domenica 18 marzo 2018

VIA COL VENTO. Le parole della politica che non sa perdere.


Sinceramente: vorrei poter disporre di un coraggio sfacciato. E, sfruttando tale caratteristica, poter dare addosso, verbalmente o per iscritto, a Renato Brunetta. Attaccarlo su fattori discriminanti quali altezza, tono di voce, sguardo, capigliatura, vestiario e tutto quell'apparato paralinguistico tipico dei cosiddetti 'bracci destri' di questo paese (così tanto misero da nemmeno più meritare la maiuscola).
Ma va da sé che non sono un bastardo. Come direbbe il sergente addestratore Hartman: “Io sono duro, però sono giusto.”. Di conseguenza mi limiterò, per quanto possibile, ai fatti.
“Salvini non è il leader del centro-destra: è semplicemente il leader del partito che all'interno del centro-destra ha avuto più voti.”
Prestare fede ad una simile dichiarazione – pronunciata da Brunetta e passata dal radio-giornale di RAI3 (16 mar, edizione delle 18:45) senza un briciolo di chiosa – significa avere abdicato all'ascolto critico, attento, al senso delle cose. Significa avere ceduto ad un immaginifico mediatico che, per mezzo di una tecnica comunicativa fumosa (quella in analisi è una semplice contraddizione, ma recitata con tono confidenziale), assolve alla funzione sua propria di plasmatore dell'opinione pubblica corrente. E, dulcis in fundo, significa essere dei fessi irrecuperabili (esattamente la tipologia di persona della quale si alimenta la fuffa, intesa come chiacchiera al livello massimo, incanto che si pone ben oltre la linea di confine della fake news).
Chi ha votato Forza Italia, a parte il discutibile gusto eufonico sul quale si è già discusso nei decenni passati, ha consegnato la vita civile di noi tutti a persone con questo livello di responsabilità. Per costoro, per simili politici, non c'è visione futura. non c'è prospettiva: solo il qui-ed-ora, visione delle cose appiattita sul presente, funzionale al mantenimento del potere ad ogni costo.
Sostenere una simile posizione, e cioè che Matteo Salvini, con il suo 18% di consenso, non abbia titolo alcuno per pretendere a ragion veduta la guida dell'eventuale coalizione di centro-destra, è come dire che una delibera dell'assemblea condominiale, regolarmente passata con la prevista maggioranza del 51% degli astanti, può essere considerata carta straccia da me, per esempio, in quanto proprietario dell'appartamento più grande - esattamente l'atteggiamento fallico e machista tenuto da FI attraverso Brunetta.
Negare al paese la possibilità di un governo, per quanto sgangherato come quello che potrebbe uscire dal coito Di Maio-Salvini, e fare ciò per rispondere a logiche padronali (si ha infatti l'impressione che Brunetta non decida nulla: semplicemente, prende ordini) fornisce, almeno a coloro davvero attenti alle parole, la tara di questa regione del potere italico: 3 euri di confezione, 50 centesimi di frutta.
Fatti i dovuti calcoli, quindi, e persino operate approssimazioni per difetto, risulta facilmente verificabile che 18 è il 51% di 35. Salvini è quindi, “all'interno del centro-destra”, l'esponente di maggioranza, con buona pace – sebbene improbabile – di Brunetta.
Questi politicanti, così palesemente maldisposti ad accettare la sconfitta in ogni sua forma, dimostrano un'età mentale che si discosta per gravissimo difetto da quella anagrafica. Vi scorgo atteggiamenti non difformi da quelli di mia figlia, che a cinque anni e mezzo ha le stesse difficoltà, e devo quindi rendere vittoriosa ogniqualvolta noi si giochi insieme.
Qui si parla di persone di 80'anni (non dimenticate che il padrone di Brunetta è un ottuagenario, un Benjamin Button cui non è stata data la fortuna di rigenerarsi in Brad Pitt), persone a diretto contatto con la morte che ancora si prodigano per detenere una qualsivoglia fetta di potere e, per ottenere ciò, non si fanno scrupolo di tenere il paese in stasi governativa. I problemi degli altri possono attendere.
Detto ciò, esiste in quello stesso paese un 14% che, di questa compagine così straordinaria nel suscitare imbarazzo, ne supporta ed apprezza l'azione. Sarebbe bello conoscerne la composizione nel dettaglio, vedere con occhio scientifico il tipo umano che in una siffatta forza si riconosce.
Personalmente, è un dato del quale sento di essere già a conoscenza.
È dedotto dall'osservazione e dalla frequentazione forzata.
E, quello che vedo, non mi piace per nulla.

giovedì 8 marzo 2018

ITALIAN HISTORY X. Il Rimpianto Elettorale.


