martedì 2 giugno 2020

UNA COSA SERIA. La drammatica attualità di 'Full Metal Jacket'.


Matthew Modine nei panni di Soldato Joker.
Nel vuoto di senso crescente che caratterizza questa fase storica, imbattersi in colpi di genio – come è capitato ieri l'altro – è qualcosa che mi commuove. Tutto ciò connota il vostro umile estensore come un anziano, una persona che lentamente va perdendo il controllo sulla propria emotività e sul proprio corpo. Ma ben venga: voglio morire restando capace di provare qualcosa. E qualunque sentimento è buono, pur di mantenere uno status di dignità umana.
Stavo svolgendo un modesto lavoro di ricerca per un canovaccio radiofonico (sì: ho velleità autoriali), quando ho avuto necessità di visionare alcune sequenze tratte da Full Metal Jacket, il film di Stanley Kubrick del 1987, ed altre ancora da, invece, Stanley Kubrick: A Life In Pictures, documentario voluto e diretto da Jan Harlan, storico produttore dei film del grande regista statunitense, e caratterizzato dalla vera e propria perla che è la narrazione fuori campo affidata a Tom Cruise (è una visione che, naturalmente, consiglio a tutti, per ritrovare la giusta misura di cosa sia davvero un grande talento, un genio, in un tempo dove si tende a riconoscere come tali persone, in realtà, senza arte né parte).
Sono settimane che, causa reclusione da Coronavirus, mi tocca sorbire il pippotto delle stazioni Mediaset sull'attendibilità della loro informazione ("Le notizie sono una cosa seria. Fidati dei professionisti dell`informazione. Scegli gli editori responsabili, gli editori veri. Scegli la serietà."). Ora, non mi dilungherò, sull'argomento. Come venne giustamente specificato al tempo dell'uscita di Videocracy – Basta Apparire, di Erik Gandini (era il 2009), se ancora, i cittadini italiani, di fronte ad un simile messaggio, necessitano di spiegazioni, ciò significa semplicemente che il danno non solo è fatto, ma persino irreversibile.
Ed è così, quindi, che, come specificato in apertura, mi sono trovato con gli occhi lucidi, quando ho avuto davanti a me, in tutta la sua magnificenza, la sequenza dove i soldati protagonisti del film vengono intervistati dalla troupe dell'esercito nel bel mezzo della battaglia di Hue, e il grande Kubrick decide di includere nell'inquadratura, come fosse un personaggio a sé, la telecamera che insiste sugli intervistati in maniera che si potrebbe dire minacciosa. Venne realizzata sul finire del 1986, cioè in tempi non sospetti, quando tutti, tranne forse Orson Wells, eravamo persuasi della bontà dell'informazione che ci veniva somministrata, della sua assoluta imparzialità come dell'etica da cui muoveva. Eravamo a otto anni da The Truman Show e a quattordici da Grande Fratello, e già questo genio immortale ci stava educatamente, sottilmente mettendo in guardia dal pericolo della propaganda televisiva, dalla possibilità di una deformazione pressoché integrale della notizia come della realtà. Si potrebbe persino dire che con quell'ennesimo colpo di genio anticipò il discorso sul potere ipnotico, persuasivo, e tossicomaniacale dell'informazione che, dieci anni più tardi, sarà la colonna portante del romanzo di un suo pari: Infinite Jest, di David Foster Wallace.
First to go – Last to know. We will defend to the death your right to be misinformed”, recita uno striscione nella sequenza della riunione di redazione. Un Inglese intenzionalmente bizzarro, quello impiegato, che, con un po' di coraggio, può essere tradotto, per quelle capre ignoranti che sono ormai gli italiani, come segue: i primi a muoversi, gli ultimi a sapere, difenderemo alla morte il vostro diritto ad essere disinformati.
Rattristano, i tanti travisamenti dei quali è stata oggetto la pellicola nel nostro paese come, va riconosciuto, in molti altri. È un Vietnam-movie, non è realistico, non è storicamente corretto, è ridicolo, sul fronte le cose non andavano così e via di questo passo. Il messaggio a riguardo di propaganda e manipolazione mediatica, invece – solo uno dei tanti contenuti nel film –, sembra sistematicamente passare inosservato.
Può ben essere che l'inconscio italico, a fronte della vergognosa accettazione del verbo televisivo berlusconiano, ormai lunga di oltre 30'anni, abbia operato una tutto sommato sana rimozione, e non si renda quindi conto del livello di acritica, supina sottomissione alla notizia – la news – al quale è in realtà sceso.
L'opinione pubblica è esattamente come il soldato Joker: partito alla ricerca della verità – il più nobile dei tentativi di approdo al senso della vita -, fa ritorno dal fronte in una muta disumana, irriconoscibile.
È la nota più dolente di questo film immortale.
Ma non più dolente della stupidità, della violenza, dell'assenza di empatia e della sostanziale incapacità di amare oggi circolanti.

venerdì 22 maggio 2020

IT'S HIS OWN LIFE. L'ingloriosa fine di Bon Jovi.

