Dopo una crisi iniziale, ho riguardato
le due foto di Aylan Kurdi con un po' più di distacco.
Mi sono così tornate alla mente le
lezioni di Pier Paolo Pasolini ad un immaginario 'ragazzo di vita'.
Quelle sull'estetica. Quando spiegava al giovane Gennariello di come
le cose ci parlino.
Eccomi allora tornato sui banchi di
scuola, a scrivere il tema: cosa ci dicono le foto del piccolo Aylan?
Nella prima, il piccolo Aylan è
riverso sul bagnasciuga. La spiaggia dove giace il suo corpo, almeno
nella porzione delle scatto, è deserta. È solo. Solo nella morte,
con i suoi tre anni.
Il suo corpicino esangue, con ancora
l'abbigliamento estivo fatto di scarpine, pantaloni corti e maglietta
rossa, sembra quello di un bimbo esausto dopo una giornata
ininterrotta di giochi. Ma non è così. È riverso in discesa, le
braccia allineate lungo il corpicino, il viso mezzo affondato nella
battigia. È la postura più innaturale che un bimbo possa assumere. Innaturale come la sua morte.
La magliettina rossa ci ricorda la
bimba ebrea di Schindler's List e, paradossalmente, la bandiera del
divieto di balneazione; ma sopratutto l'inadeguatezza
dell'abbigliamento per una traversata notturna, il freddo terribile
che Aylan avrà provato nelle sue ultime ore, nonostante l'abbraccio
caldo e disperato della sua mamma.
La sabbia ha di sicuro invaso gli
occhietti, le narici, la bocca ed ogni altro orifizio madre natura ha
voluto rendere accessibile, luoghi nei quali, con i nostri figli, non
permetteremmo la presenza di una singola briciola.
Sullo sfondo, la presenza di pattume
ed altri detriti equiparano la restituzione del corpo di Aylan a
quella di un tronco, di un pezzo di legno. La par condicio
della natura.
Nello scatto successivo, un agente
della guardia costiera turca, realizzato il compito che dovrà
affrontare nella giornata di servizio, raccoglie le spoglie del
povero Aylan.
Quanto può pesare un bimbo di tre
anni in fuga dalla guerra e ramingo da giorni o settimane? Non più
di tredici chili, il peso medio di un essere umano della sua età in salute.
Il peso medio del bagaglio a mano che tutti noi portiamo senza fatica
quando ci apprestiamo ad un viaggio aereo. Eppure il corpo del
guardacoste è ricurvo come sotto il peso di decine di chili. Grava
su questo uomo il peso morale, politico ed umano di un'intera
comunità continentale. Non lo tiene saldo al petto – come faremmo
tutti noi con un carico innocuo -: lo tiene a distanza. Come un collo
radioattivo.
Nella versione video di questa
tragedia, l'agente viene visto, però, condurre le spoglie di Aylan
dietro uno scoglio poco distante, a dare cioè riparo ai resti di una
creatura violata troppo presto nel diritto all'innocenza, alla
felicità, alla sicurezza di una famiglia. Alla vita. Lo occulta alla
vista, dietro a quello che diviene una camera mortuaria open air,
ma dietro al quale sparisce anch'egli – e dove sono certo avrà
praticato quei riti di decenza e pulizia che, sul corpo di un
bambino, precedono la notifica all'autorità competente e l'arrivo
del coroner. Un angelo, forse.
Non so se il fotografo dell'Associated
Press abbia scattato queste foto d'stinto o razionalmente. Ma è certo
che, come ha sottolineato Mario Calabresi, sono destinate a fare
storia allo stesso modo di altre ormai abitanti il nostro immaginario
collettivo. Risvegliano le coscienze assopite dal sapere che Aylan
non è il primo a perire in simili circostanze e non sarà l'ultimo.
Ci ricordano che in una comunità che si dice civile ed avanzata non
si può morire a tre anni, solo, affamato, infreddolito, orfano,
negli occhi l'orrore di una tragedia civile – la guerra - ed epica – il naufragio con la famiglia -, rinvenuti da un bagnino
o da un turista, trasportati dalla corrente.
Quando la politica avrà trovato una
soluzione “all'altezza della storia”, a noi tutti toccherà un
compito di identica levatura: realizzare che, proprio per l'amore nei
confronti dei nostri figli, a fronte di identica tragedia adotteremmo
identica soluzione – certi che i nostri bimbi non meritino la fine
toccata al piccolo siriano.
Sempre Calabresi, ha ricordato come la
morte di Aylan Kurdi, tre anni, in fuga dalla guerra insieme alla sua
famiglia, possa essere per ognuno “l'occasione per fare i conti sul senso
ultimo dell'esistenza”.
Buona fortuna a tutti noi.
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