Discuto con un conoscente delle possibili, potenziali, future alleanze di governo, visto che, per una coscienza realmente civile, non c'è argomento altrettanto rilevante, di questi giorni.
Francesco, romano ed ostentatore compulsivo della tessera online attestante la propria iscrizione al Movimento Cinque Stelle, mi guarda sospettoso.
“Tra quelli della Lega e quelli del PD, a questo punto, preferisco gli ultimi: mi sembrano maggiormente innocui”, dico.
“Ma tu sei di quella parte, giusto?”, la replica.
Francé, nella mia vita ho pulito cessi e scaricato bagagli: intravedi anche solo una remota possibilità che, con un curricula così, io possa dirmi di destra?”
“... Ma tu, come li vedi, gli ebrei?” (!)
“... Ritengo la storia sia dalla loro parte, ma estremamente discutibile la politica di Israele. Lo disse anche Primo Levi... Ma questo che cazzo centra? Io ti ho chiesto un'opinione, un'opinione politica.”
Io penso che un'alleanza, se proprio ci deve essere (sic), è da fare (sic) con Salvini, non con quei cornuti del PD.”
THE END.
È sufficiente questo breve scambio di battute per capire come nel M5S sia confluito, a costituirne la base elettorale, un miscuglio letale di fascisti, fuoriusciti, reietti politici, senza-patria e pasionari di passaggio.
Ah, dimenticavo: e coglioni come me che pure lo hanno votato.
L'impasto tiene perché i motivi di protesta e delusione sono tanti, ed associabili, rispettivamente, ad ognuna delle categorie appena citate.
Ma quando, più avanti, le istanze di queste torneranno a farsi sentire (il fascista che converge nell'M5S non è un convertito, è solo un soggetto in fuga con al seguito tutto il suo bagaglio ideologico, e stesso dicasi per gli altri), l'inconciliabilità emergerà violenta internamente al movimento.
Ciò che più mi urta, delle persone come Francesco, è la nebulosità nella quale tengono i concetti di destra e sinistra, nella stragrande maggioranza dei casi cristallizzati nel binomio ormai atemporale di fascismo e comunismo. Chiedete a tutti coloro che rivendicano o denunciano appartenenze di scrivere in poche parole, seduta stante, le loro definizioni di 'destra' e 'sinistra'. Scoprirete un mondo dove l'ignoranza regna sovrana, e che è facile sferrare un attacco ideologico quando si è intellettualmente poco appesantiti.
Per non parlare, naturalmente, di ebraismo, materia dove un esperimento come quello proposto potrebbe risultare in una esibizione di mostruosità paraculturali.
E poi, me lo si lasci dire: gli 'amici romani', un vizietto antisemita, ce l'hanno proprio. Si ha davvero la netta impressione che essere ebrei a Roma sia come essere black a Charlotte NC.
(Ho appena terminato la rilettura, a distanza di quasi 35 anni, de L'Istruttoria di Peter Weiss. E rimango convinto che la carenza di buone letture sia la causa scatenante del ciarpame post-ideologico oggi circolante).
Detto ciò, lo sconforto è grande. Abbiamo bisogno di un governo. E subito. Abbiamo bisogno di vedere amministrato il paese e gestite adeguatamente le sue priorità (lavoro e scuola, emergenze che da sole possono occupare un intero mandato, full time). Ma per fare questo dobbiamo purtroppo rassegnarci alla costituzione di un'alleanza che si sacrifichi per il raggiungimento di questi obiettivi, capace di mettere da parte il famigerato interesse personale e di pretendere lo stesso alle rispettive basi elettorali.
Ad ogni modo, la battuta più bella, tra quelle circolate in questi giorni, l'ha fatta, con sorpresa di molti, Mario Balotelli, non propriamente un simpaticone (il sospetto è che qualcuno particolarmente arguto l'abbia partorita e messa in bocca al Mario nazionale). Parlando del potenziale ministro per l'immigrazione in quota Lega, Toni Iwobi, di origine nigeriana, ha detto: “Qualcuno gli ha fatto notare che è nero?”.
Ecco, questo ci manca: Balotelli che si ricicla – anch'egli – come battutista.
Battutista di testi che non comprende.
Come, temo, molti seguaci del M5S.

venerdì 2 marzo 2018

CANNIBAL HOLOCAUST. Preghiera Per L'Autoeliminazione Della Classe Politica (Odierna).


