sabato 6 febbraio 2016

Zapping, Tarantino e l'Essenza dell'Opera d'Arte

Mi ero già espresso sul tema, parlando della radio. Ieri sera è capitato lo stesso con la televisione.
La mia modesta esperienza nel comparto della genitorialità ha condotto alle seguente conclusione: con l'arrivo di un figlio, ha inizio un rapporto tutto nuovo, ed obbligato, con la pratica nevrotica dello zapping. Può sorprendere, ma il salto del canale, tanto criticato dagli integralisti della 'tivù' (gente che il sabato attende di veder comparire Baudo in prima serata), presenta dei vantaggi come: l'affinamento del senso estetico di base (e considerando che il campione medio della popolazione non ne possiede affatto. . .).
È successo con Django Unchained di Tarantino. Inizialmente l'ho alternato a Peppa Pig, per i motivi sopra esposti. Poi, con frequenza disumana, a Che Bella Giornata, Conan Il Barbaro, Sette Anime e Le Tre Rose Di Eva. Ti accorgi subito – mi si perdoni l'ovvietà – della differenza nella fattura delle immagini quando passi dai vari Cesaroni e Zaloni a produzioni di livello cinematografico elevato. La qualità è superiore. Comprendi – ma solo se lo vuoi – che il digitale terrestre, sostanzialmente, nel menù ha merda mezzogiorno e sera. Non è una questione di budget: è proprio il senso del bello che risulta accentuato (mi torna in mente El Mariachi, dell'amico e compagno di strada [di Tarantino, n.d.r.] Robert Rodriguez: la forma rende e sorregge la narrazione). Persino un figo pazzesco come Jamie Foxx – devo ricordarvelo in Collateral, forse? - risulta qui trasformato, nella bellezza delle immagini, da nero a negro, con primi piani vintage in stile blackspoitation. Certo: la fotografia lussureggiante di certi formati (70mm), con i nostri apparati se ne va in fumo, esattamente come avviene per certe futuristiche incisioni. In entrambe, però, l'aspetto formale ne esce esaltato, subendo una compensazione simile a quella sensoriale. In questo deprecabile contesto, però, è il frammento e non la totalità dell'opera a risultare stimolante, il raffronto anziché il messaggio, il climax deprivato del petting. Quindi mi sono ricordato che questa settimana esce nelle sale The Hateful Eight. E mi ci sono fermato. Ritiro spirituale.
Non pretendo di fare, qui, della critica cinematografica. Voglio ricordare alla nutrita schiera dei miei lettori – quattro: grazie, ragazzi! – che questo è uno spazio personale, ed in quanto tale deputato ad ospitare non verità evangeliche, bensì soggettive riflessioni. Quelle che state leggendo sono pertanto da intendersi come, né più né meno, le opinioni di un innamorato del cinema, una persona che il giro del mondo lo ha fatto – prima ancora dell'avvento delle student fares - iscrivendosi a due indimenticabili cineforum. E questo per diversi anni. La domanda che viene qui posta è, pertanto, non perché-il-cinema-di-tarantino-è-grande, ma perché-il-cinema-di-tarantino-mi-incolla-alla-sedia. Il tutto analizzato con i limiti – e la sofferenza cinefila - di chi, da qualche tempo, i film li vede filtrati dal doppiaggio in diretta fornito dalla prole (un po' come la musica ai tempi del muto).
Anni fa mi capitò di sentire Silvano Agosti dichiarare: “Tarantino è un delinquente”. Non ricordo l'argomentazione con la quale Agosti sostenne la tesi, ma proviamo a riflettervi sopra. Sul fatto che i film di Tarantino siano violenti, penso non vi sia nulla dire. Sul fatto che produrre film violenti – meglio, film con una spiccata componente di violenza – sia strettamente connesso alla propria violenta natura, e quindi riconducibile all'essere un delinquente, è come dire che se tu, maschietto, fai sogni bagnati sei uno stupratore. E qui mi fermo, in quanto do per scontato a) che qualcuno a questo mondo vi sia, in grado di trarre giuste conclusioni in maniera autonoma; b) che determinati concetti basic di diversi comparti dello scibile, nell'anno di Trump 2016, siano ormai parte del corredo di cultura generale dei più (a] e b] sono inoltre ottime argomentazioni per svicolare ed uscirne sempre splendidi). Personalmente, trovo l'apparato violence di Tarantino parecchio appagante, specie quando funzionale alla sete di vendetta. Frustrated of the world, unite and take over!
Resto fermamente convinto che Quentin Tarantino meriti un posto nella storia del cinema non tanto per i titoli sulla bocca di tutti – compresi coloro che li hanno fraintesi per benino -, ma per quello che ritengo sia il suo Promessi Sposi (paragone azzardato, me ne rendo conto): il progetto Grindhouse come da lui originariamente concepito, vera e propria sinfonia incompiuta sul mondo di chi il cinema lo ha fatto, e di chi dentro le sale cinematografiche ha vissuto (Tarantino). Un pezzo di storia moderna messo su celluloide.