Il nuovo calendario di Padre Pio.
Giovanile, brillante, di bell'aspetto, rock 'n roll, baciato dal successo, grande schiacciatore di femmine della specie top model e persino attore (memorabile la sua partecipazione a Sex & The City, quando in molti ancora credevamo fosse una serie immortale). Questo è stato John Francis Bongiovi, in arte Bon Jovi, fino al febbraio 2020, quando saltava da un palco all'altro del pianeta ricordandoci che 'la vita non ha limiti' - "Life is limitless", il suo ultimo singolo -, due settimane dopo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (roba da romanzo orwelliano) dichiarava conclamata la pandemia per il Covid-19, e per il pianeta iniziava una moria, con annessa reclusione, da basso medioevo. Alla faccia dell'assenza di limiti, John! Bella buccia di banana. Complimenti. A parte il fatto che pubblicare un singolo nel 2020 significa, come minimo, credersi ancora negli anni '80 (ma, considerata la bella vita che deve aver fatto al tempo, c'è da mostrare comprensione e compassione, un po' come per certi anziani delle case di riposo, con le loro vite fatte ormai solo di ricordi). Significa tradire una logica imprenditoriale e sorpassata, un'anagrafe che i più accorti manterrebbero ben celata. D'altronde il nostro non è nuovo a queste sborrate - molto berlusconiane, se mi è concesso - sulla vita come campo da gioco, dove il singolo è nel contempo arbitro e giocatore. Ricorderete certamente uno dei suoi più grandi successi, It's My Life, una canzone così 'dimmerda' da far sembrare bella persino Wind Of Change degli Scorpions (che, nella mia personale classifica, è la canzone più brutta mai scritta da un essere umano, ma va da sé che il commercio risponde a ben altre regole). Ebbene: già allora - era il 1999 -, Bon Jovi aveva espresso questa visione tristemente - americanamente - edonistica dell'esistenza ("It's now or never"), banalotta ("I ain't gonna live forever") tautologica e un po' povera nel lessico ("I wanna live while I'm alive"). Stava per finire il millennio con i meravigliosi '90, durante i quali erano state sostanzialmente annunciate portate di fica e caviale un po' per tutti. E quindi ci stava una canzone così, tracotante, da ascoltare, magari, prima di uscire di casa per una serata con gli amici. Ricordo ancora vividamente - e solo per citare un esempio di quanto, questo brano, avesse galvanizzto, alla sua uscita, esistenze altrimenti bruciate alla nascita - di come il mio collega Antonio raccontava, in preda all'orgoglio ed un pizzico di malinconia, del pomeriggio assolato al largo Bangkok quando pagò l'equivalente di uno stipendio mensile tailandese per farsi riprendere in video su un fuoribordo lanciato a massima velocità con le note di It's My Life a fare da colonna sonora (e questo, marginalmente, rende ragione all'opera cinematografica di Danny Boyle ed Eli Roth, registi molto diversi per nascita e stile, ma uniti dall'aver prodotto due dei film più forti e belli sul turismo inteso come illimitata condizione  di acquisto, dall'orecchino all'orgasmo snuff, che sono The Beach e Hostel). Ma Limitless... Davvero è un brano che, oltre alla bruttezza manifesta ad ogni orecchio attento, questa emergenza planetaria, l'ha proprio gufata. "Out the door, into the street", "A million different faces / All from different places", "Step out on the edge / It's worth the risk", "Life is limitless", e via così. Insomma: per una comunità mondiale messa all'angolo dalla reclusione forzata, un poco sopra le righe, direi. Mi risulta persino che lo stesso Bon Jovi abbia dovuto forzatamente annullare una serie di concerti nel suo paese, e, volontariamente, abbia optato per il rimborso dei biglietti con una mossa barbina: "Dovete pagare le bollette e fare la spesa", sembra abbia dichiarato. "Sì, caro John: al contrario tuo, tutti i giorni, anche quando decidiamo di non assistere ad uno dei tuoi concerti, paghiamo le bollette e facciamo la spesa", viene da dire. Ritengo non ci sia fine più ingloriosa per un artista, specie se di genere popolare, del ritrovarsi ad esprimere concetti non difformi da quelli che potrebbero uscire dalla bocca di nostra madre o nostro padre. Cantare di vite che non sono quelle di chi gli presta ascolto. Essere, come cantava genialmente Morgan in Metallo Non Metallo, fuori dal tempo.

giovedì 21 maggio 2020

ZABRISKIE POINT-ARONA. Il viaggio esistenziale di Anton Corbjin.

