sabato 12 marzo 2022
GIOVENTÙ BRUCIATA. L'inadeguatezza 'millenial' di fronte alla guerra.
mercoledì 2 febbraio 2022
IL DIRITTO ALLA CARTA IGIENICA. Le vuote rivendicazioni degli studenti al tempo della pandemia.
Al tempo della scuola superiore (dovevo essere al primo o secondo anno), ricordo che presi parte ad uno sciopero, con tanto di corteo in strada, voluto e indetto dai rappresentanti delle singole classi, unitamente a quelli di istituto.
I primi erano spesso ragazzi alla ricerca di un posizionamento sociale, e soprattutto gerarchico, all'interno dell'istituto, sovente avvertito come luogo sottilmente aggressivo e carico di pericoli, mentre i secondi sembravano quasi sempre soggetti prelevati all'uopo da remoti riformatori maschili, talenti che, ben prima del suo inserimento nel Manuale diagnostico dei Disturbi mentali, avvenuto nel 2013, avevano nella naturale predisposizione al bullismo il loro tratto distintivo.
Un po' al fine evitare la squalifica sociale – pratica puntualmente esercitata su tutti coloro che non davano agli scioperi la loro adesione -, un po' per la paura di venire malmenato a titolo dimostrativo ed esemplificativo, ma soprattutto nel tentativo appassionato di saltare il più alto numero di ore di lezione, come si suol dire, scesi in piazza.
Ricordo, tra le motivazioni della protesta, che quella avanzata con maggiore rabbia e sdegno dalle rappresentanze era – udite udite - la mancanza di carta igienica nei bagni della scuola, carenza giudicata sistematica ed inaccettabile, e pertanto meritevole di essere combattuta a colpi di striscioni e di megafono.
Fu quindi così che Stefano Parenzan, più brufoli che anni, intorno la metà degli anni '80, rivendicò, con la propria presenza lungo le strade periferiche della città (a quell'ora di metà mattina, completamente deserte), il diritto degli studenti aronesi a nettarsi il culo con abbondanza di mezzi.
Quando
ripenso a questo episodio, realizzo quanto è stato lungo, nel paese,
lo strascico delle dimostrazioni sessantottine.
Fu a quel tempo,
infatti, che l'ambizione - arrogantissima - ad ergersi al di sopra
dell'istituzione scolastica venne dichiarata, a volte tacitamente,
altre violentemente, diritto inalienabile, ed inculcata, da allora,
nelle menti sempre facilmente plasmabili di mediocri e facinorosi,
mentre per i più opportunisti divenne il cavallo di battaglia per
carriere politiche in molti casi brillantemente dischiusesi.
Questo,
per i tempi che furono.
Stamane
(1 febbraio), molti degli approfondimenti dei media
tradizionali sui fatti del giorno si sono soffermati sugli scontri
dei giorni scorsi tra studenti e Polizia in diverse città del paese,
con i primi a dimostrare il loro sdegno per la morte sul lavoro di un
coetaneo e i secondi ad eseguire l'ordine di impedire la
manifestazione in quanto costituente assembramento in zone dichiarate
arancione. Risultato: botte da orbi, feriti e le immancabili, trite
polemiche del giorno dopo.
Alcuni portavoce dei manifestanti
(qualche centinaio, questi ultimi, ma ugualmente autodichiaratisi
rappresentativi di un micoruniverso di oltre sette milioni di
studenti) sono stati degnati di interviste ed inviti in salotti da
talk show grazie ai
quali è stato possibile ascoltare la loro versione dei fatti, le
motivazioni alla base della protesta, le richieste (!) dei vari
cortei e financo i consigli per riformare al meglio – secondo loro
– il mondo della scuola.
Della cronaca dell'accaduto, però, il
particolare che mi ha maggiormente colpito è la putrella di cartone
che i giovani manifestanti intendevano donare alla sede di
Assolombarda (siamo a Milano), a simboleggiare quella che, circa una
settimana fa, in uno stabilimento di Udine, ha schiacciato
mortalmente uno studente in tirocinio scuola-lavoro.
Non ho
potuto, di fronte ad un gesto tanto teatrale quanto inane, non
ripensare a quello sciopero per la carta igienica di quasi 40'anni
fa, a quanto poco sia cambiata, la scuola italiana, nella percezione
degli studenti, così come la loro visione del cosiddetto
mondo-fuori.