Questo non è l'editoriale di un apprezzato – o prezzolato – giornalista.
Questo è il pensiero di un cittadino che domenica prossima sarà chiamato a decidere, in cabina elettorale, per una buona fetta del suo futuro prossimo. Suo come della sua famiglia, e di un'altrettanto consistente porzione di connazionali.
Compito ingrato, per un individualista. Ma ugualmente sentito come dovuto sotto il profilo morale.
Non parlerò qui male della nostra classe politica, presa in esame per come costituita dell'era Monti ad oggi. Troppo facile. È come picchiare Qui, Quo e Qua. Mi limiterò a serbarle un giudizio di inaffidabilità, citando impropriamente Indro Montanelli: se dichiara, essa, che oggi è giovedì, meglio pensare subito si tratti di mercoledì o venerdì.
Detto questo, ritengo che nessun voto, prima di questo, sia stato all'insegna della disperazione, per ciò che riguarda non solo la scelta di candidati e schieramenti, ma proprio per il clima sociale nel quale molti elettori, tra cui chi scrive, si trovano ad operare questa scelta.
Il gigantesco David Foster Wallace, che non finirò mai di citare per le parole sempre esatte ed accorate che ebbe a scrivere in vita, sentenziò già all'epoca della campagna di John McCain (anno 2000) che “non è mai esistita una generazione di giovani elettori a cui della politica e dei politici sia fregato meno della vostra.”. Io, che giovane lo ero a quel tempo, posso confermare. Vale anche da noi. Eccome! E da quanto mi è dato da vedere, e soprattutto sentire, la generazione cui è stato passato il testimone ha così tanti e diversi problemi da poter persino divenire aggressiva, qualora ci si permettesse di avanzare questa pacata e fraterna osservazione.
Dal momento, però, che mi appresto a votare, turandomi il naso (ecco qui tornare, ancora, il fantasma del vecchio Indro), un formazione che si dichiara antropologicamente superiore (atteggiamento che in un contesto diverso da quello pre-elettorale darebbe vita ad una rissa, questa sì, di antropologica supremazia) e che non mi piace, è doveroso svelare la logica dietro tale scelta.
Sono sempre sta molto colpito dalla natura predatoria della classe politica. Sinceramente ho appreso, e compreso, molto più su di essa attraverso i documentari del Discovery Channel che per mezzo degli editoriali di Giovanni Sartori. L'alibi unico a sua disposizione è che a tale livello di aggressività contribuisce l'ambiente politico stesso, e quindi marchiare e difendere il territorio diventano moduli comportamentali legati alla sopravvivenza e al proseguimento della specie.
Detto ciò, colpisce il vedere degli squali bianchi, quali quelli che la politica nostrana vanta al proprio interno, in preda al terrore non solo quando messi fronte al Movimento Cinque Stelle (nome più imbarazzante non poteva essere trovato, bisogno riconoscerlo), ma anche solo all'udirne il nome. Sono persone, queste, che, di norma, non temono nulla, di un opportunismo capace di contemplare l'antropofagia, se giustificata dai fini. Eppure la visione di questo spauracchio politico, attiva in loro tutte le difese praticabili.
Questa inqualificabile classe politica ha quindi anch'essa un tallone d'Achille (la psicologia questo lo ha capito fin dalla sua fondazione: siamo noi in ritardo, con il falso mito dell'infallibilità). Impegnata da diversi, troppi anni nella gestione di conflitti endogeni, e per questo del tutto indifferente alle problematiche del cosiddetto paese reale, la scopriamo ora seriamente preoccupata per la propria sopravvivenza, che sente minacciata da quelli di Grillo.
Ignoro per quale motivo la minaccia sia avvertita come concreta. Ma so che questi sono conflitti che vanno risolti: nell'immediato e dalle sole parti in gioco.
Domenica prossima voterò Movimento Cinque Stelle perché ritengo che di maschi territoriali ve ne debba essere uno e solo uno.
È una logica pericolosa, la storia ne offre esempi dolorosi. Ma al momento, il piacere primitivo del vedere certe facce sbranate vive dai contendenti il territorio mi aggrada e sembra rispondere ad un processo selettivo auspicabile e necessario.
Buona fortuna a tutti.

lunedì 12 febbraio 2018

TOP TEN ITALIA. Ovvero: Resistere Al Festival Di Sanremo.