Dave Gahan ed Ippolita Santarelli ad Arona, nel 1987.
Più che un pioniere del video musicale, Anton Corbjin è stato tra i primi registi ad impiegare in questo nuovo media contenuti autorali, intendendo con ciò quelle soluzioni tecniche e stilitiche che, già parte del vocabolario cinematografico, nell'incontro con la musica di artisti giovani e talentuosi come quelli per i quali il fotografo olandese ha lavorato fin dagli esordi, assumevano nuovi significati legati alla contemporaneità.

Passa gli anni '80 nel settore, realizzando per Echo & The Bunnymen e Depeche Mode, due cioè dei gruppi più vitali e creativi della scena britannica post-punk, videoclips di pregevolissima fattura, più qulche lavoro occasionale per David Sylvian e Nick Cave. Nella veste di fotografo, si rende autore di scatti epocali tra i quali spicca, senza ombra di dubbio, quello per la copertina di The Joshua Tree, degli U2.

E proprio da qui intendo partire per raccontare, in breve, questo aneddoto - passatomi per caso dall'amico Fabrizio, e meritevole di essere tramandato per la sua eccezionalità.

La fascinazione di Corbjin per il rizoma vegetale e le conseguenti implicazioni filosofiche è manifesta e ricorrente nell'anno che va tra il dicembre del 1986 - quando ritrae gli U2 nel deserto del Mojave - e quello successivo, arco di tempo che, tra primavera ed estate, gli permette di immortalare il cantante Dave Gahan e l'attrice italiana Ippolita Santarelli sotto il vecchio platano di Corso Marconi, ad Arona, per il videoclip di Behind The Wheel, vero e proprio sequel di Never Let Me Down Again, girato invece nelle lande della Danimarca per mano dello stesso Corbjin (particolare che fa di Music For The Masses qualcosa di abbastanza simile ad un concept-album, ma questa è un'altra storia). Nel fotogramma-icona del videoè facilmente riconoscibile, per chi, come me, vi è cresciuto e per coloro che hanno familiarità con il Lago Maggiore, l'incantevole tratto di costa che fronteggia il castello di Angera.

Ho dovuto attendere il 50'esimo compleanno, per venire a conoscenza di un evento che ha visto protagonista la nostra città e del quale nessuno sembra avere mai parlato. Senza polemica alcuna, mi chiedo persino se qualcuno se ne sia quanto meno accorto. I Depeche Mode erano già, al tempo, un gruppo famoso a livello internazionale, ed Anton Corbjin il fotografo che aveva lanciato gli U2 in un immaginario mitico e leggendario che avrebbe segnato per sempre la loro carriera. Per quanto sobrio lo si possa immaginare, in termini di produzione, vi sarà stato un minimo di trambusto, all'arrivo della troupe, come tutti coloro che si interessano a cinema e fotografia ben sanno. Potrebbero bene aver girato la breve sequenza alle prime ore del mattino, e questo spiegherebbe l'invisibilità che l'evento ha mantenuto limitatamente alla cittadinanza (i siti web dei fans più famelici, presentano il dato come acquisito da tempo). O, ancora, potrebbero aver fatto leva su di un provincialismo dato per certo, in grado di garantire loro la stessa indifferenza tributata ai servizi fotografici dei matrimoni. Si ricordano sagre, mercati, apparizioni fugaci di politici, stelle del cinema e dello sport, bravate di varia natura e persino incidenti stradali, esondazioni, calamità naturali varie, ma nulla - dico, nulla - che riporti questo particolare evento.

Quello, per Corbjin, era solo l'inizio di una carriera che, per l'intero decennio successivo, avrebbe dato vita alle immagini più rappresentative ed influenti dell'era moderna. Un sguardo oscuro il cui fine era proprio l'emersione dell'ombra di coloro che, va riconosciuto, ebbero il coraggio di esporsi di fronte al suo obiettivo come alla macchina da presa. Un percorso artistico che culminerà, nel 2007, nel bellissimo e straziante suo primo lungometraggio: Control.

Mi piace pensare che un artista di questa levatura sia riuscito, in tempi non sospetti, a cogliere, di questa incantevole sponda (il nostro patrimonio più prezioso), luci ed ombre che non fossero quelle di passeggiate con gelato od aperitivi vista-lago.