Giusto oggi, Oliviero Toscani, personaggio burbero e piacevolmente diretto, spiegava ai microfoni di Radio Rai 1 – la generalissima – come, nella fotografia, il senso estetico fine a se stesso semplicemente privi l'arte di una sua componente essenziale: la provocazione. Componente che viene attivata quando – e solo quando – l'opera d'arte convogli in sé un messaggio politico – e quindi una sua rilevanza. Attenzione – sono sempre parole di Toscani -: i tramonti, le modelle insignificanti, gli scatti tutti concentrati sull'aspetto tecnico del gesto, non dicono niente, sono vuoti. Per tornare a noi: si può dire forse che l'arte di Tarantino manchi di un messaggio politico? I criminali che abitano i suoi suoi film, non rappresentano una società dove la legalità non è più percepita? La scaltrezza vertiginosa delle menti criminali non denuncia forse uno slittamento pericoloso dell'intelligenza? Le uccisioni di bianchi per mano di neri, non si inseriscono politicamente nelle tante, tristi questioni 'nere' che da Katrina a Ferguson hanno caratterizzato il dibattito statunitense nell'ultimo decennio (sugli ebrei che sterminano i nazisti, rifiuto di pronunciarmi: non ho titolo per operare come insegnante di supporto)? La vendetta al femminile, il metacinema, sono temi a forte caratterizzazione politica, rendono i film di Tarantino opere d'arte a tutti gli effetti, e un piacere per gli occhi.

lunedì 25 gennaio 2016

Blackstar

David Bowie era un esibizionista di ciò che egli creava.
Questi sono esibizionisti e basta.
Sono degli imitatori.
Non mi sono mai piaciuti gli imitatori.
(David Zard)
Intro
A volte il vino volge in aceto. Similmente la musica può volgere in tributo. Eccoli lì. Pittati, sfigati, infreddoliti, illetteratissimi, a rompere i coglioni alla piccola borghesia lavoratrice di Brixton con le loro chitarre scordate e le voci disperate. “Ziggy plays guitar. . . Planet earth is blue. . . Major Tom”. Quanto credete che dovremo aspettare per veder intasato ogni locale con Spiders From Mars David Bowie Tribute Band? Il tempo di imparare gli accordi. O nemmeno: 'il Liga' e 'il Blasco' continueranno ad avere i loro imbarazzanti imitatori. D'altronde David Bowie non è il primo artista a conquistare la vetta della classifica una volta defunto – no?
Part 1
Penso non potessi scegliere momento più inopportuno per scrivere di David Bowie. Ricorda l'erronea scelta di tempo della sua casa discografica, quando pubblicò il disco d'esordio nello stesso giorno di Sgt. Pepper's – con la scusante che, in era pre-internet, non doveva essere così facile essere aggiornati sulle mosse commerciali della concorrenza, tanto più con quella di una band che sempre più mirava alla rottura dei canoni di produzione, e che in risposta ad un successo incessantemente crescente di pubblico era determinata a mutare anche la fruizione della propria immagine.
Part 2
Ho ricevuto la notizia della scomparsa in diretta, ancora assonnato, in pigiama. Sono stato colto dalla commozione e da una immediata tristezza. Hai un bel dire, quando persone così non ci sono più, che basta seguire l'esempio, ora che tocca a noi andare al supermercato con il tascabile che spunta dalla tasca ed il fulmine pittato in volto.. Tutti a timbrare il cartellino - altroché. Più che duca bianco, colletto blu. Sono venuto al mondo, e David Bowie era già li. Ho tirato altri quarantacinque anni. Ancora li. Fino a ieri mattina. David Bowie is. David Bowie was.
Part 3
Mi sono rinchiuso in una stanza – segreta –, ed ho posto fine al chiacchiericcio post mortem ascoltandone l'ultimo disco, Blackstar, stella nera di oscuri presagi, e forse destinata a mutare in buco ancor più nero. Insegna il suo connazionale Stephen Hawking che il buco nero cessa di emettere luce, trattenendo però in sé tutta l'energia del collasso. Ed è così anche per la 'stella nera' di Bowie: densa di idee e spunti; piccola (40 min., la durata), ma dalla massa infinita. Blackstar è davvero un disco eccellente. È il prodotto di un fine artigiano (Tony Visconti) che di cesello va a realizzare l'idea proposta dal cliente (David Bowie), avvalendosi in questo dell'aiuto di maestranze esperte e qualificatissime (il quartetto jazz di Donnie McCaslin) – cui va il plauso per la strepitosa esecuzione in Sue (Or In A Season Of Crime). Lo ritengo un disco genuinamente fusion, con un tiro rock, e quella ambiguità armonica – serie d'accordi già sperimentate in passato e sostituzioni estreme - perfettamente calzante con un artista che da tempo era diventato un'icona di stile e sofisticatezza (fusione, quindi, in senso letterale, differente da quella proposta da un certo jazz bianco e stanco, che con il termine ha solo disposto di un alibi per elettrificare i discorsi musicali aperti - e sovente chiusi - dal blues e dal jazz di tradizione). Sfornare un disco così a sessantanove anni non è da tutti. In più, stando alle notizie ufficiali, un lavoro che Bowie ha realizzato in malattia (mi astengo, qui, dal dissertare sui benefici di una esistenza realmente creativa). Si pensi ad un gruppo come gli AC/DC, che, azzeccata la formula negli anni '70, continua a sfornare dischi dalle sonorità identiche, dove le uniche differenze, ad un orecchio vergine, sono rappresentate dalla trasparenza via via crescente nella qualità dell'incisione. O agli Stones, che – come dice l'amico Alessandro B. - “hanno smesso di fare musica vent'anni fa. O trenta”. Blackstar è pertanto un disco destinato a rimanere, come lo sono tutti quelli seguiti ad un decesso illustre (l'elenco è nutrito). Il canto del brutto anatroccolo dei Konrads divenuto bellissimo cigno.
Interlude
Quando la tua vita è tutt'uno con le tue creazioni, sei un artista. Quando sai suonare benissimo e fra una data e l'altra spaccare la legna, sei un musicista.
Part 4
Come tanti della sua generazione, anche David Bowie ha vissuto la squalifica, ottusamente giustificata dai cosiddetti fans, di gran parte della discografia seguita alla triologia di Berlino – similmente a quanto vissuto dai Floyd dopo Dark Side, agli U2 dopo Rattle 'n Hum, e ai Radiohead da Kid A in avanti. Cito a memoria. Mi sembra la prima di queste sia giunta in occasione del progetto Tin Machine (ho lasciato sul campo delle sinapsi, per quel gruppo), e proseguita con il concept Outside ed il successivo Earthlings. È difficile produrre musica. Difficilissimo produrne di bella, di soddisfacente per chi la fa, in primis. Certo: non sono stati anticipatori come le incisioni anni '70. Ma per sfornare tre dischi così – credetemi! - come nel Faust, si può davvero vendere l'anima al diavolo. È il massimalismo di un pubblico frustrato, quello che pretende gli artisti sempre all'avanguardia.
Reprise
Santo subito. È così che ormai reagiamo alla morte di chi ci viene consegnato dai media come un grande artista. Pier Paolo Pasolini diceva che la morte getta sempre una luce retroattiva sull'esistenza del caro estinto. Vero. Altra grande osservazione da parte dell'altrettanto grande Pier Paolo. Non dimentichiamolo: David Bowie era uno stronzo, esattamente come possiamo esserlo noi. Si guardi al proposito lo struggente documentario di George Hickenlooper, Mayor Of The Sunset Strip, dove è possibile vedere un Bowie, preoccupato dagli effetti del jet-lag, prestare scarsa attenzione al festeggiato Rodney Bingenheimer - il leggendario DJ losangelino che per primo passò le musiche di Bowie quando nessun altro sembrava riconoscerne la portata.
Finale