Dopo gli orrori di Sanremo, era giusto e doveroso redigere una lista di canzoni italiane in grado di restituire dignità al genere e ai suoi fruitori.
Ecco, allora, quasi un antidoto, la...
TOP TEN DELLA CANZONE ITALIANA
10. Zen Circus – Andate Tutti Affanculo
Potrebbe essere la versione anni-2000 di Sui Giovani D'Oggi Ci Scatarro Su degli Afterhours. Il trio di Andrea Appino elenca, in questo brano dall'andatura soporifero-psichedelica, le categorie a suo parere meritevoli del trattamento in 'oggetto'. E, a ben guardare sia alla composizione della lista sia al nostro più recondito sentire, risulta difficile non dirsi concordi. Notevole realizzare vi possa essere poesia anche in un gesto così categorico ed esclusivo. Da sentire.
9. La Mia Generazione Ha Perso – Giorgio Gaber
La canzone politica – specie in un paese dove la politica non gode esattamente di ottima reputazione – ha sempre avuto vita dura, si sa. Ancor più è raro che i suoi interpreti siano capaci di riconoscerne gli abbagli e i fallimenti ideologici. Ecco perché questa canzone, eseguita strumentalmente in maniera eccelsa, spicca per rilevanza e scorrettezza politica. Sta tutto nel titolo. E nella rabbia incalzante del Signor G. Imperdibile.
8. Fist – Linea77
Tredici anni fa i torinesi Linea 77 si unirono ai cervelli italiani in fuga, e registrarono a Los Angeles un disco (Available For Propaganda) dall'impatto sonoro sconosciuto alle produzioni nostrane. Questo è il brano che apre il disco nel mentre sfonda le casse del vostro impianto. La rabbia italica montante, raffigurata nel testo da immagini di deragliamento sociale, aveva bisogno di un suono nuovo in grado di ben rappresentarla, e lo trovò in questo brano. No TAV.

7. Sosta – Punkreas
È divertente pensare ad una canzone il cui contenuto sia, al tempo stesso, un'apologia di reato ed una deliberata manifestazione di autoironia – nonché di sbruffonaggine. Il tutto condito con un onesto suono
punk. In un paese di persone serie e perbene, di santi, navigatori ed eroi come il nostro, ben ci stava una prova di derisione di una parte, per quanto piccola, del suo sistema. I Soliti Ignoti versione punk.


6. Money For Dope – Daniele Luttazzi
C'è un motivo ben preciso, oltre ad una indubbia, sana esterofilia, per la scelta di scrivere e cantare in Inglese questa canzone: liberarsi, almeno linguisticamente, dalla stretta di un paese ingrato, prepotente e persecutorio. Questo brano, eseguito con sensibilità a fior di pelle da un gruppo di musicisti tutto italiano, fece infatti da malinconica sigla di chiusura a Decameron. Ascoltandolo incantato, Enrico Rava pensò che questo brano, scritto e musicato da Luttazzi, fosse in realtà un rifacimento, e ne chiese lumi all'autore. Di nicchia.
A volte ci vuole più coraggio a restare che ad andar via. E per chi resta l'unico modo per preservare intatta la propria umanità è la ricerca dell'Altro da sé, sia esso un amico, un fratello, un sodale, compagno d'avventura o perfetto sconosciuto. Cercare l'Altro nella fiduciosa, salvifica speranza di potervi riconoscere sé stesso. Questo il succo della canzone della formazione veneta che più di ogni altra ha saputo ridare lustro sonoro e lirico alla canzone politica italiana. Il verso su “Roma capitale” da solo vale l'acquisto dell'intero disco.
4. Tre Allegri Ragazzi Morti – Occhi Bassi
In pochi hanno cantato l'adolescenza senza risultare stucchevoli, impresa difatto riuscita al trio del disegnatore Davide Toffolo. Occhi Bassi mise a fuoco una solitudine adolescenziale e femminile in tempi non sospetti (l'
album Mostri & Normali è del 1999, precedente alla 'moda' del dibattito sul femminicidio), e lo fece con un tono scanzonato, ma non privo di rispetto. A dimostrazione che una sensibilità veramente artistica possiede antenne in grado di captare i tempi presenti e futuri.
3. Questo Paese – Daniele Silvestri