Noi, allora, sapevamo poco o niente di tutto. Ciò
era dovuto non solo ad un'ignoranza palpabile, ma anche, e in misura
non trascurabile, all'assoluta mancanza di conoscenza delle cose
della vita, inconsapevoli appartenenti, quali effettivamente eravamo,
alla cosiddetta Generazione X, figli cresciuti in un paese dove le
grandi emergenze sociali (scuola, lavoro, sanità, sicurezza) erano
già state affrontate e risolte – per quanto in maniera
raffazzonata ed approssimativa - da coloro che li avevano messi al
mondo. La nostra esperienza di vita era pari a zero, non disponevamo
di alcun titolo né di studio né tantomeno morale per avanzare
richieste che non fossero, appunto, quelle per qualche rotolo di
carta igienica.
Ciò che più mi rattrista, ed anche mi irrita,
però, è constatare come questo giudizio - inappellabile, a mio
parere – calzi perfettamente anche ai giovani manifestanti
fronteggiati giorni fa dalla Polzia, che, a ragion veduta, potrebbero
ben essere i nostri figli.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il
vaso è stata l'accusa, rivolta da uno dei loro rappresentanti nel
corso di una diretta radiofonica, al sistema scolastico di
valutazione, reo di avere provocato il suicidio di uno studente in un
liceo scientifico del barese, due mesi fa - vittima, secondo il loro
modo di vedere, di un voto, di un giudizio, tanto severo da risultare
insopportabile, e quindi rimediabile solo con un gesto estremo.
Poche
voci si sono alzate intimando loro di tacere. Che ne sapete, voi, di
lavoro, del mondo del lavoro, di quale razza di vita conducano i
vostri genitori una volta usciti di casa la mattina? Che idea avete
di sacrificio? Chi credete di impressionare, con quella putrella di
cartone? Quale differenza siete certi di fare? Quanti di voi
rivendicano a gran voce l'importanza di una scuola diversa, in grado
di fornire ai giovani una visione solidamente culturale, ma già
meditano, domani, di iscriversi ad economia e commercio, ingegneria,
medicina, perché meglio dottori, ingegneri e primari che poveri
pezzenti? È davvero questa, la vostra 'rivoluzionaria' visione del
mondo? Queste sono le domande che, secondo me, andavano rivolte
all'accusatore e, per estensione, alla comunità dei manifestanti. Il
diritto di parola andava esercitato nei loro confronti dandogli
l'opportunità di rispondere a queste semplici domande e non
predisponendosi ad un ascolto privo di ogni tensione critica.
Cari manifestanti, la verità è che, voi, “non sapete nulla, del mondo
reale. Siete andati a scuola meno di Greta Thunberg”, ed ora
pretendete di dettare le linee-guida del paese. Dite di voler abolire
la prova scritta all'esame di maturità scrivendone la proposta
direttamente al Ministro dell'Istruzione, ma lo fate con un lessico
ridotto al minimo e con una sintassi che denuncia tutta la vostra
inadeguatezza al ruolo che vi siete arbitrariamente assunti. Vi dite
rappresentanti, ma non siete stati eletti da nessuno. Andate in giro sostenendo che il quattro dato alla vostra impreparazione è un'onta
insanabile, e nel mentre ignorate chi è sopravvissuto ai campi di
sterminio, alle guerre, alla povertà più nera e ad una traversata
del Mediterraneo a bordo di una bagnarola. Vi ritenete vittime di tutto quanto non si presenti voi come accessibile, inclusivo,
precotto, in grado di consentire un percorso privo di sobbalzi e
perfettamente aderente alle aspettative. Vi ritenete vittime ed in effetti lo
siete. Ma non del sistema: di voi stessi.
Che dirvi,
quindi?
Benvenuti nella vita vera, ragazzi.
domenica 7 novembre 2021
LIBERI DA CHE COSA? Radio Freccia e la musica di Kurt Cobain.
Kurt Cobain non era una persona maleducata: era una persona disperata e sincera. Il materiale video che lo ritrae in contesti non performativi - oggi disponibile in rete in quantità industriale, per quanto non sempre di buona fattura – ne fornisce una testimonianza palpabile e a tratti struggente - almeno per coloro che lo hanno davvero amato, come artista e come persona.
Non ho motivi per assumere in questa sede – come, d'altronde, in qualunque altra - la difesa di una rockstar che, per quanto leggendaria e financo defunta (o forse leggendaria, per i più, proprio perché defunta), ha sempre saputo tutelare autonomamente la propria persona semplicemente assumendo, a seconda dei frangenti, atteggiamenti schivi quando non freddamente o smaccatamente ironici (per capirci, ad un giornalista che si era permesso di chiedergli se gli piaceva la vodka, riducendolo in tal modo, seduta stante, da artista ad enologo, rispose senza preamboli ne chiose: “I like vodka”).
