho l'impressione – brutta – che questo bisogno sia, da una parte, incapacità degli adulti a fronteggiare l'orrore in alcune delle sue forme; da un'altra, strumentalizzazione di un bisogno naturale – la comprensione che segue alla curiosità – per fini indicibili. Penso che la più patetica della frottole sia preferibile, per dei piccoli, alla più chiara e semplice spiegazione dell'orrore di qualunque fatto – escludendo quanto ci tocca vivere in prima persona. Prepariamoci, piuttosto, al giorno nel quale ci verrà chiesta giustificazione di orrori non glorificati da dirette televisive, streaming e prime pagine. L'orrore del non detto, della consuetudine, del quieto vivere, del rispetto incondizionato e di chissà cosa altro. Non ci saranno sussidiari in grado di venirci incontro. Solo il nostro livello di crescita personale.
Parliamo ora di noi italiani, popolazione giustamente e ripetutamente bastonata – e sanzionata - da 'quelli di Bruxelles' per le reiterate inosservanze nei mille campi della competenza comunitaria. Come la mettiamo ora che a Milano si prosegue ininterrotti la movida sui Navigli mentre nella città sede del parlamento europeo regna – ha regnato - il coprifuoco? L'allievo supera il maestro. Limitando la polemica alla famigerata 'questione dei flussi', sembra evidente che quelli belgi non siano stati amministrati “mica tanto bene” - come direbbe Salvini. Mi sento certo di una cosa. Già si parla di sospensione del trattato di Schengen – realtà ratificata, della quale ognuno, a livello comunitario, ha già dato prova di disporre a proprio piacimento. Quando fallirà – se fallirà, insieme con il concetto di continente federato -, sarà anche grazie al largo contributo di queste realtà nazionali, Francia e Belgio. Quando la popolazione è invitata per ordinanza a restare in casa, non solo tu non sai chi è presente sul territorio: non sai nemmeno chi è presente nel giardino di casa. Casa tua. Per me l'Europa è già finita, unione monetaria di popoli inconciliabili nella quale ho creduto con innocente candore, ancora ventenne, convinto di un futuro di comunione e condivisione culturale oltreché giuridica – mentre ora siamo qui, barricati in casa con il fucile a pompa sempre carico, come il protagonista di Gran Torino.
I funerali di stato concessi a Valeria Soresin mi sono sembrati fuori luogo. Immagino la sua famiglia li abbia accettati in preda a quella forma di lucidità che a volte si acquisisce nel lutto, e non sperimentabile a priori. In Francia Valeria Soresin vi si è recata perché da noi la carriera accademica in un campo come la demografia – e non solo in quello- è impresa infausta per motivi che conosciamo benissimo ed è quindi superfluo analizzare. Sappiamo tutti, difatti, che, uscita viva dal concerto degli EODM, avrebbe proseguito incensita - e beatamente ignorata dagli apparati accademici italiani - la sua vita di cervello in fuga. Va da sé, quindi, che lo stato che le ha attribuito questi onori è lo stesso dal quale presumibilmente era in fuga. È un gesto ipocrita. Denota un senso di colpa sorprendente per una classe politica come la nostra. Al che mi sovviene che proprio in quanto tale non fa nulla per nulla, ed anche le esequie dell'unica vittima italiana della strage di Parigi diventano allora l'occasione per denunciare una sacralità violata che ben si addice alla conduzione di certe manovre - per il cui avvallo il presidente francese va cercando alleanze proprio in queste ore. Ma soprattutto un modo 'furbetto' per tenere buono il vicino di casa che si sta facendo violento. Da noi – cazzo, diciamolo! - sarebbe finita, magari, in qualche cesso di teatro-tenda alla performance de Il Volo, pausa in un dottorato gratuito a tempo indeterminato, incerto nello svolgimento della carriera. Poco altro da dire. C'è morte e morte.
Ora che, come è giusto che sia, si cerca di vincere la paura appunto affrontandola nella sua più recente incarnazione occidentale – i luoghi di ritrovo, culturali, culinari ed atletici -, ecco comparire Jovanotti con sottobraccio la promozione della sua nuova tournée nei palazzetti. Non per lucro – quando mai? Bensì con il pensiero a Parigi, per “[...] continuare a fare questo mestiere. Celebrare la vita, la libertà, nel nostro linguaggio universale che è la musica”. Ma stare zitti no? Nessuna sorpresa, quindi, se Adelmo Zucchero Fornaciari si permette di dichiarare che la musica di oggi è “un panino farcito alla merda”. Voglio sperare abbia contemplato anche l'amichetto nel mentre di questa gustosa riflessione. La strage erompe? La bomba esplode nel mucchio? Novanta persone ed altrettanti feriti rimangono a terra? "È qui la festa." (La giustizia divina ha già operato per punire questa mia arroganza. Leggo su La Stampa, il quotidiano che scambia il proprio direttore con quello di Repubblica, proprio come un avvicendamento in panchina – non era Calabresi a parlare spesso e bene delle opportunità da dare ai giovani? -; leggo che il Cherubini sarà direttore per un giorno – troppo – delle sue pagine culturali. Ed in quale occasione? La quattro date torinesi del nostro. Sempre con il pensiero rivolto a Parigi, certo. Si sprofonda nell'abisso).