Che abbia voluto associare questo panorama ad un brano che parla di abbandono, dovrebbe fare riflettere - e, penso, inorgoglire - noi aronesi.


martedì 19 maggio 2020

MEN IN BLACK. Quando Mike Bongiorno intervistò i Depeche Mode.


Mike Bongiorno ed alcuni ripetenti inglesi nel 1983.
Premesso che, di questi tempi, niente e nessuno può più vantare una status di sacralità, di intoccabilità, di esenzione dalla critica o dal giudizio - sempre, beninteso, che coloro che intendono violare queste condizioni, un tempo dettate dalla tradizione e oggi semplicemente decadute, se ne assumano la piena responsabilità (“Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.”, Giovanni 8,3).
L'emergenza per il Coronavirus ha definitivamente spento in me ogni traccia di quello che ero fino a non molto tempo fa: una persona che, cresciuta in una casa dove il capofamiglia ogni santo giorno leggeva il Corriere della Sera dalla prima all'ultima pagina necrologi inclusi, ha creduto a proprie spese negli pseudovalori della modernità quali l'informazione e la rassegna-stampa (che è come dire la serie e il suo spin-off). Oggi la quotidianità mi sembra così meschina, inutile, priva di stimoli, da permettermi serenamente di ignorarla. “Too much information”, cantavano i Duran Duran nel loro disco più bello (e lo era veramente).
E così eccomi a vagare tra libri già letti, dischi già ascoltati, film già visti. Tutto pregevole, sia chiaro. Ma tutto nel regno del déjà entendu. Con un'unica eccezione: i milioni di video di repertorio presenti su You Tube.
In passato, gli storici, dai più modesti ai più autorevoli, risiedevano più o meno stabilmente, per motivi professionali all'interno di biblioteche, archivi, fondazioni, istituti privati o di stato, uniche menti in grado di unire in maniera intrinsecamente coerente la mole spesso straordinaria dei documenti custoditi dalle istituzioni citate. La storia che è stata impartita alla mia generazione (1970) è, in parte, frutto di quel tipo di attività storiografica.
Oggi, come molti di noi ben sanno, la storia ha, nelle persone, un peso ed una prospettiva ben diversi: la storia di cui ci nutriamo è infatti una storia mediata (filtrata, cioè, dai media, televisione e rete, in primis).
Può risultare sconcertante, ma per ciò che riguarda il costume, per quanto inconsciamente, siamo molto più influenzati da quella che è stata l'opera – chiamiamola così – di un Mike Bongiorno che da quella di un Italo Calvino (giusto per citare un nome che si pensa culturalmente influente).
Un esempio? Ecco qui.
Nel lontano 1982, l'anchorman più celebre d'Italia era titolare di un gioco a premi prodotto e trasmesso da Canale 5, che molti forse ricorderanno per il titolo dalla grande presa emotiva: Superflash. Era il tentativo - riuscitissimo – di espropriare la RAI del monopolio trasmissivo e produttivo, offrendo agli italiani televisivamente imberbi - ma già preda di un insidioso analfabetismo di ritorno - un polpettone fatto di attualità, cultura generale e spettacolo. Nel 1983, gli autori del programma invitarono alla trasmissione i Depeche Mode, giovanissimi e ancora sconosciuti, in Italia. Ma già il quartetto che di lì al 1996, cioè tredici anni più tardi, non avrebbe sbagliato un disco. Dopo l'esibizione, rigorosamente in playback come era d'uso nella televisione italiana dell'epoca, i quattro, timidissimi ed ignari di quanto sta per accadere loro, vengono dati in pasto al Mike nazionale per l'intervista di rito. Dati l'evidente gap generazionale e la sostanziale mancanza di seguito nel paese, Mike opta per il trattamento 'bimbiminkia'. In sequenza: si prende gioco della parlata di Dave (“Dave. Davide. Lui lo dice con un po' di accento.”); libera la propria omofobia chiedendo a Martin se è un ragazzo o una ragazza (“Are you a boy or a girl?”), salvo ritrattare (“I was kidding.”); si prende gioco della pettinatura di Andy (“Sembra Stanlio.”); elegge Dave a portavoce del gruppo, dando degli ignoranti agli altri tre (“Questo deve essere il ragazzo più intelligente dei quattro.”); pone domande imbarazzanti (“Siete ragazzi moderni, ma vi vestite di nero – che è tanto triste. Why don't you wear red, yellow, green?”) ed arriva financo a toccare incuriosito i capelli di Dave, con fare da padre-padrone. Il tutto in un misto imprevedibile di Inglese ed italiano che spiazza completamente i quattro rendendoli impotenti di fronte a quello che, suppongo, doveva essere apparso loro un anormale, e non un presentatore. Gran finale: “Altre cose non hanno, da dire, perché sono dei bravi ragazzi.”.
Cioè: dei 20'enni che si presentano, negli anni '80, ad eseguire un brano dal contenuto e dal suono di Everything Counts, per Bongiorno, altre cose non avevano, da dire (al contrario, immaginiamo a questo punto, di Bandolero con il suo Paris Latino od Irene Cara con What A Feeling, fenomeni da baraccone probabilmente sottoterra già da tempo e che proprio in quei giorni dominavano la Top 10 italica).
Ma erano, appunto, gli anni '80, e simili atteggiamenti ancora non erano entrati nel raggio d'azione del radar del politicamente-corretto (e a giudicare da quel che si vede e si sente oggi su certe emittenti, forse non vi sono davvero mai entrati).
È tutto visionabile qui di seguito. Ognuno può farsi la propria opinione. Ma, a costo di sentirmi dare del fascista, svengo al pensiero che qualcuno possa radicalmente discostarsi dal giudizio appena espresso.