Ciò che di sicuro è destinato a rimanere, è l'esempio di come, nato David Robert Jones in un quartiere malfamato e periferico; in una città che solo pochi anni prima era sotto il bombardamento aereo di una paese nemico, un uomo comune, un absolute beginner, abbia reagito al tradimento di una condizione imposta (vedi alla voce: nascita) facendo appello alla propria creatività - e di conseguenza al proprio coraggio - al solo fine di diventare: sé stesso. E per questo accettando in sé tutte le contraddittorie trasformazioni che separano (forse, i famosi 'sei gradi') ogni essere umano da tale, legittima meta.

sabato 9 gennaio 2016

Bile

Quando ti cerco per le vie della città
A volte il cuore mi batte forte.
Se ti intravedo fra la gente
Vorrei dirti che sei
Almeno una piccola, forse una grande,
Parte di me.
(Il Teatro Degli Orrori, Mai Dire Mai)



Il Teatro Degli Orrori, nel panorama italiano, è tra i gruppi indie più interessanti e stimolanti. Riflettiamo. Cosa si vuole da un gruppo rock indipendente? Iperstimolazione sonora e presa di posizione politica – che è esattamente quanto il prodotto Teatro Degli Orrori fornisce all'acquirente, garanzia inclusa (molte dei loro brani sono di quelli che rimangono, credetemi). Mai Dire Mai viene dal loro secondo disco, un'incisione dalle sonorità lucidissime, artigianalmente prodotte nei laboratori milanesi del suono di Mauro Pagani, ed in netto contrasto con le sonorità volutamente grezze e cupe del disco d'esordio (capolavoro). Mi è sempre sembrata una salubre canzone noise dal piglio brutale, dove il parlato di Pierpaolo Capovilla trascina lo sprovveduto ascoltatore per il bavero, nel mentre gli viene somministrata una bella lezione di vita. Intro, strofa, strofa, ritornello, strofa, ritornello, chiusa. Ed è in quest'ultima che la canzone si trasforma in ballata, con il testo che vira dalla prepotenza del parlato al cantato dei versi citati in apertura. Dove capiamo che l'aggressività del protagonista è solo il paravento di una ricerca ossessiva della persona amata - prova di come noi si cerchi, ami, apprezzi e comprenda solo ciò che già conosciamo.
Passeggiavo “per le vie della città”, quindi, con mia figlia (tre anni e mezzo), in bicicletta, quando ho incrociato dei parenti (tre, in due differenti locations) i quali, non riconoscendoci (!), hanno tirato dritto. Ho realizzato, allora, quanto veritiere siano certe canzoni che da sempre mi ronzano nella testa. E quanto psicologicamente sia illuminante che proprio quelle – e non altre – abbiano scelto di abitare in me.
Cerchiamo chi già vive dentro di noi.
Riconosciamo solo chi già sentiamo di conoscere.
Ricordate Ask, degli Smiths? Meglio. Ricordate gli immensi Smiths di Morrisey e Johnny Marr? Ask fu, nel lontano '85 e quanto meno in Italia, il loro maggior successo commerciale. La rabbia fa sragionare. Ed è facile in simili momenti strumentalizzare delle parole, specie se profonde – come spesso sono quelle del Moz. “Se non è l'amore, allora sarà la bomba a metterci insieme” (If it's not love, then it's the bomb that will bring us together). Suona minaccioso, ma non lo è. Non ho intenzione di muovere un solo dito per riavvicinare persone di questa taglia, tantomeno di fare del male a chicchessia. Le parole di Morrisey servono solo a ricordare noi quanto sia estrema, a volte, la realizzazione di un'unione. Cazzi vostri.
Ciò che maggiormente mi disgusta della 'cultura' social dei giovani è la quasi assoluta inconsapevolezza delle conseguenze social – appunto - di tutto quanto viene, 'postato', 'tweettato', pubblicato, condiviso, 'taggato' e commentato (se mi state dando del vecchio che se la prende con i giovani, siete avvisati: è proprio così). Di queste merdine non so che farmene. Non accetto lezioni da gente così. Accetto di essere giudicato solo dai miei pari. Ed ecco allora, a riparazione dei danni di guerra, la definizione di cuginanza direttamente dal Sabatini-Colletti: vincolo di parentela esistente fra cugini. Ed ora la chiosa dal Parenzan-Camisa: è estendibile alle cugine di tre anni.
John Lennon, il grande, che aveva nei Beatles la sua famiglia, palesò ripetutamente come la gelosia e l'invidia di Harrison e McCartney – Ringo Starr fu l'unico a non mostrare ostilità – furono per lui e Yoko Ono fonte di imperdonabile dolore. Ma anche che tutto ciò non gli impediva di volergli bene – con grande coerenza per chi,a quel tempo, ci ricordava che “l'amore è la risposta”.