Una qualche mente bacata ha proposto l'esecuzione dell'inno francese a precedere gli incontri di Champions League, come non bastassero le già obbligatorie giornate della memoria (Messaggio per i posteri – mia figlia-: nulla è più fascista, prepotente e prevaricatore di chi ritiene le tue facoltà intellettive – e quindi selettive e mnemoniche – suscettibili di un qualsivoglia precetto. Allontana come un appestato tutti coloro che vogliono sacro per te ciò che è sacro per loro. La sacralità imposta è sempre interessata.).
Ricordo male o la Francia mai ha proposto l'esecuzione del nostro inno, in occasioni ufficiali, importanti, per 'alcuni fatti' avvenuti nella tarda sera del 27 giugno 1980?
lunedì 30 novembre 2015
sabato 14 novembre 2015
MARKETTA (CON LA K). Andare in brodo per un singolo di Adele.
Ho trascorso più di metà della mia
vita a coltivare ascolti di qualità, snobbando letteralmente tutto
quanto recasse anche solo una lontana parvenza commerciabile, e
sempre più rifugiandomi nelle nicchie – poche, ma eccellenti (non
ultima quella rappresentata da Public Service Broadcasting, il mio
prossimo live obbligatorio).
Per questo, mai avrei pensato che, di
questi tempi, mi sarei trovato ad accostare la macchina al solo fine di prestare ascolto, incantato, ad una delle regine della vetusta, e
relativissima, hit parade: Adele.
Come non poteva non essere, Hallo, il
nuovo singolo di Adele, è in testa alle classifiche di diversi
paesi. Quindi il tipo di ascolto che scarto di default da
decenni e per il quale nutro un interesse paro a quello per la
politica nostrana. Nullo.
Il fatto è che quando l'auto-tuning
mi ha portato sull'attacco della canzone, su quel primo “Hallo”
che giunge inaspettato come la telefonata narrata nel testo, non ho
potuto far altro che obbedire all'incantesimo.
Hallo è una canzone perfetta. E
bellissima.
Il soggetto
è semplice. Adele è una ragazzaccia che ha spezzato il cuore ad un
maschietto. Fine della storia. Ognuno per i fatti suoi,
allontanamento, sensi di colpa, assenza di notizie. Fino a quando la
nostra non trova il coraggio di comporre quel numero di telefono,
segretamente conservato negli anni. E allora: “Hallo”. Pronto.
Sono io.
La voce, calda e rotonda, priva di
spigolature (al contrario di certe apprezzatissime urlatrici
nazionali che non citerò); la dizione impeccabile (il modo in cui
pronuncia e canta, tutto d'un fiato, “It's so typical of me to talk
about myself I'm sorry”, è da scuola di canto, lezione di
fraseggio, e vale l'acquisto su Itunes); le armonie semplici ed
interamente asservite all'esaltazione della voce (magistralmente
riuscita); la produzione attenta (il missaggio con la voce 'in
avanti' da brivido); la quasi totale assenza di escandescenze (il
brano prende ritmo solo sul finale, senza concessioni accattivanti,
tipo virtuosismi, acuti o distorsioni). La sospetta banalità del
pentimento della protagonista è fugata dal tono pacato e dalla
grazia del cantato. Ma anche il femminismo psicologicamente maturo
della canzone (non dimentichiamo che è la protagonista a prendere
l'iniziativa e a riconoscere le colpe, e senza un Eros Ramazzotti che
provvede al controcanto consolatorio e rassicurante – in culo a
Tina Turner e a I Belong To 'Sto Cazzo'), contribuisce al risultato
finale. Parla ad un cuore spezzato con grazia e garbo, come tante
volte, forse segretamente, vorremmo vedere trattata la nostra più
intima sensibilità.
Un classico, potenzialmente. Ed anche
qualcosa di più, se si ha il coraggio di ammetterlo.
Oggi non crediamo a papa Francesco:
figuriamoci al produttore e al manager di Adele.
Adele Adkins viene da un lungo periodo
di assenza dovuto al blocco dello scrittore – o, almeno, così ci
dicono. Il singolo giunge dunque a sorpresa un po' per tutti. E –
guarda caso – di cosa parla? Di un evento inatteso. Ha venticinque
(!) anni, ma la bellezza matura di una trentenne (afferrate? La
sofferenza invecchia, e così la narrazione ne guadagna). Ha il vezzo
– e la pigrizia – di intitolare i suoi albums con la cifra
della sua età al momento della pubblicazione (ho già prenotato
Fourty-seven, Adele: vedremo se ne avrai il coraggio). C'è l'arte
del commercio, a sorreggere Adele, il suo singolo e l'album
che seguirà. Eppure. . .
