mercoledì 25 novembre 2020

PECORE, LUPI & CANI-PASTORE. La nuova morale impartita dal cinema.

Nel suo libro cult Il Giorno Della Civetta, Leonardo Sciascia diede vita ad una classifica, divenuta celebre, a metà tra la boutade e l'amara constatazione. A colloquio con il Capitano Bellodi, in un dialogo davvero indimenticabile, il capomafia Don Mariano – assurto al ruolo massimo non tanto perché esperto di crimine, si intuisce, ma perché capacissimo nel cogliere l'essenza delle persone - stabilisce una sorta di top five dei tipi umani. A salire: i quaquaraquà, i pigliainculo, gli ominicchi, i mezz'uomini ed infine gli uomini. “Lei, anche se mi inchioderà a queste carte come un Cristo, lei è un uomo...”, dice Don Mariano. E Bellodi: “Anche Lei.”. Fantastico. Per almeno cinque decenni, questa classificazione, ha rappresentato impietosamente l'antropologia italica (la quale, naturalmente, ha dato nel frattempo il meglio di sé immettendo sul mercato umano svariati esemplari dei primi e “pochissimi” dei secondi, proprio come profetizzato dal saggio capomafia). Da allora, fino, diciamo, allo spegnersi dell'inchiesta Mani Pulite, nessun nuovo ingresso in classifica è stato in grado di scardinare questa visione: sia per ciò che riguarda le posizioni di fondo (il proliferare sconcertante di pigliainculo ed ominicchi) sia per il suo vertice (la scarsità di veri uomini). Una vera e propria tavola periodica dell'umanità, ordinata, parascientifica eppure inossidabile.

Poi è successo qualcosa.

Una mutazione radicale, avvenuta in termini di perdita di informazione (parliamo, quindi, di un processo involutivo), ha interessato la società in cui viviamo. Si è assistito, cioè, ad un innalzamento delle forme di violenza, di abuso, di sopruso, di inciviltà, di disumanità in generale. I protagonisti della classifica sciasciana, negli anni, si sono resi colpevoli di gesta sconcertanti, spregevoli e spesso inspiegabili: uomini straordinari finiti sotto indagine e persino condannati per casi gravi di corruzione ed omicidio; ominicchi della terra di mezzo dell'alta finanza, dell'imprenditoria e financo della filantropia condannati per abuso sessuale, sfruttamento della prostituzione, pedofilia; pigliainculo ritenuti inoffensivi, hanno improvvisamente trovato la forza bruta per sterminare le rispettive famiglie a seguito di un 'no', di un amore legittimamente negato; quaquaraquà sui quali non si sarebbe giocato un soldo, scoperti con fortune senza precedenti quasi sempre sottratte ai fondi pubblici per la sanità, per i terremotati, per la prima accoglienza. Predatori grandi e piccoli accomunati dalla spinta a soddisfare senza mezze misure i propri appetiti: sessuali, di potere, monetari, di controllo. Il nostro tempo, si può dire, è quello che ha visto l'avvento della gratuità del gesto violento ed inconsulto (assenza di movente, anaffettività). Aberrazioni con le quali ci si è trovati a convivere, nostro malgrado, scoprendo nel vicino di casa, nel conoscente, nel giovane del quartiere, nel parente alla lontana, nel prossimo, ma anche, a volte, nell'amico e nel congiunto, una insospettata doppiezza che persino lo sguardo indagatore del Don Mariano di Sciascia - personaggio di in un mondo bidimensionale dove l'essere umano ancora conservava aspetti della personalità accessibili ed interpretabili, trasparenti di quella trasparenza con la quale da tempo ci riempie la bocca invocandola in ogni frangente come la virtù risolutiva, l'arma finale contro le tante derive della società -, persino un osservatore così attento avrebbe faticato a decifrare.

È accaduto, allora, che un giorno, l'organigramma sciasciano, per più di tre decenni imprescindibile riferimento bibliografico per un'antropologia dal sapore letterario, è tornato appalto delle poche antologie che ancora oggi ritengono salubre ospitare al loro interno estratti dell'opera di Sciascia, vero e proprio pezzo di antiquariato da mostrare con saccenza alle nuove generazioni (le quali, come è forse inevitabile che sia, l'avranno trovata poco stimolante e del tutto anacronistica, fuori dal tempo). Il cinema, che invece in questa ultima mutazione dell'animo umano ha sempre trovato spunti creativi grazie alla sensibilità della straordinaria generazione di sceneggiatori avente come capostipite Alan Ball, si è sostituito alla letteratura, rivelatasi da allora incapace a risuonare del quotidiano, della everyday life; non più in grado, come sosteneva David Foster Wallace, di trattare argomenti come una giornata di lavoro o la vita di chi si scopa la stessa donna per 30'anni (suggerimento smaccatamente sessista, ma non dimentichiamo che Foster Wallace, come tutti i geni, era un nevrotico della prima ora).

Ci sono tre tipi di persone a questo mondo: le pecore, i lupi e i cani da pastore. Ci sono persone che preferiscono credere che nel mondo il male non esista. E se mai si affacciasse alla loro porta, non saprebbero come proteggersi. Quelle sono le pecore. E poi ci sono i predatori, che usano la violenza per sopraffare i deboli. Quelli sono i lupi. E poi ci sono quelli a cui Dio ha donato la capacità di aggredire e il bisogno incontenibile di difendere il gregge. Questi individui sono una specie rara, nata per affrontare i lupi. Sono i cani da pastore. In questa famiglia noi non alleviamo pecore, e io vi ammazzo a cinghiate se diventate dei lupi. [...] Ma proteggiamo chi amiamo. Se qualcuno prova a picchiarti, se c'è chi fa il bullo con tuo fratello, vi autorizzo a farlo smettere.”.

Il brano riportato, è opera dello sceneggiatore statunitense Jason Hall, ed è tratto dal film American Sniper, di Clint Eastwood.