Bastano pochi versi, una voce sincera e qualche accordo – sebbene, in questo caso, affidati al pianoforte meraviglioso di Stefano Bollani – per dare vita ad una grande canzone. Quella di Silvestri concentra in due strofe tutto il disincanto per un paese le cui bellezze e cui talenti troppo spesso passano inosservati proprio a coloro che 'questo paese' lo abitano. Dolcissima.


2. Lei Colorerà – Musica Nuda
Un duo tanto straordinario può davvero permettersi di tutto. Quando poi fa sfoggio di umiltà affidandosi a chi le canzoni le sa scrivere, il risultato è questa perla di rara bellezza. Scritta da Alessio Bonomo per il loro album del 2011, Lei Colorerà è poesia in musica al minimo comune denominatore. E la voce di Petra Magoni lascia incantati.

And the winner is...


1.
ANIME SALVE – FABRIZIO DE ANDRÉ.
Poesia, bellezza, soavità, ambiente sonoro perfettamente attagliato alla voce del suo interprete. E quando, come dal nulla, la voce di Ivano Fossati si inserisce in controcanto, questa canzone stupenda si trasforma in un inno di pace, di serenità fraterna, di calore umano, di terrestre empatia. Raramente, la canzone italiana, ha brillato di un simile, abbacinante splendore.

lunedì 5 febbraio 2018

L'UOMO VERO. 20'anni fa l'universale interpretazione di Jim Carrey in The Truman Show.


La vita non è qualcosa che si possa affrontare scherzando. Quella è commedia. Materia che già abbonda, nel nostro paese.
Non la si può prendere neanche troppo seriamente. L'ironia è una qualità specificamente umana, e senza di essa saremmo destinati a cedere allo sconforto, ad una tragedia senza fine.
Ho rivisto The Truman Show, il film di Peter Weir che, 20'anni fa, in tempi non sospetti, smontava per intero il meccanismo del reality show, format che avremmo poi visto letteralmente imperare, tanto da portare alla nascita di canali tematici real. Rivisto con il senno di poi, ha suscitato in me una tenerezza prossima alla malinconia: per il suo protagonista, la cui esistenza è depredata nell'intimo; per noi tutti, incapaci troppo spesso di impedire che i nostri sentimenti più puri vengano irretiti subdolamente.
Per essere un prodotto di notevolissimo spessore autorale e – sorprendentemente – di grande successo commerciale, fu davvero poco premiato. Ma il sistema, si sa, non tollera insubordinazioni.
The Truman Show fu anche il film che mostrò il talento, fino ad allora inespresso sul fronte 'impegnato', di Jim Carrey, la cui carriera risultava relegata esclusivamente all'ambiente della comicità e della commedia brillante o demenziale.
L'interpretazione di Truman Burbank fu di un tale livello, così piena di vitalità e di poesia, da spianargli la strada, l'anno successivo, per un'altra grande pellicola, Man On The Moon, di Milos Forman - a mio parere il film per il quale Carrey verrà ricordato.
A riprova di ciò, le due prove si tradussero in altrettanti Golden Globes come miglior attore protagonista. Il resto è storia.
Ma ciò di cui voglio parlarvi, oggi, è come questo talento naturale e smisurato – il Peter Sellers americano – diede prova di ponderatissima consapevolezza del proprio ruolo in quel di Hollywood, all'interno della 'macchina', in occasione del conferimento dell'MTV Award per The Truman Show. Di come un artista che stava ricevendo il meritato riconoscimento per il proprio lavoro in ambito 'serio', con un film che denunciava 'il sistema' come falso, manipolatorio ed intrusivo, riuscì a risolverne la contraddizione.
Vi invito a compiere uno sforzo di comprensione ed attenzione al filmato che segue. Ne vale la pena. Darà senso a quanto si dirà più avanti.

