domenica 31 luglio 2022

'SPEAK UP!' La lingua morta della classe politica italiana.

 

Non ho titolo per discutere di alcunché, io. Figuriamoci di politica! Più passa il tempo e più me ne disinteresso.
È un universo parallelo, la politica. Checché ne dicano i suoi esponenti, rappresenta al momento quanto di più distante vi sia dalla vita vera.
Non vedo quindi in quale modo i miei problemi - intendendo con essi quelli del quotidiano, esperibili da chiunque avverta l'obbligo morale dell'arrivare onestamente a fine-mese - possano essere letti attraverso quest'ottica.

Da quando però ha avuto ufficialmente inizio l'ennesima crisi di governo, un aspetto che ha temporaneamente rinnovato in me l'interesse per 'gli affari interni', è il linguaggio con il quale la classe politica – che della crisi è l'artefice unico - ne ha dato comunicazione al paese.

Mi ha colpito per un semplice motivo: si tratta dello stesso con il quale sono state espresse tutte – dico 'tutte' – le precedenti crisi.

Come molti di voi forse sanno, sono prossimo ai 52. Sono cresciuto in una casa dove la lettura del Corriere della Sera e la visione delle principali edizioni del telegiornale nazionale erano un rito imprescindibile. In conseguenza di ciò, un'embrione di coscienza politica penso si sia andato formando in me intorno agli otto anni, in concomitanza con il caso Moro. In casa nostra, in quei giorni, non si parlava d'altro. Persino le questioni religiose, imprescindibili per una famiglia fortemente cattolica, erano passate in secondo piano, quando non addirittura sotto silenzio. Fu da allora che le parole della politica – quella già allora sprofondata nella crisi più nera - cominciarono a giungere me e ad imprimersi indelebilmente - e nocivamente - nella mia formazione di preadolescente. 'La crisi al buio', 'l'arco costituzionale', 'l'esecutivo balneare', 'la parola alle urne', 'il governo tecnico', 'le larghe intese', 'l'incarico esplorativo', 'l'agenda condivisa', 'l'unione programmatica', 'il dettato politico', 'la fiducia nelle istituzioni'; sono formule che i più attenti di voi avranno sentito in bocca a politici e giornalisti in questi giorni. E sono le stesse con le quali la politica italiana si è espressa nelle sue innumerevoli crisi dagli anni '70 ad oggi. Per capirci - e solo per citare due nomi conosciuti da tutti, anche dai più disincantati –, Giorgia Meloni e Matteo Salvini sfoggiano in questa crisi 2022 un linguaggio che non è di molto difforme da quello di Giulio Andreotti e Bettino Craxi ai tempi dei rispettivi mandati. Riflettiamo. Quanti rapporti sentimentali, di amicizia o semplice conoscenza giungono ad esaurimento con l'accusa di non poco rilievo che lui o lei, da troppo tempo, “dice sempre le stesse cose, ogni giorno”? Cosa pensereste, se mi rivolgessi a voi con il pensiero, il linguaggio e la visione di un ragazzino? Non trovereste imbarazzante ed insopportabile la mia frequentazione? Ecco: lo stesso vale per la politica. Una classe politica incapace di rinnovare il proprio linguaggio - e, conseguentemente, il proprio pensiero -, è inadeguata a rappresentare chiunque all'infuori di sé stessa. E questo spiega l'allontanamento via via crescente delle persone dall'impegno politico come dal voto.
“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”. È così sconfortante, la situazione, da non sentirmi nemmeno più obbligato a nominare la fonte della citazione: se nell'anno del Signore 2022 non hai ancora fatto tuo un concetto come quello appena riportato, è tardi, per rimediare. Imbarazzante quanto volete, ma la verità è che solo il Movimento 5 Stelle, con il 'vaffanculo' degli esordi, ha apportato un mutamento dialettico palpabile nella politica italiana. Per il resto, “cambiare tutto per non cambiare niente”, “Parole, parole, parole”, “Words don't come easy to me”.

Non parliamo, poi, della proposta, avanzata da Massimo D'Alema, a poche ore dalle dimissioni di Mario Draghi, di assegnare provvisoriamente l'incarico per la guida del governo a Giuliano Amato. Cioè: questa, è la politica italiana, la sua risposta irriflessa alla crisi. Giuliano Amato! Invocato da Massimo D'Alema! Un 84enne proposto con baldanza, a soluzione del difficile momento, da un politico in pensione, di dieci anni più giovane e formatosi al tempo del Partito Comunista Italiano - e a cui, naturalmente, la stampa italica tributa attenzione come si trattasse di persona in collegamento diretto e costante con Dio.

Sono 30'anni che il nome di Giuliano Amato viene invocato ad ogni crisi, al fine di riempire ad interim ogni vuoto creato dalla caduta – puntuale quasi quanto le stagioni – di tutti gli esecutivi succedutisi.
Non c'è rinnovamento, quindi, sul fronte linguistico, ma nemmeno sul quello generazionale (l'unica volta che lo si è tentato, è arrivato Matteo Renzi: le conseguenze della sua epifania sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere).
La politica è finita.