Quella di Eastwood è una visione del vivere civile molto tradizionale, repubblicana, di vecchio stampo e genuinamente guerrafondaia – per non dire anche in parte apologetica. In questa pellicola in particolare, è facile ravvedere una presa di posizione solidale nei confronti di quegli americani cui tocca il compito, in verità assai ingrato, di condurre le guerre che, di volta in volta, i vari governi, nessuno escluso, vanno dichiarando per fini destinati a restare oscuri. Una volta costituito il contingente, però, Eastwood sembra attivare una sottomorale: trascura le motivazioni di natura aggressiva con le quali gli Stati Uniti d'America, da decenni, muovono guerra agli stati reputati nemici, e si concentra sul corpo di spedizione che diviene, così, il gregge da difendere dai lupi del succitato dialogo. Diciamo, semplicemente, che, a 90'anni, puoi permettertelo.

Pecore. Lupi. Cani-pastore.

C'è un modo dignitoso e condivisibile per essere di destra - per essere repubblicani, nel caso dei fratelli statunitensi - senza vergogna, senza avvertire una compromissione colpevole ed irreversibile della propria reputazione (sempre che se ne abbia una: è tendenza recente e diffusa, infatti, quella di rivendicare primati morali difficilmente verificabili). Nelle cronache dell'Africa postcoloniale, per citare un esempio, vennero registrati casi di manipoli di mercenari - non propriamente tesserati del Fronte Della Gioventù - che offrirono le proprie competenze belliche alle minoranze oppresse dallo sfruttamento occidentale (valga su tutti il caso del Biafra). Con il senno di poi, è quindi possibile affermare che questi specialisti della guerra (i Dogs Of War magnificamente narrati da Frederick Forsyth) furono moralmente assai più ineccepibili dei tanti politici che al tempo rivendicavano per loro stessi patenti democratiche e liberali attraverso retoriche improntate ad un nebuloso pacifismo. Ecco il punto: si può essere e restare onestamente di sinistra e, nel contempo, conservare la libertà di giudizio necessaria a riconoscere che il dialogo genitore-figlio di American Sniper è, ad oggi, l'unico all'altezza di fornire una visione ed una soluzione a questi nostri tempi problematici. Realismo, un po' di sano familismo, comportamenti che fungano da esempio, dedizione ai compiti educativi e responsabilizzazione.

Scrive, Sergio Romano nelle sue memorie: “[...] il conservatore […] Crede che tutti gli uomini «siano stati creati uguali», secondo l'affermazione iniziale della Dichiarazione americana d'indipendenza, ma sa che essi si disporranno lungo la strada della vita secondo una inevitabile gerarchia.”

Improbabile che Eastwood e Hall abbiano letto le pagine di questo nostro principesco memorialista. Ma la sintonia con la chiusa del dialogo citato è impressionante. “Quello aveva preso di mira Jack”, dice il giovane Chris. “È vero?”, chiede il padre al piccolo Jack il quale subito annuisce. E di nuovo rivolto a Chris: “Allora tu sai chi sei.”.

Chissà cosa penserebbe Sciascia, di tutto questo.



giovedì 12 novembre 2020

DIVENTARE (E RESTARE) SÉ STESSI. I Nine Inch Nails nella 'Rock 'n Roll Hall Of Fame'.

Forse l'unico aneddoto che valga la pena raccontare, riguardo il legame estetico, emotivo – ed, in parte, anche filosofico -, che da 25 anni or sono mi lega, con con alti e bassi, a Trent Reznor e ai suoi Nine Inch Nails, è quello di quando decisi che era ora di partire per gli Stati Uniti d'America e finalmente assistere ad un concerto di quella che già allora poteva dirsi la mia band preferita. Era il 1999, ed entrare negli Stati Uniti non rappresentava la seccatura che è divenuta oggi. Sbarcai in California, dove, al contrario del nostro paese, Internet era già altamente performante e capillarmente diffuso. A San Francisco prima e a Los Angeles qualche giorno dopo, con atteggiamento da vero provinciale, visitai in rapida sequenza tutta una serie di librerie e di negozi di dischi del circuito indipendente, chiedendo notizia di date californiane dei Nine Inch Nails. Risposero quasi tutti che la cosa migliore era consultare il 'Web' (azione per la quale sembravo evidentemente del tutto inadeguato, al punto che un giovane commesso, mosso da umana pietà, si offrì di compierla per me). Scoprii così, con divertito stupore, che, in quello che sarebbe passato alla storia come uno dei periodi più straordinari di questa one-man band, l'anno, cioè, che aveva da poco visto la pubblicazione di uno dei suoi dischi più belli e più ricercati,The Fragile; nel mentre battevo le strade della California alla loro disperata ricerca, i Nine Inch Nails sbarcavano all'Alcatraz di Milano per l'unica data italiana di Fragility v1.0 (!).

Insomma: ero andato nella West Coast per un gran scopata, e me ne stavo tornando a casa con un carico di pugnette accuratamente rubricato nelle statistiche di quella che poteva comunque dirsi, a bilancio chiuso, una vacanza memorabile – e non senza prima aver vagabondato per bene tra i tanti luoghi della scena indie e di quella pregevolissima del jazz alternativo.

