Peccato che Brian Molko abbia ormai
da tempo ceduto ad atteggiamenti da primadonna: egoici, presuntuosi,
accentranti (forte, in questo, del fatto che la propria band,
a 20'anni buoni dal debutto, sia ancora viva e vegeta).
Sarebbe bello parlare con lui,
infatti, da persone normali, dei presupposti che lo hanno portato,
insieme al suo gruppo, a realizzare una delle covers più
belle, azzeccate e significative degli ultimi tempi.
Life's
What You Make It, successo anni '80 degli ormai
artisticamente defunti Talk Talk, è stata riproposta dai Placebo,
nel giugno scorso, corredata da un video di notevole spessore
autorale e politico, affidato dagli stessi a Sasha Rainbow, video
artist già apprezzata per arditezze registiche in ambito
musicale e pubblicitario (mi chiedo: Gabriele Muccino guarda mai i
videoclips dei suoi colleghi prima di realizzare quelle cose
terribili con Lorenzo Jovanotti?).
La coesione assolutamente perfetta
creata da questa factory tutta
britannica (arrendiamoci: quando si parla di rock
il paese della Brexit è ancora il riferimento d'obbligo) è
tale da costringere ad un'analisi congiunta del progetto –
similmente, per citare un esempio, a quanto accadde quasi 40'anni fa
con The Wall dei Pink Floyd, in seguito al film di Alan
Parker.
Il set,
in esterna, è ambientato ad Agbogbloshie,
sobborgo di Accra, Ghana. Nella bellissima fotografia, e nel
montaggio alla moviola, donne, uomini, ragazzini e bestiame sono
ripresi nel corso di una surreale attività di differenziaggio in
un'immensa discarica a cielo aperto. I titoli di coda spiegano che
Agbogbloshie è stimata come la più grande discarica tecnologica del
mondo. La devastazione ambientale, sociale ed urbana cui si assiste
atterriti per i sei minuti scarsi del videoclip
è l'indiretto risultato di ogni computer,
televisore, cellulare, tablet,
reader,
cuffia, pad,
auricolare, smartwatch
e qualsivoglia gadget
costantemente presente in tutti i negozi di tutte le nostre città,
da noi rottamato a favore di un nuovo modello. A livello registico,
escludendo l'iniziale zoom
inverso di matrice kubrikiana (il Maestro è ormai una presenza
inconscia in tutti coloro che siedono creativamente dietro una
cinepresa), non assistiamo alle arditezze cui si è accennato in
apertura (si veda, al proposito, l'ansiogeno video che Sasha Rainbow
ha realizzato per il brano Electric
Bones
di Natalie Findlay). Va qui premiata l'intuizione di conferire alla
cover una veste non iconografica (i membri della band non sono
presenti nel filmato), bensì quella di una coraggiosa scelta
politica e civile.
Fin qui, fattura
delle immagini a parte, nulla che non sia già stato mostrato e
denunciato dal più intransigente e militante giornalismo
d'inchiesta.
Con
questa versione di Life's
What You Make It, però,
il discorso prende una piega del tutto inaspettata.
A
livello sonoro, rispetto all'originale, è assente ogni traccia di
strumento acustico (il giro
di pianoforte e la batteria). Armonicamente fedele alla versione dei
suoi autori - con l'esclusione della voce, limpidissima - ogni
strumento è proposto con una propria, sofisticata campionatura.
Campionature – ed eccoci sul pezzo, come si suol dire – ottenute,
magistralmente, proprio con quella componentistica che, nella ripresa
aerea a chiusura del video, vediamo occupare una superficie nel mondo
occidentale normalmente assegnata ad un centro urbano di media
grandezza. La voce di Brian Molko (missata in maniera a dir poco
magica), oltre a conferire un nuovo peso specifico al testo di Mark
Hollis (visionario al tempo della stesura, distopico ad una lettura
odierna), instilla un senso di pura bellezza su di un panorama umano
apocalittico, con quel vocativo “Baby” alternativamente rivolto a
noi ascoltatori – e fruitori di gadgets
elettronici – e, per estensione, alle creature che popolano la
discarica, in un inquietante affratellamento (avremmo potuto esserci
noi tutti ad Agbogbloshie, in un altro corso storico). In altre
parole, si è di fronte ad una estetizzazione, di notevole livello,
del grottesco. Ciò che appaga il nostro ascolto è prodotto da
quello stesso scarto che vediamo stazionare nel sobborgo ghanese. Ciò
che può aiutarci a dare un senso al vivere è lo stesso oggetto che
soffoca e toglie la vita. Anche qui va apprezzata l'intuizione del
gruppo inglese: l'avere avvertito che ad una nuova veste sonora
sarebbe corrisposto un nuovo, più attuale ed urgente messaggio.
La vita è ciò
che ne fai. Life's What You Make It. Non è effettivamente
così, ad ogni livello, in ogni ambito, per ogni singola esistenza?
Pensiamoci. È un'asserzione le cui conseguenze, in determinati
contesti, potrebbero rivelarsi devastanti. Ma tutti, con uno sforzo,
possiamo verificarne l'attendibilità, almeno per ciò che riguarda
le nostre singole esistenze.
In un'epoca di
radicalizzazioni come la nostra è una riflessione che dovremmo
compiere spesso.
E che sia una
canzone a ricordarci questo, è solo il segno che l'arte è ancora
viva.
Parla a noi.