Ne ho invece diversi, di motivi – e qui sta il punto -, per attaccare a testa bassa i tanti che, in terra italica, ne strumentalizzano da tempo la memoria facendo leva, principalmente, su due punti: l'ignoranza olimpionica di quest'ultima generazione - cui tutto può essere raccontato, certi di vedervi tributato il suo solito, apatico credito - e la distanza trentennale che separa questi tristi giorni dall'opera e dalla scomparsa di Cobain – fattore respingente cui solo una buona memoria nell'ambito del costume e della cultura pop è in grado di opporsi.
Nutro una vera e propria ossessione, per quelli di Radio Freccia, un po' come la sinistra pidina con Berlusconi ai tempi d'oro di quest'ultimo (i tempi d'oro del PD non li ricorda probabilmente nemmeno Enrico Letta). Si spacciano per gli alternativi, portatori di una non meglio specificata esperienza di vita, puntualmente ventilata ad ogni jingle, manco fossero reduci da una guerra o da una turnazione con Emergency. E lo fanno bellamente in un contesto, quello dell'emittenza-radio nazionale, dove è completamente assente ogni vera alternativa o forma di concorrenza (a meno di non considerare come tali stazioni-radio quali Radio Capital o Virgin Radio), uomo solo al comando.
Quest'anno ricorre il quinto compleanno di Radio Freccia. Per festeggiarlo, è stata realizzata una serie di spot audio-video nei quali gli autori dell'emittente (ma esistono davvero? E chi sono?), al suono di alcune tra le più significative canzoni di Cobain e dei suoi Nirvana, hanno inserito le peggiori fregnacce che si potessero imbastire in una simile occasione ed in un simile contesto.
Ecco di seguito, in esclusiva per i sempre più radi lettori di Sala Colloqui, alcune delle cialtronerie di cui sopra, e, fra parentesi, i titoli dei brani ai quali sono state impunemente associate. Giudicate voi (sintassi e punteggiatura a cura della spettabile azienda Radio Freccia).
Ci conosciamo bene. Siamo sintonizzati sulla stessa frequenza. [Radio Freccia] Libera come noi (In Bloom).
Per noi la libertà è una cosa diversa. … liberi di guardare un film che racconta una storia che non hanno il coraggio di vivere (Polly + Smells like Teen Spirit).
Ci vuole fegato per vivere in questo mondo folle... ci vogliono un sacco di cose per vivere in questo mondo folle. A darti il rock ci pensiamo noi. Riesci a prendermi, vita? Se non ci riesci, è perché ballo forte. E se non ti stringo la mano, è perché ce le ho entrambe per aria (In Bloom).
È il rock, l'unica freccia che più ti colpisce e più ti fa sentire vivo (Breed).
Mi immagino, qui, Cobain con il fucile in mano, qualche attimo prima di spararsi in testa. E che quelli di Radio Freccia (gli 'sfrecciati', come amano definirsi), per un caso fortuito, stiano passando davanti a quell'americanissimo ed alquanto comune capanno per gli attrezzi, così cogliendo Cobain proprio nel mentre sta puntando il fucile. Cobain li vede, lancia loro uno sguardo supplice, implora davvero per l'ultima volta di dargli una buona ragione per non farlo, la speranza che vi sia ancora una soluzione da tentare. E loro: - Kurt, no! È il rock, l'unica freccia che più ti colpisce e più ti fa sentire vivo.
BUM!