Non pretendo di scrivere, in futuro, canzoni del livello del grande John.
Spero solo di avere – qui sì come lui – la capacità di continuare a voler bene a quei tre bastardi che, con il loro atteggiamento, mi hanno fatto davvero male.

sabato 26 dicembre 2015

I CAN Get No Satisfaction

Non è capace di riassumere ed appassionarsi ad un testo scritto.”
(da: Indagine OCSE su Facoltà del Mondo Adulto 2015)

“Ho letto qualcosa del tuo blog. . . era un po' lungo – oh no? E poi non capivo un cazzo. . . non so.”

Quando tieni un blog, ed uno dei tuoi lettori si avvicina, di persona, per dire te parole come queste, beh: son soddisfazioni. Non c'è che dire.

È di oggi (25 dicembre) la notizia dei risultati di uno studio OCSE, che vedono il nostro paese primeggiare nellla classifica dell'analfabetismo funzionale, con un tasso pari al 47%. Quando tieni un blog, son soddisfazioni anche queste. In conseguenza di ciò, tu, blogger, hai almeno un valido motivo (un alibi?) con cui replicare a cotanto 'complimento'. In più, il dato spiega in maniera esauriente per quale ragione, ogni santo giorno, noi si abbia a che fare con schiere di rincoglioniti.

Nel caso in questione – il giudizio sul blog -, le cose sono due. Partiamo dalla più rilevante, saluto delle armi con chi me le ha cantate per bene. Ritenendomi montanelliano in diverse scelte etiche di scrittura, aderisco alla tesi che segue: se il lettore non capisce, la colpa è di chi scrive, non di chi legge. Touché, amico: se, come comunicato, non hai “capito un cazzo”, colpa mia. Da domani solo posts con cuccioli d'animale e pietanze nostrane.

La seconda vede però i ruoli invertirsi con simmetrica proporzione. Sempre a seguito delle succitate scelte, cerco di calmierare i miei scritti con una basilare quanto antica regola della scuola giornalistica statunitense: una tesi deve vedere il proprio succo enunciato in non più di settecento parole. Se non sei in grado di produrti in un simile compito, il giornalismo non è il tuo mestiere – e la tua facoltà di comprensione necessita quanto meno di revisione. Tranne quando in preda alla logorrea, è questa una regola che mi riesce di rispettare. Quindi niente cuccioli né pietanze.

Se settecento caratteri o poco più (l'equivalente di due pagine di un qualunque tascabile in commercio) sono sufficienti per a) decretare la lunghezza del testo come eccessiva b) impedire di coglierne il senso – per quanto confuso ed inarticolato -, va da sé che l'indagine dell'OCSE un fondo di verità ce l'ha – e dichiarare di avere faticato di fronte a settecento o poco più parole, tradisce il fatto che o da tempo non si leggono più libri o non li si è mai addirittura letti (Un consesso di linguisti nerd [ma si può essere linguisti senza essere nerd?], ha calcolato, nel tempo libero, il numero di parole necessarie all'uomo sapiens per comunicare. Il vocabolario basic: seicento vocaboli.).

Si pensi che l'analfabetismo funzionale è tanto diffusamente riscontrabile nel campione medio della popolazione (l'esperienza è personale) da non consentire nemmeno più spontanei moti di spirito da innalzare a difesa (cfr. Senso dell'Umorismo. Woody Allen colse il dilagare del fenomeno vent'anni or sono, fissandolo in una battuta de La Dea Dell'Amore: “Sono del tutto superfluo.”, “Oh, ti senti poco bene?”). Tempo fa, nel corso di una conversazione formale – quella che segue i convenevoli, per intenderci -, il mio interlocutore si è definito 'lascivo' nel tentativo di sottolineare la propria scarsa propensione all'impegno (!). E va da sé che, considerata la natura di questo blog, calcolo e scrittura non vengono presi in considerazione: inseriti nell'equazione, alzerebbero le percentuali emerse dallo studio a livelli persino non credibili.