Siamo sinceri. Senza voler giustificare chi si è reso artefice di momenti altrettanto imbarazzanti: non è questa la nefasta influenza che ha poi portato Adriano Celentano a trattare David Bowie da pari, Simona Ventura a saltare addosso a quest'ultimo, Fabio Fazio a farsi dare del Mr. Valium da Bono, Linus e Nicola Savino a rendersi ridicoli con i Duran Duran, Corrado Formigli a trattare Roger Waters da capo di stato e Daria Bignardi ad accogliere Marcello Dell'Utri come un premio Nobel, in una manifesta incapacità nazionale a condurre interviste davvero pregnanti, fatte di domande che pongano in vera luce i tanti artisti che pretendono il nostro ascolto più serio ed impegnato? Gli storici del costume e della televisione che in futuro affronteranno l'argomento di ciò che sono stati gli anni '80 in Italia - qualcosa mi dice -, dovranno obbligatoriamente visionare, su You Tube o presso le stesse emittenti, questa e molte altre figure barbine, e trarne le dovute conseguenze.
Agli storici, quindi, l'ardua sentenza.

domenica 10 maggio 2020

HEAVY METAL. Musica per la terza età.


Intorno ai quattordici/quindici anni, sono stato un metallaro. I tempi erano maturi: anagraficamente e cronologicamente. Eravamo giovani, e quelli erano gli anni dei Metallica, dei Mötley Crue, dei Judas Priest, di Ozzy Osborne, Skid Row, Scorpions, Anthrax, Slayer, Megadeth e molti altri. Per noi era un modo come un altro per differenziarsi ed apparire distanti il più possibile dall'incalzante buzzurrume pop, incarnato, allora, dai cosiddetti 'paninari', uno dei movimenti più tristi e deprimenti mai visti (noi metallari eravamo impresentabili, ignoranti, privi di uno stile codificato, una compagine di sfigati cronici, irrecuperabili e privi di scusanti, ma nulla al confronto di quello che erano i nostri nemici giurati, tutti vestiti uguali, visi color pantofola, sguardi da abuso sessuale skipass, macchina e moto carenate, atteggiamento rampante e genitore da avviso di garanzia).
Insomma, erano gli anni '80: “il peggior cazzo di decennio nella storia dell'uomo”. (Lo avete visionato, The Dirt? Fatelo.).
Ma oggi...
Essere un fan della musica heavy metal nell'anno 2020 significa tradire una vecchiaia interiore non solo di molto più deleteria rispetto a quella fisiologica, esteriore, ma anche, in omaggio all'attualità, del Coronavirus - del quale si parla oggi con la stessa frequenza che si impiegava per 'quelli di San Babila' al tempo di Drive-In -, oltre ad una condizione mentale compromessa in termini di sviluppo, irrecuperabile. Credere oggi in ostentazioni come il petto villoso, il bicipite tatuato, il sudore perenne, il capello lungo, le urla in falsetto, la chitarra come estensione del pene, l'assolo obbligatorio, la fidanzata formato playmate, il volume alto, il dito indice puntato in camera, le corna, il satanismo prêt-à-porter, la borchia e, insomma, tutto quell'apparato macho da fare invidia persino a Freddy Mercury – che quanto ad esteriorità non era certo a corto di espedienti –, significa davvero essere 'fuori dal tempo', come gli iscritti al Partito Comunista o a Comunione e Liberazione. Come chi celebra ogni anno la marcia su Roma e crede che se ci fosse ancora Mussolini tutto funzionerebbe. O come quegli incancreniti che periodicamente si sentono in dovere di ricordare noi che “i gruppi di una volta non ci sono più” (letteralmente, anche perché in alcuni casi specifici, decessi multipli sono stati registrati all'interno della formazione).
La musica heavy metal - ed il fenomeno di costume che ne fece da corollario - ebbe in effetti questa specifica funzione: opporsi strenuamente a tutto quel proliferare di sintetizzatori, leggins, giacche con spalline, spolverini, mosse aerobiche, atteggiamenti pseudoeccentrici e monopolio della fica che, sì, portò al successo su scala planetaria intrattenitori vacui come Pet Shop Boys, Culture Club, Spandau Ballet, Duran Duran, Spin Doctors, Visage e compagnia bella, gruppi il cui ricordo suscita ancora un imbarazzo a volte isterico; ma anche Depeche Mode, U2, The Cure, P.I.L., The Smiths, formazioni che, proprio negli anni '80 produssero dischi dallo stile e dal suono arditi e innovativi, lavori che avrebbero avuto un'influenza forte su alcune delle migliori formazioni del decennio successivo (si pensi, solo per citarne alcuni, a Nine Inch Nails, Radiohead e Blur), e che proprio i metallari bellamente ignoravano, quando non addirittura disprezzavano, sebbene non ne avessero ascoltato, in realtà, una sola nota (era una dinamica da scontro tribale: non aveva importanza, la sostanza delle cose, ma la loro provenienza, se da una determinata compagine o da un'altra).
(Consiglio a tutti coloro che intendano davvero dotarsi di una visione di quello che fu effettivamente il movimento heavy metal, il film Lords Of Chaos di Jonas Åkerlund, che, sebbene ambientato nei primi anni '90, ben rappresenta le aberrazioni prodotte dagli abusi del decennio precedente.).