Molte delle canzoni di Cobain – ed in particolar modo quelle impiegate da Radio Freccia per suoi recenti spot celebrativi – sono caratterizzate da un'impostazione sostanzialmente non-ideologica, amorale. Non impartiscono lezioni né, tantomeno, hanno la pretesa di costituire viatici à la carte per qualsivoglia tipo di condotta. Sono piuttosto canzoni impregnate di sofferenza, di disincanto, di ironica amarezza – tratti, questi, facilmente riconducibili ai trascorsi abbandonici vissuti da Cobain in infanzia e buona parte dell'adolescenza. Giovanilismo, disagio psichico, esclusione, la disperazione nello sguardo altrui, la ricerca di un briciolo di sincerità nei rapporti umani, sono tutti aspetti del vivere che proprio le canzoni di maggior successo dei Nirvana hanno fatto risuonare in animi spesso spenti e indifferenti – non esclusi quelli di molti fan -, attraverso la voce rabbiosa, a tratti implorante, di Cobain – e va da sé che quel che cantava era fuor di dubbio sé stesso, la sua visione nera e bipolare della vita. Ecco: nessuno – dico, nessuno – di questi temi è in alcun modo riconducibile agli arbitrari e manipolatori montaggi operati dalla redazione di Radio Freccia. Il loro messaggio – sempre che si sia disposti ad individuarvene uno od anche più – è qui integralmente distorto a fini meramente autocelebrativi e commerciali (commuove, nel tentativo di dare seguito a quest'ultima considerazione, il ricordo dello scatto del fotografo statunitense Mark Saliger per quella che fu la prima copertina di Rolling Stone dei Nirvana [aprile 1992], quando Cobain si presentò sul set indossando una maglietta con la scritta Corporate-Magazines-still-suck).
Quella della manipolazione delle parole, della distorsione senza scrupolo della verità altrui, della più irrispettosa strumentalizzazione, è un costume che, in Italia, ha attecchito, più o meno, in quel lontano aprile del 1994 (un caso, certo, ma alquanto significativo). Qualche giorno prima del suicidio di Cobain, infatti, un partito fondato con un solo anno d'anticipo sulle elezioni politiche, si piazzò al primo posto con uno sconcertante score del 21%, in tal modo travolgendo tutto quanto politicamente ed ideologicamente l'aveva preceduto. Il nome del partito era Forza Italia, e con il consenso creditatogli in cabina elettorale il paese aveva dato credito alle sue promesse per un futuro fatto di fica, caviale e champagne. Da allora la pianta è cresciuta, le sue ramificazioni hanno lentamente, ma inesorabilmente, invaso ogni ambito del paese: politico, civile, culturale. L'italiano medio è passato da una condizione di semianalfabetismo ad una apparentemente più innocua di compiaciuta passività, dove la circonvenzione è supinamente accettata a patto di saperla composta da atteggiamenti tonitruanti, immagini patinate, vocabolario basic, una malcelata bibliofobia ed un opportunismo raro. In termini mediatici, esattamente quanto Radio Freccia va praticando con gli spot dell'anniversario. Libera come noi, quindi, di dire tutto e il contrario di tutto (non si dimentichi che la coalizione vincente in quell'aprile funestato dalla scomparsa di Cobain rispondeva, appunto, al nome de Il Polo delle Libertà): l'importante, è farlo in altissima definizione.
Ma a questo punto, passando da Kurt Cobain a Vasco Rossi, da Aberdeen WA a Zocca (MO), ad un territorio, cioè, a noi più familiare, viene proprio da chiedersi: “Liberi, liberi / liberi da che cosa? / Chissà cos'è?”.
sabato 9 ottobre 2021
LE IDIOZIE DELLA PICCOLA AMBRA MARIE. La generazione dei senza-vergogna.
Eppure, per molti conduttori delle nostre miserrime emittenti-radio commerciali, sembra proprio che tre decenni non siano un tempo sufficiente per produrre, al riguardo, una riflessione, almeno per una volta, seria, profonda, in grado di restituire agli ascoltatori quello che fu il clima nel quale canzoni come Smells like Teen Spirit, In Bloom, Come as You are, Lithium, letteralmente esplosero in faccia agli ascoltatori, musicalmente imberbi quando non del tutto analfabeti.
La conseguenza principale di tale inettitudine riflessiva mi sembra oggigiorno ben rappresentata dall'anacronismo del fenomeno Måneskin, in Italia, e – giusto per pareggiare i conti e sentirci un po' meno soli nella miseria - da quello ancor più triste degli statunitensi Greta Van Fleet, altrove.
In uno spettacolo di qualche anno fa, lo stand-up comedian Jimmy Carr, colpito dall'espressione basita di uno degli spettatori delle prime file, chiosò sarcasticamente che esiste un livello di comprensione sotto il quale non è consentito assistere ad una serata di stand-up comedy, pena l'estromissione dalla sede dell'evento (“There's a level of minimum understanding, here. You know what I mean?”).
Contorto quanto volete, ma è a questo che ho pensato, giorni addietro, quando ho sentito tale Ambramarie, una delle conduttrici di Radio Freccia – l'emittente radiofonica con il più alto tasso di crescita negli ascolti del paese –, inanellare una serie di castronerie da stazione-radio locale.