I Nine Inch Nails, che da quel mese di novembre di più di 20'anni fa hanno suonato in Italia poche volte e con un riscontro di pubblico del tutto relativo, specie se confrontato con le immancabili vendite sold-out di molti loro colleghi, sono entrati ieri l'altro nella Rock 'n Roll Hall Of Fame (istituzione yankee di grande decadenza e del tutto ininfluente sotto il profilo artistico, una sorta di Confindustria per rockettari). Questo significa sostanzialmente due cose. La prima è che la vacca del circuito mainstream deve avere realmente finito il latte, se per conferire ancora un po' di lustro a questo inutile luogo (la 'Hall O Fame' è un museo sito a Cleveland, nell'Ohio) e raggranellare qualche soldo si è dovuto ricorrere alla nomina di un gruppo che, diciamolo, non è mai stato famoso per il suo repertorio per famiglie. La seconda è che, per quanto ipocrisia ed opportunismo, da oltre un decennio, continuino a praticare il più grande lavaggio del cervello di massa dell'era moderna, il talent show, basta un poco di attenzione per accorgersi che tra la migliore performance di Marco Mengoni ed anche solo un primo ascolto di The Slip (il disco uscì più o meno al tempo dell'affermarsi di X Factor in Italia), c'è un abisso incolmabile. Per quanto cerchino, lor signori, di persuaderci riguardo all'inflazione di talenti a loro completa disposizione, per fare un disco così, non bastano quattro accordi di chitarra ed un po' di faccia tosta. Questo a livello artistico. A livello personale (ed invito tutti coloro che, mi auguro, a seguito di queste righe, vorranno cimentarsi con il repertorio della band, a non sottovalutare l'aspetto autobiografico della sua intera produzione), Trent Reznor è stato uno sfigato, un disadattato, un fallito, un depresso, un misantropo ed un autolesionista. I Nine Inch Nails sono stati la sua salvezza e la sua cura. Grazie ai progressi tecnologici del tempo (il primo disco uscirà nel 1989), poté dare vita ad una band della quale figurare come unico componente, ed in questo modo fare delle proprie difficoltà relazionali il punto di forza, il tratto caratteristico del progetto. In questa veste, ha dato vita vita a registrazioni sui generis e sofisticate. Ha toccato tematiche strettamente – e spudoratamente – legate alle sue personali problematiche. In 30'anni, questo provinciale dell'Ohio, è passato da una condizione al limite con il patologico a quella di musicista professionista con almeno due dischi seminali a proprio carico, autore di colonne sonore, collaboratore stretto di registi quali David Fincher e David Lynch (mitica, l'esibizione dei Nine Inch Nails nell'episodio n°8 di Twin Peaks), produttore richiestissimo e selettivo. Dall'incontro con il fotografo Rob Sheridan, i Nine Inch Nails hanno dato vita ad una serie di spettacoli avanguardistici e pregnanti, di grande coesione tra musica ed immagine, che farebbero impallidire quasi tutte le megaproduzioni dei grandi nomi dello spettacolo (e non è detto, sotto sotto, che ciò non sia persino avvenuto). Il tutto attraverso la produzione di un mondo sonoro estremo: oscuro, disturbante, ossessivo, pulsante. Il mio incontro con la loro musica avvenne in maniera del tutto non intenzionale. Ero reduce dalla visione di Assassini Nati, di Oliver Stone, quando decisi di acquistarne la colonna sonora. “Produced by Trent Reznor”, stava scritto sul retro di copertina. Conoscevo, al tempo, quasi tutti gli artisti ed i brani che vi erano stati inclusi, con una sola eccezione. Un nome decisamente originale che ero certo di non avere mai sentito prima di allora: Nine Inch Nails: Burn. Mettiamola così: avete presente, anche solo vagamente, la procedura di eiezione degli aerei da combattimento? I piloti militari dell'era moderna ne subiscono la simulazione in concreto (si tratta di treni speciali lanciati in folle corsa e dotati di dispositivo d'espulsione). L'unico aspetto della procedura che ancora oggi non può essere ricreato è la reazione psicologica alla effettiva velocità con la quale, nel momento della vera emergenza, il tuo corpo reagirà all'impatto con l'aria. Può essere quella controllata che segue ad una perdita di spinta. O da shock conseguente a velocità supersoniche – eventualità, quest'ultima, che rende la sopravvivenza all'eiezione di poco superiore all'uno per cento. Ecco: il giungere improvviso del chorus di Burn fu, per me, l'equivalente di un impatto a velocità supersonica. Non posso inoltre censurare il fatto che, ancora oggi, il videoclip realizzato per questo brano, riesce a farmi vivere brevi, sporadici momenti di vero disagio. Insomma: Trent Reznor - suo malgrado, penso – è, oggi, il più importante influencer della musica moderna, di quel che resta del rock (poco), cioè; il musicista da ascoltare con regolarità per mutuarne idee e soluzioni, ma con parsimonia, per evitare che qualcuno se ne accorga.

Per concludere, quindi: il successo è perseguibile anche restando se stessi. Questo il messaggio implicito nel recente riconoscimento della 'Hall Of Fame'.

E non è, questo, anche il più grande messaggio di speranza auspicabile in questi nostri tempi difficili?

Diventare se stessi e rimanervi fedeli.

È un risultato che, se garantito, non avrebbe prezzo.

Per chiunque.

P.S. Sapevate che nella formazione dal vivo di questa band formidabile milita da anni un italiano? Si chiama Alessandro Cortini. Emiliano, polistrumentista, nerd. Così. Giusto per sapere, prima che qualcuno attacchi l'ennesimo pippotto sulla bravura inarrivabile di Giuliano Sangiorgi.

domenica 18 ottobre 2020

SUPERCULT. 'Fight Club' 20'anni dopo.

