Peter Fonda sul set di Easy Rider. |
Il
pensiero che più mi infastidisce è quello delle schiere di
motociclisti che in questi giorni e in quelli a seguire – c'è da
giurarci – celebreranno con grandi sgasate la sua scomparsa, come fosse mancato un grande del motociclismo e non, invece,
un attore che, sebbene portatore di un cognome importante, rifiutò,
cinquant'anni fa, nel fiore della giovinezza artistica e biologica, i
remunerativi ruoli offertigli da Hollywood, per produrre ed
interpretare un film scomodo, epocale, quale fu Easy Rider.
D'altronde,
chi di voi ha mai visto delle motociclette parcheggiate a grappolo
fuori da una sala cinematografica? I motociclisti sono,
verosimilmente, oltre che i detentori di tutta una serie di records
in negativo, una categoria che il cinema, non solo lo disprezza, ma
che pure, dalle sue sedi preposte, si tiene ben alla larga (a meno
che la struttura non vanti una birreria annessa). Certo: negli anni il nostro ha contribuito a questa banalizzazione della pellicola, non
disdegnando periodiche apparizioni a bordo di luccicanti
motociclette, da vero fanatico delle due ruote (quale, sotto sotto,
effettivamente era). Ciò non toglie che, nell'estetica di Easy
Rider, la motocicletta
rappresenti un elemento tutt'altro che marginale o accessorio. Le due
ruote conferiscono al conducente una libertà atmosferica, panoramica
e viaria che sono esattamente quanto Wyatt - il protagonista della pellicola - va
metaforicamente cercando: cambiare aria, cambiare luogo, tentare
nuove vie.
Si
insite da tempo che questo e quel film andrebbero fatti vedere nelle
scuole. Cioè: a sentire simili sparate, sembra che alla scuola –
istituzione certo non a corto di problemi – venga consigliato
caldamente di sospendere gli attuali programmi di insegnamento per
trasformarsi in cineforum (sogno proibito dei distributori di mezzo
mondo, i quali, passato l'ostacolo dell'impegno iniziale,
procederebbero a testa bassa ad inondare gli istituti con le
pellicole dei vari Muccino, Spielberg, Gibson, Nolan, con storie di
Shoa e Shoe, tratto-da-una-storia-vera, tratto-da-una-storia-falsa,
la-vera-storia-di, la vera-storia-del e chi più ne ha più ne metta,
pattume pseudo-storico il cui unico fine sarebbe, nuovamente, quello
di asservire l'ideologia globalizzante di un mercato unico delle
menti, caratterizzato, in quanto tale, da una sola versione dei
fatti, quella ufficiale, e così, nel giro di poco, il nostro bel
cineforum si vedrebbe mutato in multisala).
Dato, però, che anch'io, spesso, vengo preso da questo integralismo cinematografico, suggerirei una sfida. Mettiamola così: se chiedessero a me (improbabile, lo so) una
buona ragione per sottoporre i nostri giovani alla visione di
EasyRider, direi quanto segue.
"So
come vi sentite: vi sentite sconfitti. Vi sentite sconfitti perché
questa società, arroccata com'è su concezioni appartenenti ad un
passato lontano, è, appunto, una società vecchia, vecchia dentro,
che dei giovani non sa che farsene (guardate la politica di casa
nostra, se ne avete coraggio: gente che, pur avendo sconfinato negli
80, ancora si arrabatta per restare 'nel giro': come poter credere
che in un qualsiasi momento delle sue affannose giornate possa anche
solo lontanamente pensare a voi, ai vostri problemi, alle vostre
paure, alla vostre ambizioni, ai vostri sogni?). Vi sentite
sconfitti, ed è giusto, sano, che vi sentiate così. Quale persona
che voglia dirsi sana, infatti, può non provare questo sentimento,
trovandosi nella condizione in cui state voi oggi? Fareste però un
errore grossolano a credere di essere voi gli unici grandi sconfitti
della storia. Cinquant'anni fa, un giovane attore statunitense,
figlio di uno delle più grandi stars di Hollywood, realizzò
di tasca propria, insieme ad un amico altrettanto giovane,
altrettanto bravo, ma più squattrinato, un film intitolato Easy
Rider, dove è raccontata la vicenda di un giovane americano, Wyatt, il quale, durante un viaggio in motocicletta da Los Angeles da New Orleans,
realizza che non solo lui, ma l'intera sua generazione – parliamo
di ragazzi poco più grandi di voi -, l'intera America, il suo paese, è di fronte
ad una sconfitta epocale. I sogni di libertà, di emancipazione, di
fratellanza, di eguaglianza, di rispetto del prossimo, di corsa al
disarmo, di fine dei conflitti armati in corso, i sogni di
quell''estate dell'amore', come è stata poi definita, che fu il
1968, non avevano lasciato traccia, neanche una, lungo l'America
attraverso la quale Wyatt stava viaggiando. Era una verità scomoda da
dire, al tempo. Più facile tacere. Va tutto bene, l'amore trionfa,
il colore della pelle non è un problema, aboliremo gli eserciti, il
diritto allo studio sarà per tutti e non dipenderà dal portafoglio
di papà. Più facile ancora fare un bel film pieno di belle attrici
e begli attori che si baciano, si amano e vivono solo della loro
passione amorosa, lontano da problemi e scazzi di ogni genere.
Certo: espediente, questo, impiegato sistematicamente anche oggi. Ma allora,
fidatevi, il rischio era maggiore. E invece, il nostro giovane rampollo,
che fa? Realizza un film che Hollywood teme nel profondo, che parla di una verità
scomoda. Perché, dopo una visione come Easy Rider, una storia
che è la storia di una sconfitta bella e buona, hai voglia dire al
tuo pubblico che l'amore trionferà. Questa fu la paura di Hollywood: che al suo interno vi si potesse trovare qualcuno capace di raccontare una verità scomoda, qual è sempre la sconfitta quanto la si vuole tacere.
"Quel giovane attore coraggioso si chiamava Peter Fonda, ed è morto a Los Angeles il 16 agosto scorso, all'età di 79 anni.
"Abbiate sempre il coraggio della verità, ragazzi. è il mio più grande augurio.
"Buona visione.".
"Quel giovane attore coraggioso si chiamava Peter Fonda, ed è morto a Los Angeles il 16 agosto scorso, all'età di 79 anni.
"Abbiate sempre il coraggio della verità, ragazzi. è il mio più grande augurio.
"Buona visione.".