Anche intorno a Lionel Messi vi è una
cura finalizzata al massimo risultato per sponsorizzazione,
mantenimento dell'immagine, mantenimento dell'interesse mediatico ed
alimentazione costante della leggenda. E questo, obiettivamente, non
rende il suo calcio giocato meno spettacolare. Andrò oltre, per
intenderci. Apple è il colosso mondiale del commercio, e nonostante
tutto continua a produrre ottimi computers. Non
necessariamente, quindi, ciò che è commerciabile deve essere
carente nella qualità (vogliamo parlare dei Duran Duran?).
Adele è un'artista giovane e brava. Ha
il successo che merita.
Ignoro se dal vivo sia in grado di
riprodurre le magie sintetizzate in studio. Per questo motivo, non
andrò al suo concerto: per non rovinare la bellezza ripetuta di
questo ascolto.
In un'epoca come la nostra, dove tutto
è urlato, dall'elemosina alla mestruazione, Hallo è davvero una
canzone salvavita.
domenica 1 novembre 2015
TROPPO POLITICO. Riflessione sulla malsana concezione della politica da parte degli italiani.
Sono
politico, che c'è di strano?
Ho il nome
di Santoro e il cognome di Gaetano
(Caparezza)
Ho consigliato un libro
di Marco Travaglio ad una conoscente che mi ha consultato per una
lettura su fatti di attualità recente. “Ma Travaglio. . . come
dire: è troppo politico”, replica lei.
Onore al Caparezza –
comunista – per avere anche questa volta anticipato e codificato
l'ennesimo episodio di ignoranza dilagante, della quale ormai ci si
può solo prendere gioco.
Come ci si convince, in
regime di totale assenza di letture, che qualcosa è troppo politico?
Meglio: chi può indurre una simile opinione? Risposta: Silvio
Berlusconi, Laura Pausini, Il Volo, Carlo Conti, Fiorello, il
Festival di Sanremo, One Direction, Alessia Marcuzzi, Jovanotti.
Non voglio in questa sede
prendere le difese di Marco Travaglio. Non lo conosco di persona e
penso non abbia bisogno della mia assistenza. Possiedo un solo suo
libro – Montanelli & Il Cavaliere –; ho letto la prefazione –
brillante – a quello di Bruno Tinti – Toghe Sporche -, e leggo di
frequente i suoi editoriali su Il Fatto Quotidiano.
Ho riletto Montanelli &
Il Cavaliere proprio per verificare, a debita distanza temporale,
quanto di politico vi sia, effettivamente, nei lavori di Marco
Travaglio.
Cerchiamo di capirci.
Questo libro, che ricostruisce la vicenda italianissima del classico
siluramento di chi si è opposto alla prepotenza del padrone, è
quanto di meno politico vi sia in circolazione. Travaglio scrive ed
enuclea i fatti con stile e rigore da verbalizzante di Polizia. In
quattrocento e più pagine, poche chiose ai paragrafi fanno
trasparire il giudizio estremamente negativo che l'autore ha
dell'ex-premier. L'intento di tanta asciuttezza sembra essere quello
di testare il lettore attraverso una presentazione del materiale tale
da metterlo di fronte ad un atto di responsabilizzazione, consistente
nel giudicare da sé fatti che, se non suscitano alcun moto di
indignazione od un sano interrogativo, sono segno di taciuta
connivenza. Al tempo dell'uscita dell'interessante documentario di
Erik Gandini, Videocracy, venne scritto sulle pagine del
'Corriere' che se la popolazione italiana non è in grado, da sé, di
immunizzarsi da simili storture, non si poteva certo pretendere che
igiene e profilassi civili venissero operate da una pellicola. È
vero. Siamo in grado di vedere e riconoscere solo ciò che già
conosciamo. Quindi perché in assenza di cultura democratica si
ritiene un autore come Travaglio troppo politico? Per i più, la
colpa – tutta italiana – di Marco Travaglio è quella di prendere
posizione in maniera appassionata, al punto da risultare, come si è
detto, troppo politico persino a chi di politica non si è mai
occupato.
Noi esseri civilizzati
(mi si conceda la definizione) siamo politici a prescindere. Quando
ci accusano di fare troppo i filosofi, si è di fronte ad una mezza
menzogna. “Non si può che filosofare”, diceva Kant. Piaccia o
no, persino il tuo parere sul truzzo eliminato al televoto del Grande
Fratello ha una valenza politica. Il giudicare senza pregiudizi è
una stronzata che la scuola – per citarne una – sembra non avere
ancora arginato.
Troppo politico è in
realtà un'accusa che rivela una propria, intima paura: quella del
vedere mortalmente attaccata da un'opinione o un parere la sicurezza
piccolo borghese di chi il culo lo ha sempre avuto al caldo e ben
impomatato. Di chi in una verità appurata da un collettivo vede solo
la minaccia alla propria ereditata serenità. Di chi non ha il
coraggio di una presa di posizione, ignorante al punto da non
rendersene conto.