Portata ad una strana forma di eccitazione sconosciuta ai più dall'ascolto di Ohio, di Crosby, Still, Nash & Young, la nostra ha prima affermato di sognare una vita negli anni '60 o '70, evidentemente ritenuti similari; o, in alternativa, nel 1991, anno nel quale, per l'appunto, i Nirvana pubblicavano Nevermind - periodo tra i più difformi, per quanto possibile, dai conflittuali, travagliati due decenni appena citati.
Il
tempo di mandare in onda il brano e la nostra è già sulla
difensiva.
- Non vorrei aver dato l'idea di una che vuole essere
una 'hippy' o un figlio dei fiori, o roba così -, dice. - Io non so
neanche cosa sono, gli 'hippy'. Sono degli stivali, forse? -.
A
parte il mancato uso del congiuntivo e la finta modestia, sui quali
si potrebbe aprire un post a sé stante, per tornare alla
frecciata di Carr, c'è davvero un limite inferiore a ciò che ci si
può permettere di non comprendere, pena l'inclusione nella sempre
più affollata categoria dei subnormali.
Lungi da me il voler assumere qui o altrove la difesa di una categoria – quella degli hippy - sostanzialmente estinta, fatta eccezione per l'assurdo stoicismo di alcune sacche di disadattati ancora presenti sul territorio nazionale. È certa di essere estremamente simpatica, Ambramarie, o quantomeno di risultare tale all'attenzione del suo seguito.
Cito integralmente dal suo profilo, così come pubblicato sul sito di Radio Freccia (ortografia, lessico e tipografia a cura dell'autrice):
“Ambramarie, classe 1987, inquieta e curiosa per indole (miei coglioni!, n.d.r.), si avvicina al rock dall’infanzia, quando tra le mani e le orecchie le capita il greatest hits 'Cross Road' di Bon Jovi (caspita, davvero un disco seminale, n.d.r.). Più avanti, nell’adolescenza, con 'Post Orgasmic Chill' degli Skunk Anansie (mai senza, n.d.r.) si rende conto che è proprio quello che vuole fare nella vita: la cantante ruuuuoookkk (Wow!, n.d.r.). Forma la sua prima e attuale band a 17 anni, vivendo tra un furgone sgangherato e la sua amata mansarda, dove si rinchiude a macinare dischi e film, sdraiata con la pizza sul letto (e questa è la stessa che non vuole essere scambiata per una hippy, n.d.r.). Si appassiona follemente al mondo della radio dopo aver visto il film I love Radio Rock (parallelo tra la radio pirata del film e Radio Freccia, davvero senza vergogna, n.d.r.), perché libertà e ribellione sono l’unica via per essere felici e cambiare veramente Qualcosa (scritto con la maiuscola, ma se ne ignora il perché, n.d.r.).”
Curioso ed illuminante che la nostra ometta elegantemente la partecipazione ad X Factor come il suo essere stata tra le prime 'grandi promesse' del programma.
All'uscita di Nevermind avevo 21'anni, e la sua forza d'urto mi colpì come una vergine al primo rapporto. Impiegai del tempo a realizzare che questo disco per me straordinario era invece considerato da Kurt Cobain una sorta di sottoprodotto, un disco estremamente commerciale il cui fine era compiacere quella gioventù – il 'teen spirit' - già allora senza arte né parte della quale io pure ero parte integrante ed attiva; una registrazione dal cui suono Cobain diceva di non sentirsi rappresentato.
Oggi davvero si può dire tutto e, minuti dopo, il contrario di tutto, senza nemmeno l'ansia derivante dalla possibilità, divenuta assai remota, di venire scoperti. I personaggi a la Ambramarie sono ormai la normalità, e non c'è morale o cultura - checché ne dicano gli intellettualoni del paese - che possa arginarne la deriva. Indignarsi, come io faccio spesso, serve a poco o a niente. Questi fenomeni vanno affrontati e sconfitti sul loro terreno di gioco, lì dove si sentono maggiormente protetti, al sicuro – un po' come quando si riesce nell'impresa di umiliare la squadra più forte del torneo nella partita che questa gioca in casa. Scendere in campo, sporcarsi le mani, accettare la sfida secondo regole altrui, ironizzare senza pietà e in maniera pungente, senza rimorso, contro questa generazione di senza-scrupoli, di senza-vergogna. Con il fare messo in campo sistematicamente nel corso dello spazio tributatole settimanalmente da Radio Freccia, Ambramarie sarebbe stata schifata dai suoi tanto decantati idoli pop sia come hippy che come nativa di Olympia WA. George Harrison, che visse con il massimo candore possibile la grande illusione dell''estate dell'amore' 1968, scappò letteralmente a gambe levate quando, in visita al quartiere di Haight-Ashbury, in quel di San Francisco, vide con i propri occhi in cosa realmente consisteva la cosiddetta cultura hippy. Quanto a Cobain - che la nostra vorrebbe vicino a sé per mezzo di reincarnazione nell'anno 1991 - che dire? Forse che anche per fuggire dalla stupidità e dall'ipocrisia di persone come lei Cobain si tolse la vita. È sufficiente leggere con calma i suoi diari, per capirlo.