Lasciato finalmente libero in casa, ho potuto rivedere con calma – e, devo dire, immensa eccitazione - Fight Club, il film di David Fincher che 20 e più anni fa lanciò Brad Pitt, a ragion veduta, nell'olimpo dei grandi attori di Hollywood, così strappandolo ad una carriera che, dopo lo stucchevole Vi Presento Joe Black, rischiava di cristallizzarsi in ruoli assai remunerativi e su misura per un pubblico femminile astutamente erotizzato dall'industria cinematografica californiana. Ho notato che non solo, il film, non ha perso smalto (la recitazione è persuasiva, la fotografia attuale e dettagliatissima, la colonna sonora e la regia da cult movie): rivisto dopo l'undici settembre, il passaggio di Katrina, Occupy Wall Street, il caso Snowden, le proteste di Hong Kong, la pandemia, i fatti di Minneapolis e quant'altro di devastante abbia investito la società globalizzata dal termine della presidenza Clinton, rivela agli occhi degli spettatori, in particolar modo di coloro che lo hanno amato fin da subito, una carica profetica così forte da farne seduta stante uno dei film più importanti, rilevanti, degli ultimi decenni. Do per scontato, a questo punto, che, in quanto lettori assidui di Sala Colloqui, abbiate visto il film e conosciate alcune delle sue tante, davvero memorabili sequenze. Il nido Ikea, le immagini subliminali pornografiche, i gruppi di auto-aiuto, Tyler Durden, il disastro aereo, la cabina di proiezione, la finta rapina al supermercato, le minacce al capo della Polizia, il furto del grasso da liposuzione. Chi più ne ha più ne metta. Vale forse la pena di riflettere sul fatto che 21 anni fa, grazie ad una bella dose di coraggio (perché ce ne vuole, nella vita come nella professione), un regista con le strapalle quale è David Fincher, riuscì a persuadere una major di Hollywood a produrre un film le cui tematiche, in Italia, ancora oggi, non troverebbero una porta aperta anche proponendole singolarmente. (Ho visto, giusto settimana scorsa, l'ultimo film di Daniele Lucchetti, Lacci: tutto già visto e sentito, ben fatto, ottimo cast, ma una totale mancanza di argomenti. Viene da chiedersi, e non è la prima volta, se i nostri cineasti vadano mai al cinema a vedere il lavoro dei colleghi.). Fight Club non è un film sulla violenza (davvero fuorviante leggerlo così): è un film sull'anestetizzazione operata dalla società sugli individui, che ha come prima conseguenza il cinismo dilagante (di questi nostri giorni, osservabile ovunque), la radicalizzazione dei comportamenti (sport estremi, afterhours, sexting) ed il vuoto di senso (nichilismo). È narrato superbamente, ed ogni sforzo richiesto allo spettatore per seguire la vicenda davvero folle del protagonista è guarnita con ironia invidiabile e politicamente scorrettissima (su tutti il flashback dove il saponificatore Brad Pitt è ripreso nel mentre, nella veste di proiezionista, è intento a montare fotogrammi porno in film per famiglie). L'alter ego del protagonista, ad un certo punto, lamenta in maniera veemente l'assenza e l'inadeguatezza del padre. Ho realizzato solo allora, rivedendolo, quanto un simile passo possa avere costituito ostacolo nella distribuzione e nella promozione di questa pellicola nel paese – il nostro - che, sette anni più tardi, avrebbe dato vita a quella manifestazione dell'orgoglio bigotto che è stato il Family Day. Assai più facile – più comodo e confortevole - produrre stagionalmente il 'cinepanettone' o la commedia con il comico del momento – puntualmente identico a quello precedente. Nel cinema di David Fincher c'è un piacere quasi infantile – nel senso di istinto non mediato - nel sondare le oscurità più profonde dell'animo umano. Impresa che, in questo film, compie attraverso movimenti di camera lenti e precisi, come quelli di chi, in una cantina buia, muove i passi con attenzione, non per paura, bensì per memorizzare con precisione spazi, odori e sensazioni. Ed ecco, allora, l'impiego sapiente della sceneggiatura, che allenta la tensione per mezzo della battuta, della boutade, dello spunto originale. Ma soprattutto, il cinema di Fincher è finzione – che è poi il tratto di tutto il grande cinema. I tanti che, negli anni subito seguenti il grande successo della pellicola, si sono messi alla ricerca dei fight clubs che ritenevano esistenti ed operanti, hanno dimostrato quanto realmente fosse abissale il vuoto di molte esistenze, proprio come evidenziato dal film e dal sorprendente romanzo di Chuck Palahniuk che ne ha dato spunto. Non violenza, quindi, ma, appunto, la disponibilità, quasi prona a tutto, da parte di alcuni individui particolarmente disperati, al fine unico di colmare il vuoto insostenibile delle proprie esistenze (e come non ricordare, qui, il momento dove in combattimento si riconosce il giovane prete che, poco prima aveva reagito goffamente ad una provocazione del club?). Insomma un film che, come tutte le grandi opere, continua, a decenni dalla sua uscita nelle sale, a fornire spunti di riflessione a coloro che hanno orecchi per intendere ed occhi per vedere.

mercoledì 7 ottobre 2020

POLLUZIONI NOTTURNE. Quando Eddie Van Halen cambiò la mia vita (in meglio).



Nella storia della chitarra moderna – intendendo con questa la sua versione elettrica, sia rock che jazz – vi sono incisioni che, nel bene e nel male, ne hanno profondamente influenzato lo pratica esecutiva. Traduco: dischi dopo la cui pubblicazione tutti i chitarristi, persino inconsciamente, si sono visti costretti a cambiare il proprio modo di suonare. Breve excursus discografico: 1968, Electric Ladyland, di Jimi Hendrix; 1981, Friday Night In San Francisco, con Al Di Meola; 1984, Rising Force, di Yngwie Malmsteen; 1987, Surfin' With The Alien, di Joe Satriani; 1990, Inside Out, con Frank Gambale. Un anno dopo l'uscita di questo ultimo disco, l'insulsa figura del guitar hero cessò di colpo di esistere, distrutta dalla montante ondata grunge nord-pacifica (che ringraziamo di cuore, per questo) e da quanto ad essa seguì. Tra Jimi Hendrix e Al Di Meola, però, ho intenzionalmente omesso un disco anch'esso a pieno titolo tra le pietre miliari del chitarrismo ed il vero protagonista di questo scritto. Sto parlando del primo ed omonimo album dei californiani Van Halen, finito tra le mani dei suoi primi, fortunati acquirenti nell'inverno del 1978. Ora, va da sé che, pure che manchi la fantasia agli altri membri della band, se il nome del tuo gruppo è Van Halen, il suo primo disco si intitola Van Halen, e tu che ne sei il chitarrista fai Van Halen di cognome, è alquanto improbabile non goda di ottima reputazione, nella compagine. Detto questo, urge spiegare il perché di questa presentazione ad effetto. Eddie Van Halen, il chitarrista che proprio con il disco d'esordio letteralmente sfondò la barriera del suono, per come questo era stato fino allora concepito, è mancato ieri all'età non proprio veneranda di 65 anni. Non scrivo questo per dovere di cronaca (obbligo dal quale mi sento del tutto esentato: se volete particolari sull'autopsia, penso vi basterà seguire Barbara D'Urso): lo scrivo perché Van Halen, che ascoltai per la prima volta nell'indimenticabile estate del 1982, fu responsabile di un bel po' delle mie notti insonni di quel tempo, ed ha avuto su quell'adolescente smarrito che ero un'influenza al limite con l'abnorme (non solo riuscì a farmi trovare il coraggio per chiedere a mio padre l'acquisto di una chitarra, ma persino mi spronò in termini di costume, portandomi a raggirare abilmente mia madre per l'acquisto di una tuta per l'ora di ginnastica, in tutto e per tutto identica a quella che il nostro indossa sulla copertina di Women And Children First, uno dei momenti più alti della mia esistenza). Van Halen fu per me un'onda d'urto contro la quale impattai vergine ed impreparato, che al suo passaggio mi lasciò seminudo, con le sole mutande in laceri e a bocca aperta per almeno una settimana (quel primo ascolto avvenne nel mentre mi trovavo a passare l'estate nella fattoria di famiglia, insieme a nonni, zii, cugini e parentado acquisito, e quello sconvolgimento, la cui origine avevo tenuto segreta, venne preso da tutti come un momento difficile della mia crescita, quando, in realtà, ce l'avevo già duro grazie a brani come You Really Got Me, I'm The One e Atomic Punk, i miei preferiti). Fu il primo disco a portarmi via da una realtà che ero incapace di descrivere e codificare, consegnandomi ad un immaginario pericoloso ma bellissimo, davvero fatto di sesso, droga e rock 'n roll. Perché, parliamo chiaro: se Ludvig Van Beethoven è stato la colonna sonora delle illusioni napoleoniche e Gustav Mahler quella della psicanalisi, i Van Halen sono stati quella del porno, della perversione adolescenziale, dei festini e – mi permetto di dire – di un sano machismo (quello malato fu appalto dei Mötley Crue). Van Halen rimane tutt'oggi un disco straordinario, ineguagliato tra le opere d'esordio e non solo. Stratosferico nel suono, veloce come la gioventù sa essere, spregiudicato, perfetto fino nella scaletta dei brani, e pervaso da una spensieratezza invidiabile allora come oggi. Siamo onesti: contrariamente all'agiografia che proprio in queste ore viene scritta, e che ormai accompagna ogni dipartita del mondo dello spettacolo, Eddie Van Halen non era un genio della musica e nemmeno della chitarra (che dovemmo dire, allora, di Paco De Lucia o Pat Metheny?). Questi sono titoli che vanno attribuiti con parsimonia. Le personalità davvero geniali appaiono di rado e non sempre sono premiate da successo commerciale. Eddie Van Halen fu un giovane coraggioso e curioso che seppe rompere un argine del suo tempo – e già questo mi sembra non sia poco. Sviluppò il suo stile fin dove la fisicità della tecnica da lui inventata (il tapping) lo consentiva, dopodiché visse fino all'ultimo di una rendita che era nel contempo di fama, di stile e finanziaria (le esibizioni dell'ultimo decennio erano vere e proprie caricature di sé stesso). Tutto questo, però, non ha importanza. Eddie Van Halen e la sua band, 40'anni fa presero un preadolescente sfigato con i baffi e lo sbatterono di colpo in strada, dicendogli: “Ehi, moccioso: va, divertiti. Nessuno può impedirtelo.”. E di questo gli sarò riconoscente fino alla morte.