I danni del berlusconismo
- giusto per esprimere un parere politico -, operati su vasta scala da
coloro che dall'ex-cavaliere si sono sentiti ispirati, e maggiormente
sul piano culturale, vanno oltre gli aspetti monetari denunciati da
Marco Travaglio in tempi non sospetti. Il danno consiste nell'avere
convinto una fetta considerevole della cittadinanza della
pericolosità e del sospetto che, secondo questa compagine, si annida
dietro ogni opinione opposta allo status quo,
con il risultato di avere persuaso di ciò milioni di persone.
L'aggettivo è spesso – o sempre – confuso con il sostantivo, e
'troppo politico' diventa così il giudizio linguisticamente basic
con il quale si opera una squalifica che è dettata da paura, per
imposizione, con prepotenza.
Non ho infine compreso
cosa realmente volesse da me la persona che mi ha chiesto consiglio
per una lettura – e perché a me.
Anni fa, studente e
libraio estivo per l'amico Gianni, consigliai il Diario Di Un Vecchio
Sporcaccione di Bukowski alla commessa dell'esercizio attiguo. Smise
di parlarmi, ma ebbe il coraggio di portare a termine la lettura –
e di giudicarlo solo allora.
lunedì 5 ottobre 2015
RADIO KAOS. Le chiacchere da bar delle emittenti nazionali.
Da quando il lettore CD della macchina
ha misteriosamente smesso di funzionare, ho affidato il mio
sostentamento musicale itinerante alla sintonizzazione automatica. Spero cioè
che il dispositivo trovi per me un'emittente degna di ascolto, e che
al contempo non intasi la testa con gli stessi 'liquami' della rete.
Finisco puntualmente con il trarre la stessa conclusione ogni giorno.
Finisco puntualmente con il trarre la stessa conclusione ogni giorno.
Il panorama FM nazionale è
musicalmente sconfortante. Sembra tutto un susseguirsi di brutte
canzoni e musiche tamarre con rarissime incursioni di eccezionalità
(Kasabian, Gazzè-Fabi-Silvestri, Caparezza, Depeche Mode d'annata e poco altro, e please: che nessuno osi dirmi di avere dimenticato i Foo Fighters, perché son botte),
interrotto solo dal blaterare dei conduttori - finalizzato a
riempire spazi di programmazione stabiliti al secondo. Tutto è
lecito, purché politicamente corretto. Tutto irrilevante ed
approssimativo, pur di evitare anche solo pochi secondi di silenzio
(mi è capitato di sentire un conduttore dire che Every Thing She
Does Is Magic dei Police “è inserita in quel disco con il titolo
in francese. . . come si chiama? Non lo ricordo più. Vabbè: ci
siamo capiti”. Il disco oggetto di oblio è, presumibilmente,
Outlandos d'Amour. Non è francese, e non ospita la canzone – che
si può invece sentire in Ghost In The Machine. Facciamoci del male).
La hit del momento, sempre
facilmente riconoscibile, può essere sentita in differita, anche di
pochi secondi, sui vari canali, nelle diverse fasce orarie. E questo
svela la bufala della
cosiddetta 'radio alternativa', visto che l'alternativa non c'è.
Persino le radio che si definiscono
rock , a sottolineare la differenza, non sono che stazioni
partorite da quella generazione ora adulta, incapace di riconoscere
che dopo i 'Floyd' vi sono ancora gruppi geniali ed interessanti (es.
Arctic Monkeys)
- e che quindi propinano via etere né più né meno quanto girava
sugli impianti stereo delle loro camerette nei pomeriggi dei compiti
con le canne. Nulla di alternativo, quindi. E pure proposto con le
stesse fastidiose modalità comunicative della concorrenza (Qualcuno ricorda la performance degli Arctic Monkeys all'apertura delle Olimpiadi di Londra? Personalmente è stata l'ultima volta che ho visto, come direbbe Adriano Celentano, qualcosa rock. Questi quattro giovani che dal cuore depresso cronico dell'Inghilterra approdano sul palco dello Wembley Stadium, in mondo-visione; con Alex Turner vestito e pettinato come un Teddy Boy; come i Beatles leggendari delle notti di Amburgo; con un passo da veri duri di periferia, e che attaccano a suonare con un piglio tipo non speriamo-che-vada-bene, ma: “Hey, mondo: spero TU sia alla nostra altezza”, rappresentano uno spettacolo impagabile. E la cover di Come Together, specie nelle strofe, è ipnotica e bellissima).
Ci si accorge allora che molte musiche
già le si conoscono perché colonna sonora di pubblicità di griffe
dell'alta moda: a volte presentate come tali – e qui
l'identificazione con il prodotto è bestiale ed oltrepassa l'aspetto
promozionale -, altre volte senza preparazione – tecnica
psicologica subdola e letale (es: le canzoni di Cremonini per
l'Algida).