E al momento non si prospettano alternative praticabili al vivere civile.

lunedì 25 luglio 2022

'INTO THE VOID'. Fianco a fianco con i 'Millenial'.

Com'era inevitabile che accadesse, sono finito a lavorare con dei millenial.
Fino a poco tempo fa, sul fronte dell'anzianità aziendale, sono sempre risultato, mio malgrado, come 'quello giovane', il 'ragazzo', un Gianni Morandi dei poveri, per anagrafe ed esteriorità. Ora, invece, a poche settimane dal 52esimo compleanno, sembra proprio non vi siano altri numeri magici da mostrare al pubblico pagante: lo spettacolo è finito, “Elvis has just left the building”. Sul posto di lavoro ha avuto inizio l'ineluttabile – e, da parte di alcuni, temutissimo - cambio generazionale. E così, per la prima volta nel mio percorso lavorativo, mi ritrovo ad avere accanto persone delle quali potrei benissimo essere il padre (tesi, questa, assai compromettente, ma tant'è). Tecnicamente, si tratta di figli della Generazione X, gente fresca di laurea (triennale) o di licenziamento da una delle innumerevoli realtà del precariato italico. Giovani che, anche quando nati sul finire dei '90, hanno comunque subìto in maniera forte sia l'arrivo che il successivo imporsi della millenial attitude, e sono quindi da considerarsi, a tutti gli effetti, dei nativi digitali.

Sono determinati, i colleghi. Entusiasti, svegli e migliori di quanto io fossi alla loro età. Vivono l'incanto del nuovo impiego. La mia ipercordialità (strette di mano, formule di rito, parvenza di interessamento alle condizioni pregresse ed attuali del nuovo arrivato), roba da vero piemontese falso cortese, ha contribuito non poco ad una accoglienza con i fiocchi. Se avessi avuto un po' più di coraggio, li avrei probabilmente trattati con freddezza e distacco, senza alcun tipo di coinvolgimento. Scostante, certo. Ma sicuramente più in linea con un certo mio sentire. Però si sa: noi della Generazione X - figli legittimi di boomer veri, non quelli della costante e deliberata travisazione a tutto tondo operata dal mondo millenial -, con tutti i nostri difetti, un'educazione l'abbiamo ricevuta. Ed il nostro super-io (il genitore-boomer) ci impone di usarla ad ogni piè sospinto.
Lavorando fianco a fianco con i nuovi colleghi, ho ricavato l'impressione di non piacere:
loro vedono in me 'il matusa'; io, in loro, la generazione più a secco di contenuti di sempre. È cioè in azione il pregiudizio. Da entrambe le parti. I sociologi più arditi sostengono che il punto di forza millenial stia nel saper vivere, sostanzialmente, senza avvertire in alcun modo l'urgenza di un nesso tra le cose. Un'urgenza 'boomer' , quella del senso delle cose. Ordine e logicità ad ogni costo rappresentano effettivamente un'ossessione che la Generazione X ha coltivato come si trattasse di una specie rara, da preservare. Prova ne è il rapporto che essa ha avuto con la psicoterapia, facendo outing e sdoganando il tabù dello strizzacervelli. Sinceri: riuscite, voi, ad immaginarlo, un millenial in terapia? Che vada bene, alla terza seduta di risposte vaghe o mancate e di consultazione occasionale del cellulare, lo 'strizza' lo manda a fare in culo, e se ne torna a trattare nevrosi maggiormente gratificanti e codificate. Giusto oggi mi è capitato di sentirne uno in rete fare della critica di costume (evento quanto mai raro, ma che dimostra come sotto sotto anche ai nostri piccoli 'sorcini' piaccia dire la propria). Ad un certo punto, il giovane amico istituisce un paragone con Blob - Di tutto di più. Dice: “Per chi non lo sapesse, Blob è un programma che – spero sia ancora in onda su Rai 3 -, parecchio strano, effettivamente. Perché sono tanti spezzoni di tanti programmi diversi, tutti quanti slegati tra loro. Solo così: un meshup” (sic). Ecco: è questa incapacità di lettura mista ad indolenza a risultarmi davvero intollerabile.
Esperienza insegna, però, che quando si è genitori di
millenial e ci si atteggia in questo modo, oscuri presagi sono destinati ad addensarsi all'orizzonte. Indro Montanelli, riflettendo sull'opportunità di mettere al mondo dei figli, sottolineava come questi, al di la delle migliori intenzioni genitoriali, siano sempre e solo figli del tempo che li vede nascere.
Penso avesse ragione. Probabile, quindi, che anche mia figlia, molto presto, si disferà agilmente del dettato materno e paterno per seguire – che so? - delle lezioni di 'corsivo', diventare una
influencer, una tiktoker o, peggio, uno dei tanti 'disposable teens' che ad oggi intasano il Web con il loro vuoto pneumatico.
Perché QUESTA, alla fin fine, è la grande colpa della generazione
millenial: avere fatto virtù del nulla.

domenica 3 aprile 2022

'IMAGINE'. Il mondo ambiguamente fascista di John Lennon.