Rivendicare oggi lo heavy metal per quello che sarebbe tutto il suo portato galvanizzante, sia in termini estetici che testuali – diciamo così: filosofici -, denota una sordità, da parte di coloro che ne assumono l'azione, che non interessa solo l'apparato uditivo, ma anche, per estensione, il cuore e l'anima. Essere sordi, per i motivi appena citati, a brani quali A Day Without Me, Shake Dog Shake, Never Let Me Down Again, How Soon Is Now, Rise, solo per citarne alcuni, significa privarsi di alcuni tra prodotti artistici più interessanti e profondi di quel decennio da tutti conteso e rivendicato che fu la decade '80-'90. I brani appena elencati, vennero prodotti con grande sprezzo per industria discografica, cioè contro il parere di quei produttori che proprio allora vedevano nello heavy metal una nuova, ricca miniera d'oro da sfruttare fino all'ultima pepita, e che allo stile di quelle canzoni avrebbero sicuro preferito un prodotto più vicino a quelli di Madonna o, per convenienza commerciale, Iron Maiden (ufficialmente, gli sdoganatori del genere).
Non è sufficientemente galvanizzante, l'esempio di chi ebbe il coraggio di “dire quei 'No!' che, oggi più che ieri, sono imprescindibili”?
Fu quando compresi tutto ciò che smisi di essere un metallaro.

P.S. La bellissima citazione tra virgolette in chiusura, è di Wu Ming I.

sabato 2 maggio 2020

ESPERIENZE RELIGIOSE AL BAR MARIO. Radio Freccia alla ricerca dell''endorsement' culturale.