Dove le frequenze lo permettono, si
aprono siparietti inaspettati e a volte divertenti di musica latina.
Twerking, sesso precoce, grigliate in spiaggia la domenica e
mancata integrazione sono le immagini evocate da un ascolto di anche
pochi secondi. E pensare che c'è chi ne fa pratica nel ballo con
dedizione da musicista classico.
Il comparto 'nostalgia' è
rappresentato da tre arieti come Up-Radio, Radio Nostalgia, e Otto
FM, isole dove ancora si può incontrare un paese che si commuove per
Cindy Lauper o alza le braccia al cielo – magari mentre al volante
– al suono dei Tears For Fears; dove Whitney Houston è ancora viva
e gli Spandau Ballet sono in classifica (la stessa Otto FM non
dimostra pudore alcuno, presentandosi – appunto – come “la
radio dei Tears For Fears”, inducendo confusione tra proprietà,
esclusività e fanatismo).
Raramente la ricerca si conclude senza
una sosta di sintonizzazione su Radio Zeta.
Radio Zeta è un'emittente che fa
riflettere. Fa riflettere su questa italietta della della porta
accanto, del vicino di casa, della spesa all'apertura del
supermercato, del neo-melodico nordista; di pranzi abbondanti e cene
alla festa del paese; di prime toccatine al suono dell'orchestra
ospite e alle fantasie erotiche sulla zia prosperosa. È sempre
estate su Radio Zeta. Secondo me, dopo un fallout nucleare,
due realtà sopravvivono: le cimici e le telefonate in diretta a
Radio Zeta. Secondo Indro Montanelli, la vera Italia era forse quella
dei venti milioni inchiodati davanti al video di Sanremo. Radio Zeta
è la conferma a questo sentore. Almeno per un suo terzo.
E poi c'è Radio Maria. “In auto
ascolto sempre radio Maria. Anche perché è inevitabile: accendi la
radio, c'è radio Maria. Cambi stazione, becchi ancora Radio Maria!
Com'è possibile? - È un miracolooo! - Un miracolo o antenne
vaticane cancerogene.” (Daniele Luttazzi – Bollito Misto Con Mostarda, Feltrinelli 2005).
Ciò che risulta mancante nel nostro
panorama radiofonico è una tradizione di talk radio – quella
del film dimenticato di Oliver Stone, per intenderci -, con
una eccezione: Radio Padania Libera. Nel senso che è l'unica che
pratica il genere – con quali risultati, verificatelo sulle sue
frequenze dopo un respiro profondo (Radio RAI3 – Dio la preservi a lungo – nella sua eccellente
programmazione, nei suoi approfondimenti, non pratica questo format:
alla talk radio preferisce il confronto in diretta, a più
voci e mediato. Ecco perché Radio Padania Libera vanta questa
unicità. Quanto a Radio Padania Libera, i suoi discorsi mi ricordano sempre i davidiani di David Koresh. Troveranno mai la loro Waco padana?).
Nel panorama uniforme e geriatrico
dell'informazione radiofonica, ci si può imbattere in passaggi
tipo:“passeremo in rassegna le notizie del giorno con un tocco di
leggerezza, lasciando da parte le notizie cattive”, sui quali mi rifiuto di commentare; o in quelli più
professionali di eccellenti emittenti indipendenti, rovinate da
presentatori con difetti di pronuncia o parlate fastidiosamente
regionali.
Isole felici? Sì, ve ne sono: Radio
RAI3, quantomeno per la coerenza del palinsesto (sebbene anch'essa,
in un contesto di ascolto random, può presentarsi con
rassegne di musica antica che altro non fanno che aumentare le
vendite dei Bon Jovi); Radio RAI2, nella prima e seconda serata, e a
seconda dei conduttori, unica a proporre le sofisticatezze del
panorama electronica internazionale; Radio DeeJay, quando Linus si fa
umile perché ha in studio gli Elio E Le Storie Tese – e non Emis
Killa – per il settimanale di Cordialmente.
Yehudi Menuhin raccontò in una
intervista di sentirsi violato dalla musica nei supermercati e centri
commerciali. Per quanto improntato ad un intellettualismo sterile,
trovo tutt'altro che scontato sottolineare che un ascolto privato
della libera scelta e del pensiero sia fortemente alienante –
esattamente quanto avviene con l'auto-tuning.
Ho recentemente riascoltato Brad
Mehldau, a casa e sdraiato sul divano. E al di la dell'aspetto
tecnico, ciò che ammalia in questo pianista meraviglioso è la
costante ricerca della musica percepita dentro di sé. È forse la
qualità che più caratterizza la figura del musicista vero. È un
atteggiamento che il musicista attua nell'esecuzione per conferire a
questa un senso il più alto possibile. È un atteggiamento che noi
tutti possiamo attuare nell'ascolto per risolvere una parte del caos
e conferire alle nostre vite un senso altrettanto alto, lontano da
ogni pratica assimilativa automatica ed incontrollata.
lunedì 21 settembre 2015
CRIMINAL INTENT. L'inconscio criminale dell'italiano medio.
