domenica 28 agosto 2016

A Prova Di Proiettile

Premesso che non mi sembra di rientrare nella categoria degli snobs monomaniacali, carbonchiosi, condiscendenti e veramente elitarii; che sull'argomento, esplicitato nel titolo, sono stati scritti fiumi di parole, sovente di eccelsa qualità, spesso da parte di sedicenti fans con palle letterarie di acciaio e passione invidiabile; che questo – utile ricordarlo, periodicamente – è uno spazio personale e pertanto deputato ad ospitare ne più ne meno l'opinione, il pensiero e il sentire del momento di chi lo ha creato e – si suppone – lo gestisce. Premessa inoltre la convinzione di vivere un'era di grandissima difficoltà esistenziale, di malattia mentale dilagante, di crescente aggressività fisica e verbale e di carestia affettiva, mi sono imbattuto nell'ennesimo brano degli amati/abusati Radiohead, che penso meriti dell'attenzione, una pausa di riflessione e magari – perché no? - lo status anomalo di 'consiglio per gli acquisti'. (Premetto anche che, ultimo scritto del genere la-canzone-che-mi-ha-fatto-innamorare [bleah!], dal prossimo post si tornerà a parlare di calcio, puttanelle, tronisti, politici, video virali, polemiche social e rimbambiti vari, argomenti che sembrano non conoscere eclissi alcuna, garantendo nel contempo statistiche di visualizzazione da capogiro).
Non ho mai amato particolarmente The Bends, il secondo disco in studio dei cinque di Oxford. Iniziai ad apprezzarli morbosamente in tarda età (a dispetto del clamore discografico e culturale), grazie a mia moglie, quando erano già, a ragion veduta, a leggenda vivente. Era l'anno 2003. Il riferimento discografico Hail To The Thief. Ed essendo, quest'ultimo, un disco di conferma del percorso intrapreso tre anni prima con Kid A, pose dei paletti profondi nel catalogo del gruppo, facilitando il mio ascolto nei confronti dei lavori successivi a The Bends. (A beneficio dei più giovani e dei non credenti: il culto - prima sotterraneo, poi di superficie – che ha interessato questa band fin dagli esordi, è ben esemplificato dalla spedizione, in quel di Londra, che un gruppuscolo di giovani di una piccola frazione sui colli sopra Arona organizzò nella speranza di far coincidere lo sbarco a terra con un live dei nostri - in un lontano 1994 dove gli U2 occupavano ad esaurimento-posti i gusti di massa europei e statunitensi, il quintetto inglese aveva alle spalle un solo disco, e le politiche a basso-costo del trasporto aereo, unite alle comodità web, non esistevano [cosa che complicava questo tipo di trasferta di non poco, quasi sempre costretti a viaggiare su voli charter di babbioni inglesi al rientro dall'italian trip: per capirci, gli stessi che due mesi fa – sicuro – hanno votato a favore della Brexit. Grazie al cazzo, fellas.]). Generalizzando molto, si tende a considerare come 'd'esordio' i primi due dischi, Ok Computer come transizione verso una cifra stilistica radicalmente nuova, i due successivi come la grande svolta, e quindi un graduale dissolversi nel mito, fino ai giorni nostri. In preda a quella noia mortale che l'estate insiste a voler elargire, ho riascoltato The Bends. Con piacere. Al momento di Bulletproof... I Wish I Was, ho avuto la sensazione netta di un'illuminazione: fu in quel brano che le incrinature nello stile musicale dei Radiohead diedero vita a quel percorso di crescita artistica e cambiamento che ha forse un unico, illustre precedente: i Beatles di Rubber Soul.
Mi sono sempre domandato quale sensazione può avere provato Thom Yorke, il giorno nel quale ha lasciato lo studio di Abbey Road per tornare in albergo - o magari a casa, vista la vicinanza con Abingdon OX-, dopo avere registrato la versione di Bulletproof... I Wish I Was che è possibile sentire alla traccia nove di The Bends. Non fosse per i suoni che si suppone siano stati sovraincisi alle parti di voce e chitarra, il brano presenta la struttura classica della ballata. Ma sono proprio queste tracce, una delle quali apre la registrazione, a costituire quella massa liquida, semovente, che regala all'ascoltatore attento la sensazione di qualcosa di prossimo d accadere, un'inquietudine che accentua le immagini di disfacimento, desiderio di morte e di esibizione della propria intrinseca fragilità presenti nel testo.
Limb by limb, tooth by tooth

Tearing up inside of me

Every day, every hour

I wish that I was bullet proof
Wax me, mould me

Heat the pins and stab them in

You have turned me into this

Just wish that it was bullet proof,

Was bullet proof
So pay the money and take a shot
Lead-fill the hole in me
I could burst a million bubbles

All surrogate and bullet proof

And bullet proof

And bullet proof

And bullet proof
Arto dopo arto, dente per dente
Mi lacera da dentro
Ogni giorno, ogni ora
Ho sperato d'essere resistente a tutto
Ricoprimi di cera, modellami
Prepara gli aghi e piantaceli dentro
Tu mi hai reso così
Solo speravo di essere resistente a tutto,
Resistente a tutto
E allora paga e concediti un colpo
Colma di piombo il mio vuoto
Potrei scoppiare mille e mille bolle
Tutte quante finte e a prova di proiettile
E a prova di proiettile
E a prova di proiettile
E a prova di proiettile
Ancora una volta il cantato di Thom Yorke si rivela una miniera di sensibilità e delicatezza. Reo confesso nel riconoscere la propria pronuncia come non esattamente received, da scuola di dizione, strega chiunque ancora serbi un briciolo di umanità ed empatia già dal primo verso, con quelle tipiche sillabe smozzicate in grado di rendere in modo spaventoso questa condizione di fragilità allo stremo.
Così come un identico ammontare di sanità psichica facilita il tentativo di non invidiare il protagonista della canzone, pronto ormai al colpo di grazia.
Eppure... Eppure c'è quell'arpeggio vagamente frattale, luminoso, sovraincisione di due chitarre, che fa la sua comparsa al termine della seconda strofa. E che viene ripreso più avanti, fino a chiudere la traccia. Perché così bello? In tonalità maggiore. Carico di speranza. Sembra una dichiarazione in punto di morte, questo arpeggio, sulle parole “was bullet proof”. Il suo autore (del brano) non ha mai fornito, al riguardo, molte indicazioni, disponibile, evidentemente, a lasciare che l'ascoltatore colga nell'opera tutto quanto più chiaramente risuoni dentro di esso (dentro l'ascoltatore). Personalmente nutro la convinzione che in questo inserto di inaspettata positività si sia cercato di convogliare un messaggio ad esaltazione della fragilità. Ho sofferto all'inverosimile – dice il cantato – per le scelte che ho fatto. Ne ho pagato il prezzo fino al dovuto. E lì ho scoperto di non essere, come pensavo, 'a prova di proiettile': sono fragile, un cristallo. Ma questo sono io: nessuno ne ha colpa e nessuno pagherà per questo. È l'arpeggio a comunicarlo: sono fatto così.
Dicevo: mi sono sempre domandato quale sensazione può avere provato Thom Yorke, quel giorno. Ho una risposta: la sensazione di avere comunicato qualcosa, in maniera profonda, il più possibile sincera, e di avere lasciato di questo processo di confessione una testimonianza incantevole. Un capolavoro.
Non è infatti il non-detto, l'origine delle nostre più profonde nevrosi?

iUn grazie a DFW.

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