Ma per sentire, al riguardo, cazzate firmate Ambramarie, abbiamo tempo fino all'aprile 2024.
lunedì 4 ottobre 2021
LA PROFEZIA DI 'AMERICAN BEAUTY'. Il fenomeno delle dimissioni volontarie.
Ebbene,
a più di 20'anni di distanza da quel film, davvero strepitoso sotto
ogni punto di vista, il tema della qualità del lavoro torna oggi
prepotentemente alla ribalta.
Nel paese si registra un fenomeno mai conosciuto prima - se non, appunto, attraverso il cinema -, del quale, tanto per cambiare, non si parla, essendo il dibattito risaputamente monopolizzato dalle crisi di mezza età piccole e grandi dei partiti politici: le dimissioni volontarie – scelta, quest'ultima, imputabile con quasi assoluta certezza al periodo di lockdown recentemente vissuto, dove molti, pur nella difficoltà a volte estrema, hanno chi scoperto chi riscoperto una vita non più fatta di ritmi disumani, di competizione, di assenza di limiti, bensì di affettività, di cose semplici come poterebbe essere il preparare un pasto, leggere un libro in tranquillità o riposare il necessario. Ma, soprattutto, una vita dove è possibile ritrovare l'ascolto del proprio sentire interiore, profondo, l'aspetto che maggiormente ci caratterizza in quanto persone.
Gli
aziendalisti sono coloro che meglio di altri hanno vissuto – ed in
alcune sacche ancora vivono – la grande illusione del lavoro come
soluzione al male di vivere (quasi sempre, il proprio).
Alla pari
di certi partner gelosi, per i quali l'amore è vissuto come
un sentimento esclusivo, l'aziendalista tende a vedere il proprio
rapporto con il datore di lavoro in identica maniera, escludendo, in
un misto di gelosia e competizione, tutti coloro - eccellenze incluse
- che, praticando un diverso atteggiamento, li mettono indirettamente
in discussione.
Va da sé, però, che, da parte di molte realtà
lavorative, l'aziendalismo è tacitamente incentivato, con le
conseguenze che è possibile leggere nell'articolo di Francesca Coin
'La nuova Economia delle Dimissioni', apparso stamane su Il Fatto
Quotidiano.
Provate a chiedere ad amici e conoscenti, possibilmente attivando il vostro personale rilevatore di sincerità, quanti di loro si sentono veramente gratificati dall'attività lavorativa svolta, quanti, cioè, trovano nel lavoro quell'ambiente professionale ed umano definito da Primo Levi – che sul tema del 'lavoro inutile' ha scritto pagine destinate a restare nei secoli – come “la più grande approssimazione alla felicità sulla terra”.
Io, l'ho fatto. E vi posso assicurare che quel che riceverete in risposta, nella stragrande maggioranza dei casi, sarà la denuncia, da appartenenti alle più disparate e – a volte – insospettabili categorie, di una condizione mista di frustrazione e disincanto. Nessuno più, per tornare al film di Sam Mendes, è disposto a tollerare un mondo del lavoro dove la principale attività, troppo spesso, dice il protagonista, Lester, “... consiste fondamentalmente nel mascherare il mio disprezzo per quegli stronzi dei miei capi e, almeno una volta al giorno, nel ritirarmi nel bagno degli uomini per farmi una sega, mentre fantastico su una vita che non somigli per filo e per segno all'inferno”.
Non mi permetterò, qui, di affermare che il lavoro da casa (il fottuto smart working) è identico in tutto a e per tutto a quello d'ufficio. Ma è chiaro che l'inaspettato successo di questa modalità denuncia, essenzialmente, il disagio grande di molti lavoratori sia per la logistica dei trasferimenti, mai realmente implementati, sia per il rapporto umano devastante - disruptive, direbbe uno psicologo - con i colleghi della specie aziendalista – artefice, in passato, grazie alla fede cieca che la caratterizza, dello sviluppo industriale del paese, ed oggi, nel globalizzato mondo dell'anno 2021, vero e proprio cancro sociale.