Non è esaltato dalla serie televisiva,
ed anche nel film di Michele Placido – sebbene impersonato da
Stefano Accorsi – non emerge. Solo nel suo parto originale, quello
cartaceo, il commissario Nicola Scialoja è presentato per ciò che
è: giovane, in gamba; coraggioso; affrancato da ogni protezione
corporativa e politica; intelligente, testa calda e solo. Cioè
arredato di tutti quegli orpelli che fanno di una persona un eroe.
Eppure nessuno, parlando del fenomeno
Romanzo Criminale, ha mai citato Scialoja allo stesso modo e con la
stessa frequenza del Freddo, del Nero, Dandi, “Libbano” o di
altri personaggi similari. Mai sentito dire “che ganzo, Scialoja!”,
come sovente avviene, invece, per i criminali del 'Romanzo'.
Anche nel film la caratterizzazione dei
personaggi sembra conferire maggiore rilievo alla frangia criminale
(si pensi al Nero, impersonato da Riccardo Scamarcio: bello,
fascinoso, giovane, aitante e letale. Fino a quando non lo si vede
prelevare una persona dalla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 -
azione che lo riconsegna istantaneamente al giudizio sulla sua vera
natura -, chi non si innamorerebbe di uno così?).
Nikita Nabokov diceva che la buona
letteratura è quella che suscita in noi velleità letterarie. Ed è
proprio questo che il meccanismo narrativo di Romanzo Criminale
attiva nell'inconscio dell'italiano medio: la sua parte criminale
(che non si concretizza, ma nemmeno gli consente un moto empatico nei
confronti del commissario). Una giustizia disposta ad avvalersi di
una persona come Scialoja, fa paura, all'italiano medio. Potrebbe, di
fatto, restituire noi un paese nel quale le doppie vite, fatte di
sotterfugi, appoggi non dichiarati ed apparente legalità,
risulterebbero non più praticabili. Nel quale, per farsi strada,
verrebbe finalmente richiesto, impegno, dedizione, coraggio e il
rispetto delle regole del gioco. Ecco spiegate, forse, le ragioni di
questa tendenza.
È stato Pulp Fiction di Quentin
Tarantino il primo film che, in Italia, ha estetizzato i gangsters
al punto da farne fonte di citazione per schiere di illetterati (Il
Padrino di Francis Ford Coppola si limitò, al tempo, alla semplice
loro rappresentazine). Con una differenza, però. Pulp Fiction è un
film su criminali visti da criminali; in azione, cioè, nel loro
habitat naturale. Mentre in Romanzo Criminale – il libro -
lo scontro tre bene e male è presente, voluto: non vi si può
sfuggire, ed obbliga ad una presa di posizione. (Quando parteggi per
Julius o per Wolf, ritenendoli migliori di un Vincent che si fa
ammazzare seduto sulla tazza, sei già compromesso: hai solo scelto
il meno peggio. Ma c'è una via d'uscita: affrontare le brutalità
pulp con cinica ironia – ridervi sopra, in tal modo
esorcizzandola - e se non disponete di senso dell'umorismo siete
semplicemente da compatire.
Nei tredici anni lungo i quali si
dipana la vicenda del 'Romanzo' – dal sequestro Moro ai giorni che
precedono Tangentopoli -, Nicola Scialoja intercetta, a pelle prima e
con l'investigazione dopo, tutte le dinamiche che oggi sappiamo avere
caratterizzato quel periodo travagliato. Il muro di gomma,
l'eterodirezione, la squalifica, la carriera per volontà politica.
dinamiche che noi tutti possiamo sperimentare nel nostro quotidiano
da civili, e che Scialoja, da tutore dell'ordine, esperisce con uno
sconcerto che girerà in cinismo.
Certo: è anche una bella testa calda,
Scialoja. Ama fare di testa sua, in barba alle regole. Ma sempre alla
ricerca appassionata della giustizia ad ogni costo – motivo che
dovrebbe permetterci di amarlo ulteriormente, ma che ancora non basta
per fare di lui un eroe nazional-popolare. Nella nostra sovente
disperata vita nazionale, la risposta di Scialoja all'opportunista,
irriconoscente Sandra Reynald - “Fregare quanti più bastardi
possibile.” -, dovrebbe suonare come vero e proprio grido di
battaglia cui dare supporto ogni qual volta avanzato dai più
valorosi dei tutori dell'ordine; e da far risuonare al nostro interno
quando di fronte a soprusi, prepotenze e sotterfugi del nostro
quotidiano.
Nicola Scialoja. Commissario di Polizia
tra il sequestro Moro e l'avvento di Tangentopoli; successivamente
direttore dell'”Ufficio logistica e informazioni sulla criminalità
del Ministero degli interni […]. Non si e mai sposato.”