Dichiarato vincitore, Jim Carrey, solo ed irriconoscibile, lascia la poltrona con oppiacea lentezza (da non perdere la faccia di Ben Stiller, che siede davanti a lui). Ha in mano una sigaretta dal contenuto sospetto. Bacia la presentatrice sulla bocca. Attacca il discorso cantando con vocalità alcolemica. Scambia la cerimonia con la notte degli Oscar e prosegue con del puro nonsense spiritual-esoterico (“... dancing for the man just ain't where it's at.”). Dedica il riconoscimento ai suoi 'nuovi amici bikers'. Prosegue a fumare noncurante del contesto. A tratti si mostra assente. Accarezza i capelli lunghi rimanendovi impigliato. Ringrazia MTV per aver dato tutti loro la scusa per l'ennesimo party, e se la prende con la direzione artistica dicendo di non sopportare il rap e di volere più rock. Vira verso un atteggiamento spudoratamente macho ringraziando tutte le signore presenti, per poi dichiarare: “Ci sono un po' di belle fighe in questa stanza, stasera.”. (L'audio è censurato, ma se si osserva la reazione stupito-esilarata delle donne presenti, si può essere certi che abbia detto proprio così: “There are some fine-looking PUSSY in this room tonight.”. Prestate attenzione. è l'unico momento nel quale Carrey, anch'egli divertito, sembra perdere il controllo sul personaggio). Lo schema è saltato. Taglia il fiato a tutti i presenti rincarando subito la dose con una nota da erotomane: “Finirete tutte nelle mie fantasie, ve lo dico.”. “Non mi importa chi siano i vostri papà.”. Il treno è ormai lanciato e nessuno più può fermarlo: “Ehi, viene al party, la pollastra del video di Ricky Martin? Non ho idea di chi sia, ma ho proprio l'intenzione di scoprirlo.”. Sorride. Mostra un incisivo mancante. Nessuno più è in grado di trattenere le risate.
Cioè, MTV era allora l'emittente con la maggiore influenza commerciale a livello planetario. Influenza che avrebbe impiegato, negli anni successivi, proprio per produrre e diffondere format reality come Jersey Shore, Teen Mom, My Super Sweet 16, Ex On The Beach e The Osbournes e via dicendo. Carrey si trovava quindi nella tana del lupo, premiato per un film che dipingeva quella stessa tana come una spelonca di falsari e di ipocriti. Presentarsi in quelle vesti fu un colpo di genio: combattè il falso con il falso, e ne uscì vincitore.
La grandezza di Jim Carrey sta nell'avere così preservato integra l'universalità della sequenza finale di The Truman Show, quella dove Truman decide di oltrepassare la soglia dello studio televisivo, addentrandosi nel buio.
Non siamo forse, noi tutti, tanti piccoli Truman Burbank, impegnati a riappropriarci della nostre rispettive esistenze?
Uno smoking, del cerone ed uno stucchevole discorso scritto avrebbero certamente compromesso tutto.
Avete compreso, ora, la differenza tra un artista e un buffone?

mercoledì 31 gennaio 2018

SCEMO & PIÙ SCEMO. Radio Deejay e Radio Freccia banalizzano in diretta due grandi film.