Un genio dal cuore grande:David Foster Wallace (1962-2008)
Radio Freccia nasce nel 2016 sulle ceneri di Radio Padania Libera, dopo che il 'direttore' di quest'ultima (l'Onorevole Matteo Salvini) ed il suo 'staff di specialisti' (uno spedizioniere di Lambrate e il di questo cugino), realizzato (momento di rara lucidità) che gli ascolti erano 'un po' giù' (praticamente me e gli iscritti alla Lega, ma non tutti) ne immisero le frequenze sul mercato.
Radio Freccia si ispira, almeno nelle intenzioni, all'atteggiamento piacevolmente anarchico delle cosiddette radio libere che caratterizzarono l'etere nazionale nella seconda metà degli anni '70. Nello specifico, all'estetica di quel tempo come sorprendentemente messa in scena nel film omonimo di Luciano Ligabue, risalente, ormai, a ben 22 anni fa (non un capolavoro, sia chiaro, ma neanche una prova deludente ed imbarazzante quale fu, poi, sull'onda dell'entusiasmo per i buoni risultati del film d'esordio, Da Zero A Dieci). I punti fermi dell'emittente sono, quindi: una rivendicata, anacronistica libertà di parola, un repertorio in linea, quanto più possibile, con quello dei '70, e un comparto di conduttori particolarmente ciarliero. Fin qui, nessun problema. È come leggere l'etichetta dei prodotti del supermercato e trovarvi corrispondenza all'assaggio. Non fosse che, ieri l'altro (29 aprile), uno dei conduttori, rispondente all'ambiguo nome d'arte di Nessuno, ha cercato, penso inconsciamente, l'endorsement culturale (di chi, poi, non si sa) citando, malamente, David Foster Wallace, e pure invitando gli ascoltatori a leggerne un titolo specifico (Roger Federer Come Esperienza Religiosa). A motivare cotanta proposta, la banale, fortuita corrispondenza tra il giorno della messa in onda del programma (Terra di Nessuno), il compleanno dell'ex campione di tennis Andre Agassi e la scoperta – si ignora se da parte di Nessuno o da quella della redazione - della grande passione che lo scrittore statunitense nutriva per questo sport. Ciliegina sulla torta: l'invito da parte del conduttore ad affiancare il testo di Foster Wallace a quello autobiografico del sopracitato Agassi, Open, in un involuto esperimento di letteratura comparata. Ciliegina che, purtroppo per gli autori dell'emittente – ammesso che ve ne siano –, si è subito trasformata in buccia di banana. Vero e proprio fagocitatore di libri, Foster Wallace aveva ammesso che, di questo tipo di pubblicazione - ”l'autobiografia di un-campione-«con»-qualcuno” - ne aveva “comprati e letti a bizzeffe”, ma sempre “mettendoli sotto qualcosa di più intellettuale” quando andava alla cassa. Li trovava “ambivalenti e imbarazzanti”, per quanto spesso risultavano scritti male, dichiarando persino che la lettura di quella del suo idolo, la tennista statunitense Tracy Austin, aveva, per i succitati motivi, “definitivamente estinto” la sua passione per il genere. Potete trovare tutto questo nella raccolta Considera L'Aragosta, insieme ad altri scritti di così alto livello da restare a bocca aperta. Che Open sia successivo alla scomparsa di Foster Wallace, non cambia di una virgola queste considerazioni.
Sono certo che Foster Wallace non sarebbe esattamente a proprio agio nello scoprire che uno come me ha preso le sue difese. Sono stato uno studente mediocre; ho sviluppato l'abitudine alla lettura e alla scrittura solo in età adulta; non sono andato all'università; non ho mai praticato il tennis; sono venuto a conoscenza degli effetti devastanti della depressione solo dopo aver sposato una psicoterapeuta, ed ho letto la sua opera quando già si era impiccato da tempo. Ma questo sporco lavoro, qualcuno dovrà pur farlo – visto che certe sparate rimangono puntualmente impunite.
Quello che mi ha dato fastidio, nell'imbattermi in un consiglio di lettura così strabico, è stato non tanto il livello della proposta (non c'è motivo di adirarsi di fronte ad una proposta 'alta', specie se fatta con autentica passione di lettore) quanto il contesto che l'ha partorita. Basta un ascolto casuale dell'emittente per rendersi conto che la lingua ed i temi del giorno (a volte persino assenti, sostituiti da quel chiacchiericcio che proprio Foster Wallace aveva rinominato come 'fuffa') non sono esattamente una priorità. Refusi grammaticali e sintattici, solecismi, vocabolario basic, frequente afasia, abuso dell'onomatopea, dosi pesanti di metano linguistico. Da parte della conduzione come degli ascoltatori (una sola eccezione: la presenza in squadra di Roberto Pedicini, alias Bob Revenant, voce che ha reso ancor più straordinari alcuni dei film più belli degli ultimi 25 anni). Foster Wallace – è utile ricordarlo – era un genio dal cuore grande, ma pur sempre un secchione dagli ottimi voti, a partire dalle elementari fino al dottorato, figlio di insegnanti e, a sua volta, professore di letteratura. Un integralista della lingua, quasi un ossessivo, attentissimo nella scelta delle parole come dei temi - sempre partendo dal presupposto che si debba aprire bocca solo avendo chiara l'urgenza dentro di sé di qualcosa da dire. Uno scrittore che poco dopo i 30'anni aveva realizzato uno dei libri più importanti e straordinari di sempre.
Ecco. Vivere di sciatteria linguistica, perché più facile, easy, poco impegnativo; impiegare il lessico da Bar Mario  dell'autore di Radio Freccia per rivolgersi ad una audience che quella lingua solo parla e conosce, ma poi citare e financo consigliare Foster Wallace perché 'fa figo', è presuntuoso, urticante ed inaccettabile.

martedì 28 aprile 2020

FUORI DAL TEMPO. Dario Brunori canta O Bella Ciao.