Un eroe dei nostri tempi.
martedì 8 settembre 2015
MONEY FOR NOTHING. La grande bufala dei megaconcerti.
Mi accorgo solo ora che gli U2 hanno
suonato in Italia, ed io, per la prima volta in trentatré anni, ho
prestato all'evento la stessa attenzione che do alle parole di un
Renzi o di un Lupi. Nulla.
E dire che si trattava di un evento non da poco: doppia data con apertura del tour , tutto esaurito e prove in loco (Torino). E che canzoni come A Day Without Me, Gloria, Red Light, A Sort of Homecoming, Wire, Indian Summer Sky, hanno illuminato e reso accettabile la mia adolescenza. L'incontro con la bellezza e la profondità.
Nulla. La più totale indifferenza.
E dire che si trattava di un evento non da poco: doppia data con apertura del tour , tutto esaurito e prove in loco (Torino). E che canzoni come A Day Without Me, Gloria, Red Light, A Sort of Homecoming, Wire, Indian Summer Sky, hanno illuminato e reso accettabile la mia adolescenza. L'incontro con la bellezza e la profondità.
Nulla. La più totale indifferenza.
Settimane addietro, stavo seguendo il
prime time di Radio Rai2, quando l'evento è stato oggetto di una
promozione di quindici, venti minuti (marchettone), lungo i quali la
conduttrice ha raccontato, in preda ad irrefrenabile entusiasmo,
della corsa planetaria all'approvvigionamento dei biglietti. Ecco
perché oggi me ne sono infine ricordato. Cifre da weekend
lungo in Liguria per un solo ingresso. Intere famiglie in trasferta
per assistere alla doppia data. Il recordman della stagione,
ci informano senza vergogna, è un brasiliano, con circa
milletrecento euri sborsati per tre ingressi – ai quali vanno
aggiunti trasferta e soggiorno. E ce lo raccontano a sottolineare come
questi sì che sanno il fatto loro! Pur di soddisfare il buon gusto
che li caratterizza, non badano a spese. Non come noi.
Buon gusto? Ma se sono anni ed anni
che questi ex rockers non fanno altro che sfornare dischi
tutti uguali, deludenti, banali; e dare loro seguito con tours
il cui unico fine è quello di fare cassa. “Ah, imperdibili!”, ti
dicono.
Bene. Se questa gente per te è
imperdibile – e parlo di U2, Springsteen, Rolling Stones, Madonna,
Metallica, Ligabue, Vasco, Eros, Lorenzo e tutti coloro che non si
fanno scrupoli a chiedere centoventi euri per un terzo anello -, il
tuo profilo rientra di fisso tra i seguenti. Sei:
a) John Fitzgerald Kennedy (come JFK,
la ricchezza di famiglia ti protegge dalla crisi in corso, e come
lui ne diverrai consapevole solo fra qualche anno [il presidente
scoprì quella del '29 negli anni quaranta, studente ad Harvard]);
b) Carlo Massarini (sei una leggenda
vivente del tuo paese, e godi di accrediti per ogni evento, cioè
entri gratis);
c) Joe Kavanagh (sei così disperato
che accetti il ruolo di piccolo corriere della droga pur di
assistere al concerto);
d) Pamela
Des Barres (non ti accontenti di una data: vedi tutte quelle
nel tuo paese ed un buon numero di quelle continentali, ma ,a
differenza delle groupies, paghi tutto);
E questi del servizio pubblico che
fanno? Ti raccontano dell'asta al rialzo illimitato per conquistare
non uno, bensì più biglietti, al prezzo che per molte famiglie è
il mensile – o neanche.
Segue ora un elenco random di artisti
visti dal sottoscritto, con relativo tariffario:
- Billy Cobham - € 16;
- Mike Stern - € 20;
- Anathema – gratis;
- Paco De Lucia – L. 22.000;
- Stefano Bollani ed Enrico Rava (ft. John Scofield) – € 18;
- Steve Grossmann – gratis;
- Brad Melhdau Trio – gratis;
- Paolo Fresu – gratis;
- Dave Kilminster e Guthrie Govan - € 16;
- Bansky - £ 3;
- Damien Rice - € 26;
- Caparezza - € 15;
- Marta Sui Tubi - € 14;
Capiamoci: nussun artista può chiedere
le cifre che la conduttrice di Radio Rai2 ci ha somministrato come un
farmaco generico. Nessuno di loro vale quelle cifre. Se è possibile
– e lo è – sentire Daniel Baremboim in platea alla Scala per
quaranta euri, e vedere Bansky per tre sterline – cifra calmierata
dallo stesso artista: che genio -, va da sé che quando gli Stones te
ne chiedono centoventi, è in corso un inganno – questo sì
'diabolico'.
Che il servizio pubblico impieghi una
simile leggerezza in tempo di crisi, è piuttosto sconcertante.