Questo spiega molte delle difficoltà, delle scocciature, dei disagi e delle nevrosi nei rapporti interpersonali occasionalmente intrattenuti nell'anno 2015 (vedi luoghi pubblici). La maggiore correttezza, grammaticale, sintattica e formale (stilistica) nella comunicazione incontra, quando non il riso, lo sguardo condiscendente dell'interlocutore e versioni non richieste.

Essendo appassionato alla lettura, sovente vengo colto da conoscenti impegnato in questa attività. È verificabile da chiunque come l'ignoranza comporti, nei soggetti che ne sono portatori, una strana forma di curiosità nei confronti dell'oggetto (libro) della loro repulsione – sorta di intellettuale flagranza di reato. “Che stai leggendo?” è il quesito unico e ricorrente. Sapendo per esperienza che, quantomeno delle mie letture, questi inquisitori sui generis sono del tutto all'oscuro, da tempo replico muto, rivolgendo all'interlocutore solo la copertina del libro. Che faccia da sé: l'analfabeta funzionale è comunque in grado di leggere. L'ultima volta è capitato con le Lezioni Preliminari Di Filosofia di Giuseppe Semerari. La reazione? “Oh, Signore: no, grazie.”

Faccio parte di quella schiera – nutrita - di persone che hanno vissuto il cosiddetto dramma scolastico. Bocciature, ripetizioni, sospensioni, assenze ingiustificate, squalifiche morali e psicologiche, bullismo, acne. Ma, raggiunta la maggiore età e la consapevolezza di una ignoranza imbarazzante, il rifugio è stato lo studio. E da Gutenberg in avanti, non mi risulta sia stato praticato per infusione. Tocca forse allo psicologo, più che all'intellettuale puro, tentare di spiegare, oggi, la natura di questa bibliofobia dalle conseguenze culturalmente devastanti.

Indro Montanelli, al culmine della carriera, concluse che “più si parla e più si è fraintesi”. In questi tempi di diffusa, ma latente, ignoranza, venire fraintesi potrebbe persino essere visto come un risultato in positivo.

lunedì 30 novembre 2015

IL FANTASMA DELL'OPERA. Jeff Buckley, il Bataclan & i fatti di Parigi.

[…] Got my red glitter coffin, man, just need one last nail
[…] Racist everyman, what have you done?
Man, you've made a killer of your unborn son. . .
[…] Crown my fear your king at the point of a gun
All I want to do is love everyone. . .
[…] There's no time for hatred, only questions
Where is love, where is happiness, what is life,
where is peace?
[…] And tell me where is the love in what your prophet has said?
Man, It sounds to me just like a prison for the walking dead
And I've got a message for you and your twisted hell
You better turn around and blow your kiss goodbye
to life eternal angel. . .

[…] Ecco la mia bara rosso sgargiante, manca solo l'ultimo chiodo
[…] Nullità d'un razzista, che hai fatto?
Amico, hai reso il  figlio tuo mai nato un assassino. . .
[…] Incorona la mia paura al cospetto di un'arma. . .
tutto ciò che voglio è amare il prossimo
[…] Non c'è tempo per odiare, solo domande
dov'è l'amore, dov'è la felicità, cos'è la vita,
dove sta la pace?
[…] E poi dimmi dove sta l'amore nelle parole del tuo profeta?
Amico, sembra a me più una prigione per morti
Ed ho un messaggio per te e il tuo inferno di sbarellati
Fai meglio a voltarti e dare il tuo saluto alla vita eterna, angelo. . .

(Jeff Buckley, Eternal Life)
libera traduzione di Stefano Parenzan©

Alla luce dei recenti fatti di Parigi, non sono incredibili queste liriche?

Per me, la strage di Parigi è stata la sparatoria al Bataclan, il luogo simbolo, quello che nella grandiosa confusione ingenerata da ogni evento abominevole assume la curiosa funzione di segnalibro mentale. L'immagine delle due persone appese alle sue finestre è un chiodo sparato nel cervello.  Il teatro, dunque. Lo stesso dove nel 1995, l'autore di Grace teneva un concerto poi finito su vinile; la stessa persona che di lì a due anni avrebbe conosciuto – chi lo sa? - quella 'vita eterna' cantata nel testo; lo stesso dove due settimane addietro quelle liriche sembrano avere avuto un'influenza esotericamente ispirante, per i folli che hanno scelto (?) il pubblico degli Eagles Of Death Metal come strumento di un'azione eclatante. Leggete il testo attentamente, se già non lo conoscete. È del 1994, ma potrebbe essere stato scritto a caldo della strage. Il teatro è il luogo dove va in scena il canto e la rappresentazione della vita, dove l'essere umano può trovare modi e tempi per riflettere, piangere o ridere della propria vicenda. Non sarò mai sufficientemente grato a mia moglie per avere trascinato un villico come me, più di dieci anni fa, alla prima rassegna teatrale della sua vita. Fu amore a prima vista (oltre che della consorte, del teatro).