Poche altre cose mi risultano maggiormente urtanti del sentire banalizzati o fraintesi i film che amo.
È toccato giorni fa a Into The Wild–Nelle Terre Selvagge ricevere tale trattamento, per mano di Nikki e della cricca di Tropical Pizza (Radio Deejay), i quali hanno sostenuto, in diretta – forti di un'ascoltatore intervenuto via sms – che il bel film di Sean Penn, del quale ricorre il decennale, è perfetto per 'concludere'. Traduzione: limonare.
Sia chiaro: limonare è bellissimo. Ma la pratica non gode di carta bianca. Voglio dire: uno non interrompe l'evacuazione perché ha occasione per limonare. C'è un momento per tutto.
Vi starete chiedendo – immagino – com'è che il vostro umile cantastorie rientra nel novero degli ascoltatori di Tropical Pizza. È semplice: penso non vi sia nulla di più corroborante per la propria autostima del mettersi a confronto con persone le cui carriere riteniamo coronate da immeritato successo. Se tale mediocrità può godere di una base d'ascolto a livello nazionale, quelli come noi non sono ancora morti. Hanno un domani. Training autogeno, signori.
Di tutte le sequenze memorabili - della commistione fortissima con la colonna sonora, del messaggio politico, dell'interpretazione di Emile Hirsch, della regia naturista di Penn - Nikki e i suoi hanno ricordato solo la parte dove un'adolescente Kristen Stuart tenta di sedurre il protagonista. Il quale, però, da vero radicale, reprime l'istinto abbandonando il campo. E giù risate, allora, per quel frocio di Alexander Supertramp. E fischi, invece, per la bella Tracy, figa nomade che loro – la clique di 'Tropical', veri maschi – mai si sarebbero lasciati sfuggire.
Into The Wild come film sulla fica. Niente male.
Trattandosi di un programma radiofonico, non poteva mancare la messa-in-onda di Hard Sun, l'epica canzone che qui nella versione di Eddie Vedder regala allo spettatore uno dei momenti topici della pellicola: la fuga in macchina del protagonista (capitolo1: la mia nascita). È stata descritta dal solito Nikki come una canzone “che va bene sempre, in ogni momento”. Ecco: dire questo di una canzone che tratta del rifiuto ad adattarsi, appunto, ad “ogni momento” istituzionalmente imposto, significa averne del tutto frainteso il messaggio – o, più semplicemente, non averlo mai afferrato.
Il protagonista di Into The Wild-Nelle Terre Selvagge fuggiva da quelli come Nikki. E, certo, pure da quelli che come me gli prestano ascolto.
Per restare in tema di clamorosi fraintendimenti cinematografico-narrativi, quelli di Radio Freccia, ieri l'altro, non hanno voluto essere da meno.
Parlando di Mystic River – forse il film più bello, maturo e riuscito di Clint Eastwood, insieme a Million Dollar Baby -, hanno dato l'aire all'ennesimo radioascoltatore mediaticamente intervenuto, il quale ha precisato – sentite qui! - che “quel personaggio”, “quello tutto strano”, “quello che ad un certo punto viene ammazzato”, lui, il radioascoltatore cioè, non lo regge, e, giunto a quel punto della visione, puntualmente spegne il televisore.

Senza vergogna alcuna.
A parte il fatto che, giunti a quel punto della vicenda, si è oltre la seconda ora di un film di due e 20, e quindi alla fine. (Avete presente quelle persone che, sostenuti tutti gli esami all'università, decidono di rimandare la tesi a vita? Stessa cosa.). Il “personaggio” in questione è Dave Boyle, protagonista di una vicenda che lo vede sottomesso dalla vita a partire da un abuso subito in tenera età fino alla morte violenta 25 anni più tardi per mano del suo supposto miglior amico. Interpretato magnificamente da Tim Robbins - capace, quest'ultimo, di rendere in maniera straziante e impietosa tutto il vissuto di estrema sofferenza del personaggio -, checché ne dicano quelli di Radio Freccia e i loro ascoltatori, non è semplicemente “quello che viene ammazzato”: rappresenta la chiave di lettura dell'intero film. E quindi interrompere impulsivamente la visione di Mystic River a questo punto significa o non aver compreso o non voler comprendere – che è peggio.
Mi chiedo: cos'hanno nella testa, queste persone? Da quando, alla radio, si può banalizzare e scherzare su di una vittima – qual è a tutti gli effetti il personaggio in questione - ancorché frutto di invenzione narrativa?
Mi consolo pensando che, con molta probabilità, anche gli amici di Radio Freccia seguano la tendenza endemicamente italica a parlare di cose, fatti e persone dei quali non si ha alcuna conoscenza.

giovedì 25 gennaio 2018

SILVER RIDER. L'incantevole 'cover' di Robert Plant.


Incontrai Robert Plant di persona una decina d'anni fa, per un caso fortuito, e potei constatare che il giovane dio del rock, quale egli fu a cavallo fra '60 e '70, stronzetto, sciupafemmine e miliardario, aveva lasciato il posto ad una persona adulta di grande affabilità, autoironica, capace di infondere tranquillità con la frequenza imperturbabile di una apparecchiatura medica.
Non fornirò qui i dettagli di quell'incontro davvero incredibile: sarebbe come tirarsela, e ben più di quanto lo stesso Plant usasse fare in gioventù. Dirò solo che avvenne in occasione della presentazione italiana di Raising Sand, il pluripremiato disco inciso con Allison Krauss nel 2007, lavoro dalle interessanti implicazioni culturali e psicologiche.
Il perché questa introduzione è presto detto. Negli ultimi giorni sono andato a riascoltare un brano che Plant incise qualche anno dopo quell'incontro, nel bellissimo Band Of Joy, lavoro di assoluta maturità sotto ogni aspetto, in particolar modo quello strumentale, al punto da avere persuaso lo stesso Plant a tributare ai suoi musicisti l'onore di un album omonimo (e dalla copertina orrenda).

