Premesso che non mi sembra di
rientrare nella categoria degli snobs monomaniacali,
carbonchiosi, condiscendenti e veramente elitarii;
che sull'argomento, esplicitato nel titolo, sono stati scritti fiumi
di parole, sovente di eccelsa qualità, spesso da parte di sedicenti
fans con palle letterarie di acciaio e passione invidiabile;
che questo – utile ricordarlo, periodicamente – è uno spazio
personale e pertanto deputato ad ospitare ne più ne meno l'opinione,
il pensiero e il sentire del momento di chi lo ha creato e – si
suppone – lo gestisce. Premessa inoltre la convinzione di vivere
un'era di grandissima difficoltà esistenziale, di malattia mentale
dilagante, di crescente aggressività fisica e verbale e di carestia
affettiva, mi sono imbattuto nell'ennesimo brano degli amati/abusati
Radiohead, che penso meriti dell'attenzione, una pausa di riflessione
e magari – perché no? - lo status anomalo di 'consiglio per
gli acquisti'. (Premetto anche che, ultimo scritto del genere
la-canzone-che-mi-ha-fatto-innamorare [bleah!], dal prossimo
post si tornerà a parlare di calcio, puttanelle, tronisti,
politici, video virali, polemiche social e rimbambiti vari,
argomenti che sembrano non conoscere eclissi alcuna, garantendo nel
contempo statistiche di visualizzazione da capogiro).
Non ho mai amato particolarmente The
Bends, il secondo disco in studio dei cinque di Oxford. Iniziai
ad apprezzarli morbosamente in tarda età (a dispetto del clamore
discografico e culturale), grazie a mia moglie, quando erano
già, a ragion veduta, a leggenda vivente. Era l'anno 2003. Il
riferimento discografico Hail To The Thief. Ed essendo,
quest'ultimo, un disco di conferma del percorso intrapreso tre anni prima
con Kid A, pose dei paletti profondi nel catalogo del gruppo,
facilitando il mio ascolto nei confronti dei lavori successivi a The
Bends. (A beneficio dei più giovani e dei non credenti: il culto
- prima sotterraneo, poi di superficie – che ha interessato questa
band fin dagli esordi, è ben esemplificato dalla spedizione,
in quel di Londra, che un gruppuscolo di giovani di una piccola
frazione sui colli sopra Arona organizzò nella speranza di far
coincidere lo sbarco a terra con un live dei nostri - in un
lontano 1994 dove gli U2 occupavano ad esaurimento-posti i gusti di
massa europei e statunitensi, il quintetto inglese aveva alle spalle
un solo disco, e le politiche a basso-costo del trasporto aereo,
unite alle comodità web, non esistevano [cosa che complicava
questo tipo di trasferta di non poco, quasi sempre costretti a
viaggiare su voli charter di babbioni inglesi al rientro
dall'italian trip: per
capirci, gli stessi che due mesi fa – sicuro – hanno votato a
favore della Brexit. Grazie
al cazzo, fellas.]).
Generalizzando molto, si tende a considerare come 'd'esordio' i primi due
dischi, Ok Computer come transizione verso una cifra
stilistica radicalmente nuova, i due successivi come la grande
svolta, e quindi un graduale dissolversi nel mito, fino ai giorni
nostri. In preda a quella noia mortale che l'estate insiste a voler
elargire, ho riascoltato The Bends. Con piacere. Al momento di
Bulletproof... I Wish I Was, ho avuto la sensazione netta di
un'illuminazione: fu in quel brano che le incrinature nello stile
musicale dei Radiohead diedero vita a quel percorso di crescita
artistica e cambiamento che ha forse un unico, illustre precedente: i
Beatles di Rubber Soul.
Mi sono sempre domandato quale
sensazione può avere provato Thom Yorke, il giorno nel quale ha
lasciato lo studio di Abbey Road per tornare in albergo - o magari a
casa, vista la vicinanza con Abingdon OX-, dopo avere registrato la
versione di Bulletproof... I Wish I Was che è possibile
sentire alla traccia nove di
The Bends.