mercoledì 16 settembre 2020

OUR HOUSE. Le responsabilità educative della famiglie.

Delle cose rimastemi dell'Inghilterra pre Brexit, prima cioè della sua trasformazione in quella cloaca politico-sociale che è oggi, c'è una canzone dei Madness (per coloro che non li conoscessero, un gruppo ska formato da simpaticissimi svitati della suburbia londinese, famosi negli anni '80 per una serie molto fortunata di hits il cui merito è sicuramente quello di avere fedelmente raccontato con fare scanzonato la working class britannica del tempo). Si intitola Our House, ed è un ritratto gioioso e leggero della tipica famiglia inglese vista con gli occhi di uno dei figli. Una famiglia felice perché non desidera altro che quello che ha: un padre operaio (“Father gets up late for work”), una madre casalinga e premurosa (“Our mum, she's so house-proud”), figli orgogliosi di esserne parte (“Our house was our castle and our keep”), il fragore inevitabile dei nuclei numerosi (“it's usually quite loud”), gli ordinari riti del fine-settimana (“Father wears his Sunday best”) e, naturalmente, la casetta nel bel mezzo del quartiere (“Our house, in the middle of our street”).

Per quanto stilizzata, ho pensato proprio a questa famiglia, ieri l'altro, alla sua fierezza, alla sua semplicità, nel mentre, con paura e disgusto, leggevo i diversi resoconti biografici sui due fratelli di Artena, protagonisti delle cronache di questi giorni per avere condotto, in un piccolo paese del basso Lazio, un pestaggio in branco (quattro contro uno) conclusosi con la morte dell'aggredito.

La famiglia è un aggregato che può salvare, ma anche distruggere. Lo sappiamo bene tutti quanti. E se a qualcuno ancora serve un esempio, ciò significa che vive in un mondo diverso, quantomeno, da quello nel quale vivo io e che - mi piace pensare - credo sia lo stesso di molti di coloro che leggono o frequentano Sala Colloqui.

Giovani, carini (si fa per dire) e disoccupati, fino a pochi giorni fa, i due fratelli vivevano con i genitori - la famiglia, per l'appunto -, in una grande villa, svettante in maniera sospetta sulla modestia degli immobili circostanti. Grosse cilindrate, abbigliamento ed accessori firmati, bella vita puntualmente ostentata sui social, liquidità da emiro, fisico curatissimo ed ottimi rapporti con le forze dell'ordine, con le quali, nonostante la giovane età (25 anni), i due hanno intrattenuto, negli anni, diverse chiacchierate aventi come oggetto reati di varia natura.

I resoconti di cui sopra, tutti concordanti tra loro, riportano, oltre agli elenchi di mobili ed immobili appena riportato, l'incredulità ed il dolore della madre per quanto accaduto. C'è da capirla: quale madre non si sentirebbe così di fronte all'incarcerazione dei propri figli con un'accusa tanto infamante? I fallimenti sono duri da digerire. E quello sul fronte educativo, deputato come è in buona parte alla famiglia d'origine, è quello che riserva più dolori. Sorprende, però, che nessun sospetto sia emerso quando i due 'bravi ragazzi' hanno portato - immagino con orgoglio incontenibile - lei e papà nella nuova casa, attrezzata di tutto; quando, presumibilmente, li hanno ricoperti di attenzioni materiali di ogni genere; quando, sebbene titolati al reddito di cittadinanza, d'improvviso hanno smesso di vivere l'angoscia dell'arrivare sani e salvi a fine-mese. È davvero un bel paese, il nostro, avranno pensato: i nostri ragazzi faticano a trovare lavoro - come tutti, d'altronde. Ma, nonostante questo, non gli manca niente. Possono fare una vita normale. Hanno pure la fidanzata!