Se in 30'anni siamo passati della ricerca del lavoro alla dimissione volontaria, ciò sta a significare che negli ultimi 20 la profezia di American Beauty è divenuta realtà.
mercoledì 7 aprile 2021
LIBIA - ITALIA / 1 - 0. L'oscuro piacere del perdere con l'ultima in classifica.
Cioè... mi fa impressione vedere Mario Draghi impegnato all'estero nella veste di Presidente del Consiglio (e, per favore: basta con 'sto premier, ché la maggior parte di coloro che impiegano il termine lo fanno ignorando ogni sua effettiva implicazione).
A me viene da dire che, se sei
l'esponente primo di un governo tecnico – e Draghi lo è -, devi
volare basso, limitarti a fare esclusivamente quel che è richiesto
dal tuo ruolo, nulla più.
Un governo tecnico è quello chiamato a
risolvere specifici problemi 'qui ed ora'. Decisioni politiche che
possono avere conseguenze impattanti e durature, non gli
competono.
Ma poi mi ricordo a quale paese appartengo, e tutto
torna ad essere a suo modo chiaro, rispondente, come sempre, alle sue
sole ed oscure logiche interne.
Ancor più impressione, però, mi
fa il vederlo a colloquio con quei suoi pari che il destino (si fa
per dire) ha voluto alla guida dei cosiddetti paesi-catorcio, luoghi
nei quali, messa da parte tutta la retorica umanitaria e
disgustosamente moralista della sinistra nostrana, nessuno di noi
vivrebbe più di un mese senza pensare di spararsi.
È il caso
della Libia.
Draghi
si è complimentato con il collega del governo libico per quanto il
suo paese fa in merito ai salvataggi in mare (!). Che è come
ringraziare Putin per le sue battaglie a favore della libertà
d'opinione o l'Arabia Saudita per la difesa dei diritti civili.
Ha
poi promesso di “facilitare le procedure
dei visti
a favore dei libici aumentando il numero di quelli rilasciati
specialmente a studenti, uomini d’affari, malati, oltre a
facilitare le procedure della comunità libica in Italia anche per
quanto riguarda banche e residenza” e “borse di studio per gli
studenti libici” (Il Fatto Quotidiano, 7 aprile).
Sarà anche un
governo tecnico, questo. Ma a me ricorda molto il PD.
Ha financo
prospettato un ritorno agli accordi bilaterali in auge al tempo di
Gheddafi – non so se mi spiego.
Nei
miei sogni bagnati, raffiguro spesso i nostri rappresentanti
governativi annunciare strette cooperazioni con la Danimarca (un
paese che, solo per fare un esempio, costruirebbe il ponte di Messina
in meno di due anni, se solo ve ne fossero le concrete, serie
intenzioni).
Ma una volta sveglio, è la dura realtà a prendere
il sopravvento: Salvini e la Russia, Renzi e l'Arabia Saudita, Draghi
e la Libia.
Insomma,
dopo l'Egitto, altro splendido paese che, con il caso Regeni ed il
più recente caso Zaki, strizza le palle del nostro governo almeno
una volta la settimana, ora anche la Libia può divertirsi allo
stesso modo dei loro vicini, nella quasi assoluta certezza di vedere
soddisfatte tutte le richieste avanzate ieri l'altro al buon
Mario.
Questo perché, dietro la fuffa programmatica
dell'innovazione a tutto tondo, l'Italia va ancora a carbonella. E la
carbonella di cui abbiamo bisogno come del pane si chiama petrolio.
Meditate, gente.
Meditate.
venerdì 29 gennaio 2021
CATTIVI MAESTRI. Billie Eilish, l'olocausto e la generazione sdraiata.
Accendo la radio come di consueto (il senso di solitudine, ormai, richiede tante piccole misure di contenimento, nell'arco della giornata, e questa è una). Ed ecco che a metà mattina (è il fottuto giorno della memoria) mi becco il pippotto in diretta di una maestrina tutta infervorata a spiegare come, “per i nostri ragazzi... che non sanno niente, nulla di nulla”, sia più che mai importante, oggi, la formazione “di una memoria storica”.
Scusa?
