Un'attenta classe di scuola superiore. |
Due anni fa circa, una conoscente ha
lasciato il cosiddetto 'posto fisso' per una carriera
nell'insegnamento, avendo regolarmente passato il concorso per
l'inserimento in ruolo. Materia: Inglese. Assegnazione: scuola
superiore (istituto per geometri ed agrario).
La rivedo e subito chiedo come va, a
scuola. Risponde di sentirsi molto giù, molto abbacchiata. Da
diverso tempo ha la netta 'impressione di trovarsi di fronte a
giovani che, per l'Inglese, non hanno interesse alcuno. Dice di
passare quasi interamente il tempo assegnatole a riportare ordine
all'interno di classi ingestibili. Ed ingestibili principalmente per
il suo rappresentare una materia per la quale non è avvertito alcun
tipo di trasporto.
Quindi anche la preparazione
meticolosa delle lezioni, spesso effettuata a casa ed a scapito della
famiglia (è coniugata e madre di due), si riduce ad un'ulteriore
mortificazione intellettuale.
Condizione che non fa bene né a chi
la subisce (il singolo docente) né a chi vi contribuisce
direttamente (gli alunni) o indirettamente (la direzione scolastica):
nulla è infatti più devastante per la scuola e per i suoi fruitori
di un corpo docente umiliato nelle intenzioni.
Il
marito, persona arguta e dai modi spicci che spesso mi fa dono di
spunti ed osservazioni di notevole rilevanza, commenta anch'egli
sconsolato. “Questi giovani del cazzo, proprio non li capisco. Mi
chiedo cos'abbiano nella testa. Come è possibile, a diciotto anni,
non capire che senza l'Inglese, oggi, sei un semianalfabeta anche se
poi consegui una laurea? È come pretendere di praticare uno sport
a livello agonistico disdegnando però la corsa. 'Sai, io non corro.
Della corsa non me ne frega niente. Mi interessa solo giocare.'
Nell'inconscio di questi ragazzi c'è Diego Armando Maradona, e non
Samantha Cristoforetti. E se pensi così, sei un fallito. Sei un
fallito già a diciotto anni.”
Ha ragione.
Devo a questo punto dichiarare, non
senza imbarazzi, che, da tempo immemore, sono considerato alla quasi
unanimità un ottimo parlante Inglese, sia per ciò che riguarda la
forma sia per la pronuncia. Ad onore del vero va aggiunto che, in un
paese che con l'Inglese ha non pochi problemi, godere di una simile
considerazione non fa curriculum.
Ma tant'è. In verità, a me sembra anzitutto di avere avuto la
fortuna di una seconda lingua che amo, la cui imposizione è stata,
quindi, sempre vissuta con gioia. E poi quella dell'avere sempre
nutrito degli interessi per materie e discipline che nel mondo
anglofono hanno conosciuto eccellenze di prim'ordine. Sto parlando
del cinema e della musica. Ma, da qui all'essere considerato un buon
parlante, ne passa.
Detto ciò, il
fatto che dei giovani mostrino, oltre ad una totale assenza di
vergogna per i comportamenti messi in atto, un così manifesto
disinteresse nei confronti di una materia che, almeno nelle loro
vite, può fare la differenza, si iscrive, forse, all'interno di una
problematica ben più vasta – e determinante – di quella del
sapere: l'area del dsiderio.
È tempo che,
personalmente, noto come i giovani, almeno nei miei confronti,
risultino connotati da una totale assenza di manifestazione del
desiderio. Sembrano davvero non desiderare nulla. Ma è chiaro che
non è così, che non può essere così (a meno di tare mentali
invalidanti). Ne ha parlato magistralmente Massimo Recalcati qualche
settimana fa in un incontro dedicato proprio al desiderio. Ha molto a
che vedere con il tipo di crescita vissuta, e quindi con l'apporto
che in tal senso è stato fornito dai genitori. Mamma e papà ti
hanno detto che, al mondo, conta solo una lingua e -guarda caso – è
quella tua? Mi si lasci ricordare che anche il differenziarsi dal
modello genitoriale può essere fatto oggetto di desiderio.
Qui
non si tratta di stabilire il primato di una lingua – nel caso
dell'Inglese già fortemente compromesso dagli attuali assetti
geopolitici e dalla condotta morale delle nazioni che a tale primato
hanno contribuito, e cioè Stati Uniti e Gran Bretagna. Si tratta di
riconoscere, con opportunistica intelligenza, che l'Inglese è, e
rimane ancora, la prima delle seconde lingue, quella obbligatoria.
Quella dalla quale poi muovere verso un'esigenza linguistica più
specifica, maggiormente legata alle proprie personali propensioni e
competenze.
Non
si spiega forse così lo sconcertante provincialismo dei giovani -
per non parlare di quello del paese? Non comprendere, cioè, che
esiste una conoscenza che esula dai confini nazionali nei quali si è
stati catapultati a nascere, vivere od entrambe le cose? E che quindi
è necessario un passe-partout
in grado di consentire l'attraversamento quanto più agevole di detti
confini, oltre i quali potrebbe trovarsi la vocazione di ognuno?
Suona come una
patetica sferzata alla fuga dei cervelli, lo so. Ma lungi da me non
solo il promuoverla: anche l'assumere il fenomeno ad esempio e
soluzione. Resto convinto che i cervelli di questo paese non siano
realmente in fuga, ma che risiedano, silenziosi, nei suoi confini,
mortificati come la nostra insegnante d'Inglese, sostituiti
politicamente, ai comandi, da intelligenze modestissime ed
immeritevoli. Ugualmente, anche questo sommerso di intelligenza
nostrana non può mostrarsi indifferente alla questione dell'Inglese,
specie in un'ottica comunitaria linguisticamente composita come la
nostra – e giusto per non allargare troppo il discorso.
Oggi ci vogliono
più palle per rimanere che per andarsene.
Nessuna fottuta
statistica potrà persuadermi del contrario.