Ho sentito discutere, alla radio, di un testo di recentissima pubblicazione, intitolato – spero di ricordare correttamente - I Fatti Di Parigi Spiegati Ai Bambini. Si parlava della necessità, sentita come civile, di spiegare ai piccoli l'orrore di quanto accaduto. In questi frangenti mi sento vecchio. Penso ancora che ai bambini l'orrore vada risparmiato (che – sebbene non l'abbia mai avuto tra i preferiti – è la tesi morale portante del film, Oscar 1999, La Vita È Bella, ed anche l'unica ragione per cui lo cito). È materia prima che abbonda, su questa terra. Ne disponiamo in tale quantità da non doverci preoccupare del suo razionamento per le generazioni future come per quelle che stanno crescendo or ora. Verrà presto il tempo, per i giovanissimi, quando, loro malgrado e senza l'ausilio di sciagure planetarie, dovranno fare i conti con l'orrore che gli verrà sottoposto dalla loro stessa sensibilità. Ho l'impressione – brutta – che questo bisogno sia, da una parte, incapacità degli adulti a fronteggiare l'orrore in alcune delle sue forme; da un'altra, strumentalizzazione di un bisogno naturale – la comprensione che segue alla curiosità – per fini indicibili. Penso che la più patetica della frottole sia preferibile, per dei piccoli,  alla più chiara e semplice spiegazione dell'orrore di qualunque fatto – escludendo quanto ci tocca vivere in prima persona. Prepariamoci, piuttosto, al giorno nel quale ci verrà chiesta giustificazione di orrori non glorificati da dirette televisive, streaming e prime pagine. L'orrore del non detto, della consuetudine, del quieto vivere, del rispetto incondizionato e di chissà cosa altro. Non ci saranno sussidiari in grado di venirci incontro. Solo il nostro livello di crescita personale.

Parliamo ora di noi italiani, popolazione giustamente e ripetutamente bastonata – e sanzionata - da 'quelli di Bruxelles' per le reiterate inosservanze nei mille campi della competenza comunitaria. Come la mettiamo ora che a Milano si prosegue ininterrotti la movida sui Navigli mentre nella città sede del parlamento europeo regna – ha regnato - il coprifuoco? L'allievo supera il maestro. Limitando la polemica alla famigerata 'questione dei flussi', sembra evidente che quelli belgi non siano stati amministrati “mica tanto bene” - come direbbe Salvini. Mi sento certo di una cosa. Già si parla di sospensione del trattato di Schengen – realtà ratificata, della quale ognuno, a livello comunitario, ha già dato prova di disporre a proprio piacimento. Quando fallirà – se fallirà, insieme con il concetto di continente federato -, sarà anche grazie al largo contributo di queste realtà nazionali, Francia e Belgio. Quando la popolazione è invitata per ordinanza a restare in casa, non solo tu non sai chi è presente sul territorio: non sai nemmeno chi è presente nel giardino di casa. Casa tua. Per me l'Europa è già finita, unione monetaria di popoli inconciliabili nella quale ho creduto con innocente candore, ancora ventenne, convinto di un futuro di comunione e condivisione culturale oltreché giuridica – mentre ora siamo qui, barricati in casa con il fucile a pompa sempre carico, come il protagonista di Gran Torino.

I funerali di stato concessi a Valeria Soresin mi sono sembrati fuori luogo. Immagino la sua famiglia li abbia accettati in preda a quella forma di lucidità che a volte si acquisisce nel lutto, e non sperimentabile a priori. In Francia Valeria Soresin vi si è recata perché da noi la carriera accademica in un campo come la demografia – e non solo in quello- è impresa infausta per motivi che conosciamo benissimo ed è quindi superfluo analizzare. Sappiamo tutti, difatti, che, uscita viva dal concerto degli EODM, avrebbe proseguito incensita - e beatamente ignorata dagli apparati accademici italiani - la sua vita di cervello in fuga. Va da sé, quindi, che lo stato che le ha attribuito questi onori è lo stesso dal quale presumibilmente era in fuga. È un gesto ipocrita. Denota un senso di colpa sorprendente per una classe politica come la nostra. Al che mi sovviene che proprio in quanto tale non fa nulla per nulla, ed anche le esequie dell'unica vittima italiana della strage di Parigi diventano allora l'occasione per denunciare una sacralità violata che ben si addice alla conduzione di certe manovre - per il cui avvallo il presidente francese va cercando alleanze proprio in queste ore. Ma soprattutto un modo 'furbetto' per tenere buono il vicino di casa che si sta facendo violento. Da noi – cazzo, diciamolo! - sarebbe finita, magari, in qualche cesso di teatro-tenda alla performance de Il Volo, pausa in un dottorato gratuito a tempo indeterminato, incerto nello svolgimento della carriera. Poco altro da dire. C'è morte e morte.

Ora che, come è giusto che sia, si cerca di vincere la paura appunto affrontandola nella sua più recente incarnazione occidentale – i luoghi di ritrovo, culturali, culinari ed atletici -, ecco comparire Jovanotti con sottobraccio la promozione della sua nuova tournée nei palazzetti. Non per lucro – quando mai? Bensì con il pensiero a Parigi, per “[...] continuare a fare questo mestiere. Celebrare la vita, la libertà, nel nostro linguaggio universale che è la musica”. Ma stare zitti no? Nessuna sorpresa, quindi, se Adelmo Zucchero Fornaciari si permette di dichiarare che la musica di oggi è “un panino farcito alla merda”. Voglio sperare abbia contemplato anche l'amichetto nel mentre di questa gustosa riflessione. La strage erompe? La bomba esplode nel mucchio? Novanta persone ed altrettanti feriti rimangono a terra? "È qui la festa." (La giustizia divina ha già operato per punire questa mia arroganza. Leggo su La Stampa, il quotidiano che scambia il proprio direttore con quello di Repubblica, proprio come un avvicendamento in panchina – non era Calabresi a parlare spesso e bene delle opportunità da dare ai giovani? -; leggo che il Cherubini sarà direttore per un giorno – troppo – delle sue pagine culturali. Ed in quale occasione? La quattro date torinesi del nostro. Sempre con il pensiero rivolto a Parigi, certo. Si sprofonda nell'abisso).