Dario Brunori prova i canti per la messa delle 10:00.
Brunori sa! È financo sancito dal titolo del programma televisivo dedicatogli, un po' di tempo fa, da Rai 3 (ma va da sé che, ormai, a Rai 3, basta l'inchino alle persone giuste – giuste per il momento, beninteso – e le sue porte si spalancano come per magia, vedi il caso Recalcati). Sa così tante cose, Brunori, che ieri l'altro, 25 aprile, una volta svegliatosi, ha realizzato subito quale era, quella giusta da fare: strimpellare O Bella Ciao in diretta streaming (me lo si lasci dire: una delle canzoni più tristi e deprimenti mai sentite, roba che, al confronto, i primi Cure erano degli allegroni). Un bel messaggio in codice che, se va bene, garantirà al nostro un futuro di facili contratti – magari propiziati dagli amici del 'terzo canale'.
In verità, Brunori non sa un cazzo. Non sa niente di niente. Fidatevi di me. Brunori non è il guru che certi intellettuali danno a credere: Brunori è uno skipper, un talento innato, cioè, nel capire alla prima annusata la direzione del vento per la giornata odierna. Quelli come Brunori si ispirano - o, quanto meno così vogliono farci credere - ai valori di coloro che fecero la Resistenza (breve ripasso: un gruppo numericamente modesto di patrioti divenuto massa, sul finire della guerra, quando i più capirono che 'quei pochi' – i partigiani – stavano arrivando con i 'i tanti' – gli alleati – seriamente intenzionati, gli uni di concerto con gli altri, a regolare i conti una volta per tutte). In quale modo i valori del 1945 si adattino, secondo le logiche brunoriane, ai tempi odierni, non è dato capire (nel video, il nostro, non spiffera parola). Primo perché i giornalisti deputati a ciò (vedi alla voce 'critici musicali') se ne guardano bene dal chiederlo - sia mai che salti loro il posto, per cotanto azzardo. Secondo perché, da parte dei pochi coraggiosi rimasti nella categoria, c'è la quasi assoluta certezza che la risposta eventuale ad un simile quesito sarebbe un verso di O Bella Ciao, magari con corredo di strimpellata di chitarra, o, peggio, qualche fumosa risposta, tutta da interpretare. Qualcosa di simile alla scena spassosissima de La Grande Bellezza, quando il protagonista, Jep, intervista la performer Talia Concept chiedendole di spiegare la propria arte, senza ottenere alcunché. “Senta... Io di lei, finora, ho solo fuffa non pubblicabile. Se lei pensa che io mi lasci abbindolare da cose tipo: 'io sono un'artista e non ho bisogno di spiegare' è fuori strada.”. In un paese culturalmente diverso da quello in cui viviamo, questa sarebbe la giusta risposta alle strimpellate in luogo di chiare prese di posizione.
Nonostante un mondo flagellato dalla pandemia, dallo spionaggio incondizionato, dalla manipolazione dell'informazione, dalla disillusione pressoché totale nei confronti della politica tutta, dalle guerre intenzionalmente agite sui cilvili, dalla corruzione imperante, dagli indici borsistici come termometro del benessere globale, dalle diseguaglianze di ogni sorta, dall'analfabetismo di ritorno e dalla morte per fame, ecco: la risposta di uno come Brunori, reputato mente sopraffina e rappresentativo della sua generazione, è O Bella Ciao. È la risposta a tutto di quelli come lui: vecchi, inadeguati, fuori dal tempo. Ma, checché se ne dica, rappresentativi, più che della generazione cui appartengono, del nulla di un paese che da 75 anni festeggia come una vittoria il giorno nel quale perdette la guerra. Cantano le gesta di patrioti che erano, presumibilmente, quanto di più lontano vi sia, stilisticamente ed eticamente, da soggetti come Brunori (che, a giudicare da certi discorsi che si sentono oggigiorno, non sono pochi). Ignorano – o fingono di ignorare - quasi del tutto le opere e le parole di uomini e donne straordinari quali Edward Snowden, Laura Poitras, James Natchwey, Daniel Baremboim, Bruce Dickinson, Sebastião Salgado, Chesley Sullenberger, Mohamed Ben Kilani, Johnny Greenwood, Ken Loach, Gherardo Colombo e molti, molti altri.
Ha ragione Michele Monina, che di Brunori ha scritto: “Sentire brani che sembrano provini, per come suonano e per come sono composti, infastidisce. Si capisce che sarebbero potuti diventare altro, decisamente meglio, e che invece no, ci si è fermati subito, perché tanto si è naif, va bene così.”.
Questo è l'indie, in Italia. Un'opportunità come un'altra per godere di visibilità e delle sue supposte benefiche conseguenze.
L'arte al servizio del principe.
Come sempre.