Silver Rider non è farina del suo sacco, bensì frutto del lavoro della consolidata coppia, di nome e di fatto, Sparhawk e Parker, meglio conosciuti come Low (sentii questa formazione statunitense nel lontano 2003, quando, accolti con sufficienza dal pubblico, aprirono la data fiorentina dei Radiohead in un'esibizione da pelle d'oca di grandissima intensità). La si può sentire in un album del 2005 dall'accattivante titolo di The Great Destroyer. Il disco è considerato dai più il loro capolavoro: da una minoranza maggiormente attenta, il classico spartiacque che sancisce l'abbandono delle soluzioni stilistiche d'esordio a favore di altre maggiormente adatte all'espressione della propria, sopraggiunta maturità. In questo contesto, Silver Rider risulta l'unico brano ancora carico di quell'intimismo e quella delicatezza - strumentali, vocali e testuali - riscontrabili nei dischi precedenti, caratteristiche che hanno contribuito a rendere celebre questo duo - quantomeno tra coloro che quanto a gusti musicali non si accontentano.
Ed è proprio qui, su questa particolarità del brano, che Plant realizza la classica cover capace, nel giro di un ascolto, di catturare, emozionare, commuovere e annientarne la versione originale.
L'arte, quella vera, ha con sé, sempre, una parte di non-detto. Non esaurisce il contenuto (sebbene vi siano opere che molto si avvicinano a questo risultato: si pensi alla Pietà di Buonarroti o alle Variazioni Goldberg di Bach). L'arte offre una visione, indica una via. Ecco: sul quel non-detto si situa l'interpretazione che noi diamo quali esecutori, ascoltatori, spettatori, occasionali fruitori.
Nel caso di Plant, la veste è duplice: ascoltatore ed esecutore. Ha sicuramente ascoltato con grande apprezzamento The Great Destroyer, intuendo che, in quel brano specifico, l'inespresso era meritevole di sottolineatura, di un'interpretazione nuova, appunto (sull'arte dell'interpretazione, serve ricordarlo, la musica classica offre ormai una tale mole di materiale con il quale approfondire il discorso da rendere insufficiente ad evaderla anche la più rosea delle aspettative di vita).
Personalmente, ritengo sia quasi impossibile, senza riceverne preavviso, riconoscere la voce di Plant in questa esecuzione, abituati come siamo in molti ad associarla agli acuti tirati e ai falsetti dell'era Zeppelin. Ma non sta forse proprio in questo, la maturità? Riuscire a dire le stesse cose di un tempo con una modalità però più personale, maggiormente aderente a ciò che sentiamo di essere diventati?
Silver Rider è un'esperienza di terrena bellezza. Il suo testo, improntato ad una serena accettazione della finitezza dell'esistenza, è reso da Plant con un canto che è in realtà un sussurro, un filo di voce umilmente impiegato per descrivere la visione del 'cavaliere argentato' – colui che, in una mormonica visione della vita, è comandato a condurre all'ultimo viaggio.
Se i toni del cantato appaiono smorzati – e sdoppiati da un unisono femminile davvero ammaliante -, quelli strumentali sono esaltati da un suono di chitarra di rara bellezza, frutto delle dita, e della ricerca, di Buddy Miller, e del missaggio, perfetto, di David Friedmann.
Diciamo che, in questa versione, Silver Rider restituisce all'ascoltatore un rapporto con la propria dimensione interiore, con il senso della propria misura rispetto all'ambiente dove ci è dato vivere, così come un ritrovato senso della bellezza, che sempre più rischiamo irrimediabilmente di perdere.
Se anche un dio del rock - come si diceva di Plant in apertura - giunge a questa conclusione, è il momento, per tutti noi, di riflettere seriamente sul significato ultimo dell'esistenza.
Buon ascolto.