Una qualche mente bacata ha proposto l'esecuzione dell'inno francese a precedere gli incontri di Champions League, come non bastassero le già obbligatorie giornate della memoria (Messaggio per i posteri – mia figlia-: nulla è più fascista, prepotente e prevaricatore di chi ritiene le tue facoltà intellettive – e quindi selettive e mnemoniche – suscettibili di un qualsivoglia precetto. Allontana come un appestato  tutti coloro che vogliono sacro per te ciò che è sacro per loro. La sacralità imposta è sempre interessata.).

Ricordo male o la Francia mai ha proposto l'esecuzione del nostro inno, in occasioni ufficiali, importanti, per 'alcuni fatti' avvenuti nella tarda sera del 27 giugno 1980?

sabato 14 novembre 2015

MARKETTA (CON LA K). Andare in brodo per un singolo di Adele.

Ho trascorso più di metà della mia vita a coltivare ascolti di qualità, snobbando letteralmente tutto quanto recasse anche solo una lontana parvenza commerciabile, e sempre più rifugiandomi nelle nicchie – poche, ma eccellenti (non ultima quella rappresentata da Public Service Broadcasting, il mio prossimo live obbligatorio).
Per questo, mai avrei pensato che, di questi tempi, mi sarei trovato ad accostare la macchina al solo fine di prestare ascolto, incantato, ad una delle regine della vetusta, e relativissima, hit parade: Adele.

Come non poteva non essere, Hallo, il nuovo singolo di Adele, è in testa alle classifiche di diversi paesi. Quindi il tipo di ascolto che scarto di default da decenni e per il quale nutro un interesse paro a quello per la politica nostrana. Nullo.
Il fatto è che quando l'auto-tuning mi ha portato sull'attacco della canzone, su quel primo “Hallo” che giunge inaspettato come la telefonata narrata nel testo, non ho potuto far altro che obbedire all'incantesimo.

Hallo è una canzone perfetta. E bellissima.
Il soggetto è semplice. Adele è una ragazzaccia che ha spezzato il cuore ad un maschietto. Fine della storia. Ognuno per i fatti suoi, allontanamento, sensi di colpa, assenza di notizie. Fino a quando la nostra non trova il coraggio di comporre quel numero di telefono, segretamente conservato negli anni. E allora: “Hallo”. Pronto. Sono io.
La voce, calda e rotonda, priva di spigolature (al contrario di certe apprezzatissime urlatrici nazionali che non citerò); la dizione impeccabile (il modo in cui pronuncia e canta, tutto d'un fiato, “It's so typical of me to talk about myself I'm sorry”, è da scuola di canto, lezione di fraseggio, e vale l'acquisto su Itunes); le armonie semplici ed interamente asservite all'esaltazione della voce (magistralmente riuscita); la produzione attenta (il missaggio con la voce 'in avanti' da brivido); la quasi totale assenza di escandescenze (il brano prende ritmo solo sul finale, senza concessioni accattivanti, tipo virtuosismi, acuti o distorsioni). La sospetta banalità del pentimento della protagonista è fugata dal tono pacato e dalla grazia del cantato. Ma anche il femminismo psicologicamente maturo della canzone (non dimentichiamo che è la protagonista a prendere l'iniziativa e a riconoscere le colpe, e senza un Eros Ramazzotti che provvede al controcanto consolatorio e rassicurante – in culo a Tina Turner e a I Belong To 'Sto Cazzo'), contribuisce al risultato finale. Parla ad un cuore spezzato con grazia e garbo, come tante volte, forse segretamente, vorremmo vedere trattata la nostra più intima sensibilità.
Un classico, potenzialmente. Ed anche qualcosa di più, se si ha il coraggio di ammetterlo.

Oggi non crediamo a papa Francesco: figuriamoci al produttore e al manager di Adele.
Adele Adkins viene da un lungo periodo di assenza dovuto al blocco dello scrittore – o, almeno, così ci dicono. Il singolo giunge dunque a sorpresa un po' per tutti. E – guarda caso – di cosa parla? Di un evento inatteso. Ha venticinque (!) anni, ma la bellezza matura di una trentenne (afferrate? La sofferenza invecchia, e così la narrazione ne guadagna). Ha il vezzo – e la pigrizia – di intitolare i suoi albums con la cifra della sua età al momento della pubblicazione (ho già prenotato Fourty-seven, Adele: vedremo se ne avrai il coraggio). C'è l'arte del commercio, a sorreggere Adele, il suo singolo e l'album che seguirà. Eppure. . .
Anche intorno a Lionel Messi vi è una cura finalizzata al massimo risultato per sponsorizzazione, mantenimento dell'immagine, mantenimento dell'interesse mediatico ed alimentazione costante della leggenda. E questo, obiettivamente, non rende il suo calcio giocato meno spettacolare. Andrò oltre, per intenderci. Apple è il colosso mondiale del commercio, e nonostante tutto continua a produrre ottimi computers. Non necessariamente, quindi, ciò che è commerciabile deve essere carente nella qualità (vogliamo parlare dei Duran Duran?).

Adele è un'artista giovane e brava. Ha il successo che merita.

Ignoro se dal vivo sia in grado di riprodurre le magie sintetizzate in studio. Per questo motivo, non andrò al suo concerto: per non rovinare la bellezza ripetuta di questo ascolto.