Com'era inevitabile, in un paese socialmente abbruttito qual è oggi l'Italia, all'indomani del pestaggio si è subito parlato di fascismo, di clima di intolleranza promosso dalla politica, di tecniche d'attacco sistematicamente praticate in palestra, di assenza delle istituzioni. Non uno che abbia concentrato l'attenzione sulla famiglia, intesa come luogo di formazione, come il posto dove, per la prima volta, come ho accennato poco fa, viene insegnata ai piccoli la fondamentale differenza tra bene e male. 'Fanculo alla retorica: che razza di famiglia sia, quella di questi fratelli picchiatori, lo possiamo facilmente immaginare senza nemmeno l'aiuto della folla di psicologi, psicoterapeuti, criminologi e filosofi che ormai popola ogni talk show, dispensando consigli per ogni ambito dello scibile umano. Dal melo fiorisce la mela, e dal banano la banano. Di meli che producono banane non se ne ha notizia. Questi due fratelli sono così perché così sono stati cresciuti, perché sono il frutto biologicamente determinato dell'albero che li ha fatti germogliare. Papà e mamma stavano bene così, senza porsi troppe domande. Sopra le regole, si vive senza preoccupazioni. E allora 'avanti!', ché la vita te ne da già tante di suo, senza che noi se ne debba cercare altre. È il familismo italico. Un male antico e non ancora estirpato. Altro che Covid19! Una giustizia efficiente confischerebbe seduta stante tutti i beni di una simile famiglia, donandone i proventi a quella della vittima.

Ma, nel paese del family day, è molto più facile – e conveniente – dare la colpa a Benito Mussolini.

domenica 6 settembre 2020

SERVIZIO PUBICO. Perché chiudere il Giornale-radio 1.

Stavo in ascolto del Giornale-radio di RAI 1, qualche sera fa, quando mi è toccato sentire il ributtante servizio sull'italiano recentemente fermato e poi rilasciato a Il Cairo. Qualcuno si chiederà che ci stessi facendo sul primo canale, stazione radio ancora in vita grazie all'assenza di una vera alternativa a questo modo di fare trasmissione. La risposta è che il suo ascolto rende possibile capire a quale tipo umano si rivolgano molte delle redazioni del servizio pubblico - ed in particolar modo quella del GR1. E siccome, disgusto a parte, è vitale, per me, conoscere da quale razza di persone sono circondato, ecco che non disdegno, specie quando la fascia oraria lo impone, l'ascolto di Radio RAI 1. Non discuto la rilevanza della notizia: da un po' di tempo gli italiani che affrontano Il Cairo senza l'assistenza di un animatore di villaggio turistico, tendono a non tornare più. Di conseguenza, l'arresto di un nostro connazionale in territorio egiziano merita tutta la nostra attenzione. Ma l'approccio che gli autori di detto servizio hanno impiegato per informarne l'utenza mi ha lasciato nello sconcerto. Riassumiamo.

Calogero Nicolas Valenza, 27enne originario di Gela, residente a Barcellona dove lavora come addetto alle pubbliche relazioni, domenica scorsa, 23 agosto, lascia la capitale catalana diretto a Il Cairo. All'arrivo, in aeroporto, le autorità competenti lo individuano ed arrestano, azione che si inserisce nel filone di un'indagine
internazionale sullo spaccio di droga. Il nome di Nicolas risulta presente nella rubrica del telefono di altre persone arrestate per identici motivi mesi prima, e questo ha insospettito gli investigatori, che hanno così trattenuto l'italiano per verificarne la posizione. Passati alcuni giorni - tre, per l'esattezza - non emergono prove a carico di C. N. Valenza, per il quale  vengono di conseguenza avviate le rituali procedure del rilascio. Fine. 

Attenzione, ora, alla versione della notizia data dal GR1. Calogero Nicolas Valenza, un ragazzo di 27 anni originario di Gela e residente a Barcellona verrà rilasciato a breve dopo che era stato fermato a Il Cairo nell'ambito dell'inchiesta sul traffico di droga. Nicolas Valenza ha telefonato alla madre Rosaria che non sentiva da domenica. Segue dichiarazione della signora, la quale assicura di essere ora più serena e di non vedere l'ora di riabbracciare il figlio. Spera, naturalmente, che tutto questo finisca presto. Il nome di Nicolas risulta presente nella rubrica del telefono di altri ragazzi arrestati per identici motivi mesi prima. La Polizia temeva fosse coinvolto in un "traffico di droga internazionale" (sic). La famiglia e l'avvocato, Nicoletta Cauchi, non avevano sue notizie da quando era partito per l'Egitto. Preoccupati, hanno allora contattato la Farnesina, che a sua volta si è attivata nel fornire assistenza al connazionale. Non essendovi prove a carico di Nicolas Valenza, sono state avviate le pratiche per il rilascio. Nei prossimi giorni, Nicolas farà ritorno dalla sua famiglia.

Analizziamo. Si può definire ragazzo una persona di 27 anni senza scadere nel paternalismo? A 27 anni suonati la giovinezza cessa di essere un alibi: si è pienamente responsabili di parole, opere ed omissioni. L'inchiesta sul traffico di droga fa pensare che di simili attività in corso ve ne sia solo una (od una di tale portata da meritare l'articolo qualificativo con esclusione di ogni altra): per la precisione, quella che, suo malgrado, ha visto coinvolto il connazionale. Ma sappiamo benissimo che non è così, e che lo spaccio internazionale è motore di alcune disperate economie nazionali. Infatti, subito dopo, l'altro conduttore del GR fa riferimento ad un traffico internazionale di droga, specifico fra tanti, così riportando la vicenda ai suo infimo, meritato livello - che è quello del piccolo cabotaggio. Al che viene da chiedersi se i giornalisti del GR1 si parlino, quando stanno in redazione. Perché poi mandare in onda le rassicurazioni di una madre riguardo la propria riconquistata serenità, è altra questione da capire. Chi di noi, in tutta sincerità, era preoccupato per lo stato d'animo della signora, al punto da sentire il bisogno di una sua rassicurante dichiarazione?
Ma soprattutto: nessuno trova strano che, in piena pandemia, una persona residente in una delle città maggiormente rinomate per la vita notturna ed il clima straordinariamente mite, si imbarchi per un paese climaticamente e politicamente ostile quale è oggi l'Egitto? Considerata la giovane età, dubito sia andato a svernare. E se così fosse, non avrebbe certo acquistato un esoso e sicuramente scomodo volo per Il Cairo, bensì un più economico ed agevole volo charter per il Mar Rosso. A meno che non si voglia credere all'eccezionalità di questa ultima generazione di connazionali, così diversa da noi che, se stanca della movida, opta per del turismo culturale alla scoperta dell'antico Egitto. E poi, sinceri: quanti di voi, non dando distrattamente più notizie alle persone ritenute care dopo essere partiti per le vacanze, dispongono di un legale che, tempo tre giorni, tempesta il Ministero degli Esteri chiedendo vostre notizie?