Che nello specifico, a farlo, sia
Radio Rai2, un canale che parla ai giovani, la categoria cioè più
sfruttata e colpita da questa crisi, è – come cantava un altro
grande nostro artista - 'Fuori dal Tempo'.
lunedì 7 settembre 2015
TUTTI I BAMBINI DEL MONDO. La tragica fine del piccolo Aylan Kurdi.
Dopo una crisi iniziale, ho riguardato
le due foto di Aylan Kurdi con un po' più di distacco.
Mi sono così tornate alla mente le
lezioni di Pier Paolo Pasolini ad un immaginario 'ragazzo di vita'.
Quelle sull'estetica. Quando spiegava al giovane Gennariello di come
le cose ci parlino.
Eccomi allora tornato sui banchi di
scuola, a scrivere il tema: cosa ci dicono le foto del piccolo Aylan?
Nella prima, il piccolo Aylan è
riverso sul bagnasciuga. La spiaggia dove giace il suo corpo, almeno
nella porzione delle scatto, è deserta. È solo. Solo nella morte,
con i suoi tre anni.
Il suo corpicino esangue, con ancora
l'abbigliamento estivo fatto di scarpine, pantaloni corti e maglietta
rossa, sembra quello di un bimbo esausto dopo una giornata
ininterrotta di giochi. Ma non è così. È riverso in discesa, le
braccia allineate lungo il corpicino, il viso mezzo affondato nella
battigia. È la postura più innaturale che un bimbo possa assumere. Innaturale come la sua morte.
La magliettina rossa ci ricorda la
bimba ebrea di Schindler's List e, paradossalmente, la bandiera del
divieto di balneazione; ma sopratutto l'inadeguatezza
dell'abbigliamento per una traversata notturna, il freddo terribile
che Aylan avrà provato nelle sue ultime ore, nonostante l'abbraccio
caldo e disperato della sua mamma.
La sabbia ha di sicuro invaso gli
occhietti, le narici, la bocca ed ogni altro orifizio madre natura ha
voluto rendere accessibile, luoghi nei quali, con i nostri figli, non
permetteremmo la presenza di una singola briciola.
Sullo sfondo, la presenza di pattume
ed altri detriti equiparano la restituzione del corpo di Aylan a
quella di un tronco, di un pezzo di legno. La par condicio
della natura.
Nello scatto successivo, un agente
della guardia costiera turca, realizzato il compito che dovrà
affrontare nella giornata di servizio, raccoglie le spoglie del
povero Aylan.
Quanto può pesare un bimbo di tre
anni in fuga dalla guerra e ramingo da giorni o settimane? Non più
di tredici chili, il peso medio di un essere umano della sua età in salute.
Il peso medio del bagaglio a mano che tutti noi portiamo senza fatica
quando ci apprestiamo ad un viaggio aereo. Eppure il corpo del
guardacoste è ricurvo come sotto il peso di decine di chili. Grava
su questo uomo il peso morale, politico ed umano di un'intera
comunità continentale. Non lo tiene saldo al petto – come faremmo
tutti noi con un carico innocuo -: lo tiene a distanza. Come un collo
radioattivo.
Nella versione video di questa
tragedia, l'agente viene visto, però, condurre le spoglie di Aylan
dietro uno scoglio poco distante, a dare cioè riparo ai resti di una
creatura violata troppo presto nel diritto all'innocenza, alla
felicità, alla sicurezza di una famiglia. Alla vita. Lo occulta alla
vista, dietro a quello che diviene una camera mortuaria open air,
ma dietro al quale sparisce anch'egli – e dove sono certo avrà
praticato quei riti di decenza e pulizia che, sul corpo di un
bambino, precedono la notifica all'autorità competente e l'arrivo
del coroner. Un angelo, forse.
Non so se il fotografo dell'Associated
Press abbia scattato queste foto d'stinto o razionalmente. Ma è certo
che, come ha sottolineato Mario Calabresi, sono destinate a fare
storia allo stesso modo di altre ormai abitanti il nostro immaginario
collettivo. Risvegliano le coscienze assopite dal sapere che Aylan
non è il primo a perire in simili circostanze e non sarà l'ultimo.
Ci ricordano che in una comunità che si dice civile ed avanzata non
si può morire a tre anni, solo, affamato, infreddolito, orfano,
negli occhi l'orrore di una tragedia civile – la guerra - ed epica – il naufragio con la famiglia -, rinvenuti da un bagnino
o da un turista, trasportati dalla corrente.
Quando la politica avrà trovato una
soluzione “all'altezza della storia”, a noi tutti toccherà un
compito di identica levatura: realizzare che, proprio per l'amore nei
confronti dei nostri figli, a fronte di identica tragedia adotteremmo
identica soluzione – certi che i nostri bimbi non meritino la fine
toccata al piccolo siriano.
Sempre Calabresi, ha ricordato come la
morte di Aylan Kurdi, tre anni, in fuga dalla guerra insieme alla sua
famiglia, possa essere per ognuno “l'occasione per fare i conti sul senso
ultimo dell'esistenza”.
Buona fortuna a tutti noi.
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