In un'epoca come la nostra, dove tutto è urlato, dall'elemosina alla mestruazione, Hallo è davvero una canzone salvavita.

domenica 1 novembre 2015

TROPPO POLITICO. Riflessione sulla malsana concezione della politica da parte degli italiani.

Sono politico, che c'è di strano?
Ho il nome di Santoro e il cognome di Gaetano
(Caparezza)

Ho consigliato un libro di Marco Travaglio ad una conoscente che mi ha consultato per una lettura su fatti di attualità recente. “Ma Travaglio. . . come dire: è troppo politico”, replica lei.

Onore al Caparezza – comunista – per avere anche questa volta anticipato e codificato l'ennesimo episodio di ignoranza dilagante, della quale ormai ci si può solo prendere gioco.

Come ci si convince, in regime di totale assenza di letture, che qualcosa è troppo politico? Meglio: chi può indurre una simile opinione? Risposta: Silvio Berlusconi, Laura Pausini, Il Volo, Carlo Conti, Fiorello, il Festival di Sanremo, One Direction, Alessia Marcuzzi, Jovanotti.

Non voglio in questa sede prendere le difese di Marco Travaglio. Non lo conosco di persona e penso non abbia bisogno della mia assistenza. Possiedo un solo suo libro – Montanelli & Il Cavaliere –; ho letto la prefazione – brillante – a quello di Bruno Tinti – Toghe Sporche -, e leggo di frequente i suoi editoriali su Il Fatto Quotidiano.
Ho riletto Montanelli & Il Cavaliere proprio per verificare, a debita distanza temporale, quanto di politico vi sia, effettivamente, nei lavori di Marco Travaglio.
Cerchiamo di capirci. Questo libro, che ricostruisce la vicenda italianissima del classico siluramento di chi si è opposto alla prepotenza del padrone, è quanto di meno politico vi sia in circolazione. Travaglio scrive ed enuclea i fatti con stile e rigore da verbalizzante di Polizia. In quattrocento e più pagine, poche chiose ai paragrafi fanno trasparire il giudizio estremamente negativo che l'autore ha dell'ex-premier. L'intento di tanta asciuttezza sembra essere quello di testare il lettore attraverso una presentazione del materiale tale da metterlo di fronte ad un atto di responsabilizzazione, consistente nel giudicare da sé fatti che, se non suscitano alcun moto di indignazione od un sano interrogativo, sono segno di taciuta connivenza. Al tempo dell'uscita dell'interessante documentario di Erik Gandini, Videocracy, venne scritto sulle pagine del 'Corriere' che se la popolazione italiana non è in grado, da sé, di immunizzarsi da simili storture, non si poteva certo pretendere che igiene e profilassi civili venissero operate da una pellicola. È vero. Siamo in grado di vedere e riconoscere solo ciò che già conosciamo. Quindi perché in assenza di cultura democratica si ritiene un autore come Travaglio troppo politico? Per i più, la colpa – tutta italiana – di Marco Travaglio è quella di prendere posizione in maniera appassionata, al punto da risultare, come si è detto, troppo politico persino a chi di politica non si è mai occupato.
Noi esseri civilizzati (mi si conceda la definizione) siamo politici a prescindere. Quando ci accusano di fare troppo i filosofi, si è di fronte ad una mezza menzogna. “Non si può che filosofare”, diceva Kant. Piaccia o no, persino il tuo parere sul truzzo eliminato al televoto del Grande Fratello ha una valenza politica. Il giudicare senza pregiudizi è una stronzata che la scuola – per citarne una – sembra non avere ancora arginato.

Troppo politico è in realtà un'accusa che rivela una propria, intima paura: quella del vedere mortalmente attaccata da un'opinione o un parere la sicurezza piccolo borghese di chi il culo lo ha sempre avuto al caldo e ben impomatato. Di chi in una verità appurata da un collettivo vede solo la minaccia alla propria ereditata serenità. Di chi non ha il coraggio di una presa di posizione, ignorante al punto da non rendersene conto.

I danni del berlusconismo - giusto per esprimere un parere politico -, operati su vasta scala da coloro che dall'ex-cavaliere si sono sentiti ispirati, e maggiormente sul piano culturale, vanno oltre gli aspetti monetari denunciati da Marco Travaglio in tempi non sospetti. Il danno consiste nell'avere convinto una fetta considerevole della cittadinanza della pericolosità e del sospetto che, secondo questa compagine, si annida dietro ogni opinione opposta allo status quo, con il risultato di avere persuaso di ciò milioni di persone. L'aggettivo è spesso – o sempre – confuso con il sostantivo, e 'troppo politico' diventa così il giudizio linguisticamente basic con il quale si opera una squalifica che è dettata da paura, per imposizione, con prepotenza.

Non ho infine compreso cosa realmente volesse da me la persona che mi ha chiesto consiglio per una lettura – e perché a me.

Anni fa, studente e libraio estivo per l'amico Gianni, consigliai il Diario Di Un Vecchio Sporcaccione di Bukowski alla commessa dell'esercizio attiguo. Smise di parlarmi, ma ebbe il coraggio di portare a termine la lettura – e di giudicarlo solo allora.

Questo è il risultato del successo ottenuto da una classe politica determinata: l'abbattimento di ogni processo selettivo, la delega all'altro, il disagio di fronte ad un pensiero forte. Il superamento, in direzione del peggio, dell'analfabetismo funzionale.