Non fosse per i suoni che si suppone siano stati sovraincisi alle
parti di voce e chitarra, il brano presenta la struttura classica
della ballata. Ma sono proprio queste tracce, una delle quali apre la
registrazione, a costituire quella massa liquida, semovente, che
regala all'ascoltatore attento la sensazione di qualcosa di prossimo
d accadere, un'inquietudine che accentua le immagini di disfacimento,
desiderio di morte e di esibizione della propria intrinseca fragilità
presenti nel testo.
Limb
by limb, tooth by tooth
Tearing up inside of me
Every day, every hour
I wish that I was bullet proof
Tearing up inside of me
Every day, every hour
I wish that I was bullet proof
Wax
me, mould me
Heat the pins and stab them in
You have turned me into this
Just wish that it was bullet proof,
Was bullet proof
Heat the pins and stab them in
You have turned me into this
Just wish that it was bullet proof,
Was bullet proof
So
pay the money and take a shot
Lead-fill the hole in me
I could
burst a million bubbles
All surrogate and bullet proof
And bullet proof
And bullet proof
And bullet proof
All surrogate and bullet proof
And bullet proof
And bullet proof
And bullet proof
Arto
dopo arto, dente per dente
Mi lacera da dentro
Ogni giorno, ogni ora
Ho sperato d'essere resistente a tutto
Mi lacera da dentro
Ogni giorno, ogni ora
Ho sperato d'essere resistente a tutto
Ricoprimi
di cera, modellami
Prepara gli aghi e piantaceli dentro
Tu mi hai reso così
Solo speravo di essere resistente a tutto,
Resistente a tutto
Prepara gli aghi e piantaceli dentro
Tu mi hai reso così
Solo speravo di essere resistente a tutto,
Resistente a tutto
E
allora paga e concediti un colpo
Colma di piombo il mio vuoto
Potrei scoppiare mille e mille bolle
Tutte quante finte e a prova di proiettile
E a prova di proiettile
E a prova di proiettile
E a prova di proiettile
Colma di piombo il mio vuoto
Potrei scoppiare mille e mille bolle
Tutte quante finte e a prova di proiettile
E a prova di proiettile
E a prova di proiettile
E a prova di proiettile
Ancora una volta
il cantato di Thom Yorke si rivela una miniera di sensibilità e
delicatezza. Reo confesso nel riconoscere la propria pronuncia
come non esattamente received, da scuola di dizione, strega
chiunque ancora serbi un briciolo di umanità ed empatia già dal
primo verso, con quelle tipiche sillabe smozzicate in grado di
rendere in modo spaventoso questa condizione di fragilità allo
stremo.
Così come un
identico ammontare di sanità psichica facilita il tentativo di non
invidiare il protagonista della canzone, pronto ormai al colpo di
grazia.
Eppure... Eppure
c'è quell'arpeggio vagamente frattale, luminoso, sovraincisione di
due chitarre, che fa la sua comparsa al termine della seconda strofa.
E che viene ripreso più avanti, fino a chiudere la traccia. Perché
così bello? In tonalità maggiore. Carico di speranza. Sembra una
dichiarazione in punto di morte, questo arpeggio, sulle parole “was
bullet proof”. Il suo autore (del brano) non ha mai fornito, al
riguardo, molte indicazioni, disponibile, evidentemente, a lasciare
che l'ascoltatore colga nell'opera tutto quanto più chiaramente
risuoni dentro di esso (dentro l'ascoltatore). Personalmente nutro la
convinzione che in questo inserto di inaspettata positività si sia
cercato di convogliare un messaggio ad esaltazione della fragilità.
Ho sofferto all'inverosimile – dice il cantato – per le scelte
che ho fatto. Ne ho pagato il prezzo fino al dovuto. E lì ho
scoperto di non essere, come pensavo, 'a prova di proiettile': sono
fragile, un cristallo. Ma questo sono io: nessuno ne ha colpa e
nessuno pagherà per questo. È l'arpeggio a comunicarlo: sono fatto
così.
Dicevo: mi sono
sempre domandato quale sensazione può avere provato Thom Yorke, quel
giorno. Ho una risposta: la sensazione di avere comunicato qualcosa,
in maniera profonda, il più possibile sincera, e di avere lasciato
di questo processo di confessione una testimonianza incantevole. Un
capolavoro.
Non è infatti il
non-detto, l'origine delle nostre più profonde nevrosi?
iUn
grazie a DFW.