Chi legge queste pagine o i miei sfoghi su Facebook sa già come io la pensi su Shoa e dintorni. Per gli altri (la stragrande maggioranza, ahimè) è forse utile precisare, senza tanti giri di parole, che, per quel che mi riguarda, l'argomento storico dello sterminio è una sentenza passata in giudicato, affrontabile, cioè, con quel distacco, dettato anche dall'arco temporale, in grado di garantire, oggi, una visione estremamente lucida e documentata di quanto accaduto, senza che ad ogni piè sospinto, nel corso di dibattiti storici, politici o più genericamente culturali, chicchessia debba sentirsi autorizzato a ricordare noi che, 76 anni fa, in Europa, abbiamo avuto Auschwitz – come invece è successo da noi con l'istituzione della giornata della memoria, fortemente voluta dalla sinistra nostrana per il semplice fatto che nel campetto in Polonia vi fecero irruzione i russi: fosse toccato agli australiani, ci sarebbe stato concesso di dimenticare in tutta serenità.
Detto questo, alle parole della sedicente insegnante, non ho potuto che rivolgere il mio pensiero ai ragazzi, a questa generazione che non amo, ma che mi sembra abbia più di una buona ragione per fregarsene di tutto e tutti. Anzitutto fregarsene di noi adulti: di me che scrivo, di quelli convinti che quel che serve loro, nell'anno 2021, sia la memoria storica, come di quelli che credono fermamente che questa generazione non stia aspettando altro che il loro appoggio, la loro condivisione o, peggio, il loro consiglio.
Nonostante non lo apprezzi più da tempo (la superiorità morale della sinistra vecchia guardia mi è divenuta intollerabile), è stato Michele Serra, con il suo romanzo Gli Sdraiati, quello che, a mio parere, ha meglio definito e fotografato la generazione dei millenials, così come il travaglio tutto nuovo che essa ha scatenato nel mondo adulto, dove schiere di genitori, illusi di possedere soluzioni al passo con i tempi per vincere l'estraniamento di un figlio adolescente, ne provocano, in realtà, l'ulteriore – e, a volte, estremo – allontanamento. Consiglio a chi è interessato al tema della formazione di includerlo nelle proprie letture, senza però darmene notizia, perché negli ultimi tempi queste manifestazioni di interesse mi confermano puntualmente il fraintendimento di quasi ogni lettura. Quindi: fottetevi.
Mia figlia, otto anni, mi parla da tempo di Billie Eilish, la ragazza statunitense che qualche anno fa è stata partorita dal buco nero di Internet divenendo un fenomeno tra i coetanei, ed oggi, ventenne, ha all'attivo 65 milioni di dischi venduti. All'ennesima sua citazione, mi sono fatto coraggio e sono andato a verificare di persona la consistenza di questa giovanissima che da quattro anni fagocita la passione di moltissimi della sua generazione. Ho ascoltato il disco d'esordio – l'unico, al momento. E tutto è apparso subito chiaro, inequivocabile: Billie Eilish ha scritto la colonna sonora dei millenials. Ecco, cosa. Tutto, dall'inerzia all'inspiegabile euforia, dalla depressione all'infatuazione, l'insoddisfazione per il proprio corpo, il bisogno di nuove droghe, gli obblighi social, tutto, del sommerso mondo dei sentimenti giovanili, è reso nel disco When We All Fall Asleep, Where Do We Go? con un suono ed un incedere assolutamente all'altezza della situazione, che spiegano, esaurendolo, il fenomeno Billie Eilish. Per me, genitore 50enne, è stato come un invito a guardare, ma senza toccare, senza poter entrare all'interno di questa panic room sonora. Ho pensato che, al mondo c'è chi nasce giovane, come questa davvero adorabile ragazza, e chi nasce vecchio - e furbo - come i componenti de Il Volo.
Privata del futuro, svilita dal presente, delusa oltre ogni limite dagli adulti, questa generazione di giovani, abitata dal nichilismo, secondo il prof. Galimberti, inetta, per Bret Easton Ellis, e sdraiata, a detta di Michele Serra, ha trovato in Billie Eilish un portabandiera, il cantore di una visione delle cose che, all'infuori dell'ambito millenial, non interessa nessuno.
Pretendere la loro attenzione narrando concitatamente – manco fosse una scopata – di un campo di sterminio eretto 80'anni fa in una delle lande più fredde del continente, significa, ancora una volta e con aumentata forza, imporre loro quella visione adulta, sfacciatamente ideologica e passatista della vita che è, con buona probabilità, la causa prima della loro epocale chiusura.