Insomma: è fin troppo chiaro, qui, quale sia la considerazione che la redazione del GR1 ha per quello che ritiene essere il suo ascoltatore medio, se pensa che meriti questo modello e questo livello d'informazione. Che simili domande e simili dubbi sorgano spontanei ad un ascoltatore e non ai responsabili di una redazione giornalistica quale quella del servizio pubblico è, a mio parere, motivo sufficente per invocarne la chiusura per comprovata inutilità.

CUM MORTUIS IN LINGUA MORTA. L'inutilità dell'Inglese.

Stavo passeggiando con mia figlia, in questi giorni che la vedono impegnata in un pressante recupero del programma scolastico preemergenza, quando la pubblicità della nuova sede aronese del British Institute mi si è parata davanti in tutta la sua tracotanza: POWERFUL PEOPLE, PREPARATI A DIVENTARE CIÒ CHE VUOI, L'INGLESE È POTERE. Slogans da Grande Fratello orwelliano, ma tant'è.

Premo molto, sull'Inglese, con la mia 'piccola speranza urbana Parenzan'. Non perché io sia persuaso della sua effettiva utilità, bensì per un discorso molto più ampio, non esauribile con la semplice impartizione di una seconda lingua, che è quello del conoscere da vicino e con sforzo apprezzabile una diversa compagine del pianeta terra, così allontanandosi dalla pericolosa, per quanto innocente, illusione di essere senza dubbio, in quanto italiana, al centro dell'universo.

Detto questo, mi sembra che la recente azione promozionale di British Institute rappresenti un tentativo ultimo, disperato, di conferire attrattiva ad una lingua che per la stragrande maggioranza degli italiani non solo non ha più, specie da quando nazioni cosiddette emergenti (pensiamo a Cina e Brasile) hanno fatto la loro comparsa sul mercato globale con conseguente imposizione dei propri idiomi: non l'aveva nemmeno quando era davvero la qualifica curricolare in grado di fare la differenza, quando poteva determinare un'assunzione!

Non conosco i dati riguardanti le iscrizioni all'istituto, e me ne guardo bene dal discutere la qualità dell'insegnamento che vi è impartito. Dico, però, che a tentare di persuadere le persone riguardo le affermazioni riportate in apertura si rischia la circonvenzione d'incapace. Chi altri può infatti credere in una volontà di potenza misticamente conferita dalla lingua Inglese, come nella faustiana possibilità di trasformazione in ciò che si vuole, se non un perfetto sprovveduto (sulla cui predisposizione all'apprendimento di una seconda lingua vi sarebbe poi da discutere a lungo)? Coloro che possiedono un buon Inglese saranno anche potenti, ma quando è il momento, credetemi: lo prendono in culo esattamente come i tanti illettarati di questi nostri poveri giorni. Quanto poi al diventare ciò che si vuole, la mia esperienza personale, dolorosa, dice che ben altre qualità servono oggi per farsi largo in ambito lavorativo, se è questo che si intende. Ma questa è un'altra storia, meritevole di essere raccontata, bisognosa però  di uno spazio tutto suo.

Ho scritto diverse volte sull'argomento, dedicandovi interi articoli o brevi escursioni polemiche. Sono puntualmente toccato sul vivo, quando si parla dell'Inglese, e ne ho ben donde: ho conseguito una buona conoscenza, parlata e scritta, di questa lingua quando già aveva mostrato i segni della sua inarrestabile decadenza (processo giunto a compimento con la Brexit, il suo tumulo). Non ne sono pentito, sia chiaro: lo sforzo di apprendimento rispondeva ad una esigenza conoscitiva, personale e culturale non sopprimibile. Grazie alla lingua Inglese, posso davvero dire di avere visto la luce, ad un certo punto della mia vita. Da qui a farne un passe-partout per ogni tipo di carriera, però, ne passa. Si prenda l'aeroporto come esempio, un luogo dove la leggenda voleva che l'Inglese fosse non la lingua comune, franca, bensì la prima, l'unica, l'essenziale. Coraggio: quand'è l'ultima volta che in partenza vi siete imbattuti in un aeroportuale dall'Inglese stupefacente? Tutt'al più, chi si è occupato di voi avrà dato mostra di una conoscenza cristallizzata dalla ripetizione e di un livello da scuola superiore, intendendo con questo un livello non eletario, accessibile a chiunque si dica disponibile ad uno sforzo di apprendimento basic - appunto.

Per tornare alla campagna pubblicitaria del British Institute, mi sembra che quella scelta per - suppongo - uscire dallo stallo del lockdown (ops!) sia vecchia ed inadeguata nei contenuti (sempre che si voglia credere la pubblicità come in grado di veicolare un qualsivoglia contenuto), un po' come quelle aziende fuori dal tempo che ancora si affidano a formule del tipo 'il tempo è denaro' (ve ne sono: le ho viste di persona).

Avvertire il bisogno di una seconda lingua rappresenta un sommovimento culturale in grado, in determinate condizioni, di farci sentire un tutt'uno con la nostra più genuina umanità. Infatuarsi di una lingua e del popolo che ne è portatore rappresenta una delle avventure conoscitive più appaganti che possano essere vissute.

Ma avvicinarsi a questa per sopravvivenza e per soddisfare esclusivamente le spinte commerciali del mercato globale odierno, significa trasformarla in un mezzo di comunicazione impersonale ed imperativo le cui tragiche e traumatiche conseguenze la storia umana ha già vissuto in tempi non così lontani.

venerdì 14 agosto 2020

THE IRON MAIDEN. L'arte incredibile di Charlotte De Witte.

Amo la buona musica. È una dichiarazione tanto generica ed ovvia da risultare disarmante: ne convengo. Un po'  come il 'comune senso del pudore' al tempo del fascismo. Bisognerebbe anzitutto accordarsi, e non poco, su cosa si intenda per 'buona musica' - impresa ciclicamente tentata in tempi moderni dagli sprovveduti di turno e filosoficamente destinata al più misero dei fallimenti. Ma è data per intendersi, appunto, con i diversi lettori di questo blog, il cui retroterra culturale, mi è stato dato di scoprire, è quanto di più variegato vi sia al di fuori del circuito delle gelaterie artigiane. Non sempre, detto retroterra, include la musica (peggio per voi: trista è la vita senza musica ed ironia). Da questa constatazione, il suo impiego in queste pagine. Limitatamente al mio punto di vista, quindi, la 'buona musica' è, né più né meno, l'insieme degli ascolti, fruiti tramite riproduzione o dal vivo, che hanno finito per assumere un'influenza ed un'importanza imprescindibili. Solo per fare un esempio: nulla è stato più come prima, per me, dopo che mio cugino Riccardo, nel 1983, mi regalò copia di October degli U2, ed ancora dopo avere sentito Brad Melhdau improvvisare, dal vivo, su un brano dei Massive Attack in un'estate di quasi 20'anni fa. Detto questo, nel corso della mia formazione musicale, ho fin da subito sviluppato un gusto che mi ha sempre tenuto lontano da tutto ciò che fosse elaborato elettronicamente. In parole povere, mi sono sempre tenuto lontano dalla musica elettronica, con anche una certa dose di disprezzo. Questo per quasi 30'anni. In particolar modo dal mondo dei DJs, che ho sempre reputato - non del tutto a torto - come un ammasso di ciarlatani. Poi un collega, ultrasnob ed appassionato proprio di musica elettronica, mi ha fatalmente introdotto al mondo del clubbing e, con esso, alla scena dell'ultima generazione di DJs che ne ha definito il suono. Da allora mi si è letteralmente aperto un mondo. Un universo parallelo che questi artisti dalla sensibilità cibernetica hanno creato proprio al fine di differenziarsi dalla massa cialtrona dei colleghi che, dagli anni '80 in poi, avevano fatto cassa sfruttandone ogni potenzialità commerciale. Così, ieri l'altro, dopo quasi una vita dedicata alla beatificazione della performance acustica, assuefatto dalle recenti modalità di ascolto post-lockdown, ho impattato violentemente - e piacevolmente - con il dj set di Charlotte De Witte.

Descrivere un dj set è quanto di più post-moderno e difficile vi sia per chiunque si cimenti nella scrittura con l'intento di rendersi almeno un minimo comprensibile. Aggirerò allora questa bestia partendo dal più semplice, ed accessibile, dato biografico. Charlotte De Witte è una giovane donna non ancora nei 30 orginaria delle Fiandre. Appena maggiorenne ha esordito nel mondo dell'elettronica, significativamente impiegando uno pseudonimo maschile che ha mantenuto fino a cinque anni fa, quando il suo stile, consolidato e molto femmineo, ha dato lei la sicurezza necessaria a presentarsi in piena coerenza con l'anagrafe, forte, inoltre, di un aspetto esteriore pregevole che la nostra da l'impressione di gestire in maniera schiva e parsimoniosa. Da allora la sua carriera, nel settore è svettata. Suona esclusivamente nei più importanti festivals e clubs del circuito. Ha pubblicato un numero abbastanza sorprendente di dischi e fondato una casa discografica dedicata al genere di appartenenza in piena controtendenza con i modelli attuali. L'emergenza pandemica ha naturalmente cancellato per intero la sua agenda di impegni fino a poche settimane fa, e, come molti altri artisti, anche lei ha contribuito a combattere la noia da reclusione attaverso la pubblicazione in rete di alcune sua performaces perticolarmente riuscite. Tra queste la partecipazione a Tomorrowland Winter 2019, l'esibizione che mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta e stimolato a scrivere questo post. Penso sia più utile, quindi, al fine di comprendere le ragioni di un entusiasmo che può sorprendere coloro che mi conoscono meglio, godersi il set per intero: coglierne i tratti minimali (consistenti nel dissezionare le tracce impigandone la sola ossatura); l'arte del saper togliere anziché sovrapporre parossisticamente; la creazione estemporanea di un flusso ossessivo e controllato; l'interpolazione di parlato e cantato; i vuoti improvvisi; il relativismo vertiginoso delle diverse combinazioni del missaggio e, non ultimo, il basso profilo mantenuto dall'artista belga nel corso di una serata da urlo - che noi maschietti avremmo certamente vissuto con ostentazione virile ed incontenibile egocentrismo (esattamente l'atteggiamento tenuto in apertura dal fottuto presentatore - mc, nel gergo del settore). 




La musica di Charlotte De Witte, a mio parere, è una delle colonne sonore più rappresentative di questi tempi dove prestazione ed informazione sembrano essersi fuse in un unicum distruttivo e a volte letale. Il suo dj set sembra inserirsi, anziché rifuggervi, nel flusso initerrotto di queste due entità astratte che, almeno fino alla recente pandemia, hanno scandito impietosamente il ritmo di tante, forse troppe, delle nostre giornate. Lo penetra e lo modella in una forma che, come insegna l'estetica, è l'essenza del bello. 

Mi piace pensare vi sia in circolazione un'artista come lei: donna, giovane, non volgare, di grande personalità e dotata di un'energia vitale che è sempre più rara da scorgere nel prossimo (segno, per me, di un processo di estinzione in corso ormai da tempo).

P.S. Qualche anno fa, all'apice del successo, Lady Gaga, in un'intervista condotta da Rolling Stone - che è come dire 'Matteo Renzi intervistato da Repubblica' -, ha avuto la faccia tosta di dichiarare che lei, no, non è, come sostenuto dall'intervistatore, la nuova Madonna, bensì la nuova Iron Maiden. Errore di sopravalutazione. La nuova Iron Maiden è Charlotte De Witte.