In aggiunta all'incalzante retorica del siamo-tutti-ucraini – divenuta stucchevole tanto quanto coloro che se ne fanno portatori -, un'altra insopportabile componente di questa ennesima ondata di pacifismo prêt-a-porter è l'immancabile Imagine, di John Lennon, puntualmente strimpellata, con tanto di occhi lucidi, nelle recenti manifestazioni per la pace (in primis, Piazza San Giovanni). A fronte di questo mio evidente disgusto – che sono certo venga ormai percepito con pesantezza anche dai pochi, ma fedeli, lettori di questo blog -, penso sia giunto il momento di spendere due parole su questo tormentone, davvero senza tempo, del pacifismo occidentale e sulla strumentalizzazione che di esso hanno fatto le varie gioventù bruciate nei decenni seguiti alla sua pubblicazione. Lennon lasciò i Beatles - oltre che per i motivi fino ad oggi stagionalmente indagati e quindi straconosciuti – a causa dei ripetuti attacchi che, dal tempo della comparsa al suo fianco, gli altri membri della band avevano puntualmente rivolto a Yoko Ono, giapponese, visual artist, attivista, compagna e, successivamente, consorte di Lennon. La si accusava di averlo plagiato, distolto dalla sua arte, dal suo vero sentire di musicista, ed in tal modo di avere fatalmente contribuito alla disgregazione del quartetto. Lennon non perdonò mai a Paul, George e Ringo questa posizione e cotanto accanimento, ed in tutta risposta, nel periodo immediatamente successivo allo scioglimento dei fab four, pubblicò due dischi fortemente caratterizzati, nelle intenzioni programmatiche come nei contenuti musicali e testuali, dall'influenza di Ono. Imagine, brano d'apertura dell'album omonimo, checché ne dicano gli adepti della 'seconda chiesa di Lennon', fa infatti il paro con il precedente John Lennon / Plastic Ono Band nel mostrarne l'autore in tutta la sua ordinarietà, in netto, sconvolgente contrasto con la figura autorale messa in campo nel periodo precedente. Colui che solo cinque anni prima aveva dato vita ad un brano come Tomorrow never knows, è ora divenuto una figura di culto, politicamente rilevante, in apparente simbiosi con la visione di vita della consorte. A tale visione, Lennon aderisce con un'intensità ed una coerenza tali da portare un contributo tutt'altro che marginale alle tensioni che, di li a breve, provocheranno lo storico scioglimento della 'band' di Liverpool. Le istanze pacifiste di Ono, suffragate in parte dalle proteste montanti nei campuses statunitensi e da un malcontento ormai diffuso nella pubblica opinione, trovarono concreta realizzazione artistica nel brano in questione. Quella che il pacifismo, da allora, ha assunto come proprio inno, e che oggi, declinata alle odierne esigenze 'del campo', risuona nelle bocche di tanti dei personaggi senza arte né parte del pacifismo nostrano, è, nel parere di scrive, una delle canzoni più deludenti tra quelle scritte da Lennon - per quanto coerentissima con la sua condotta del tempo. Nel mondo di Imagine – e c'è di che tremare, a pensare che Lennon possa avervi creduto – un'uguaglianza a tutto campo, orizzontale, regna incontrastata. Abolite differenze, confini, religioni, tensioni, incomprensioni e ogni causa per cui valga la pena vivere o morire, l'invito che viene indirizzato è a lasciar perdere e, in tal modo, a vivere strafatti un'eterna estate dell'amore, finalmente uguali, non belligeranti e totalmente aconflittuali (che è quanto ipocritamente propugnato oggi dai padroni della 'rete', sebbene con altri mezzi ed altre intenzioni). Un mondo dove l'altro cessa di anteporsi con le proprie opinioni, cessa di infastidire, perché è come te, perché tutti sono uguali: stesso pensiero, stesso atteggiamento nei confronti degli eventi della vita, abolizione dell'alterità. In altre parole, l'essenza stessa del fascismo - sebbene non perseguito con la forza, ma fantasticato nelle sue sole risultanze. Il seguito di Lennon, sia quello ottusamente più fedele che quello la cui ammirazione giungeva per inerzia (il mainstream), ha fatto di Imagine fin da subito una vera e propria bandiera del più becero pacifismo - quello, per intenderci, mai teso a propugnare soluzioni, ma sempre ottusamente a favore di uno sterile ed infantile non-interventismo. Volendo finalmente vederne la figura con il dovuto distacco, esattamente come faremmo con la seconda guerra mondiale, l'omicidio Kennedy o, per restare in casa nostra, il sequestro Moro, va detto che, nella fase solista della sua carriera, Lennon fu, in maniera via via crescente, sempre più convinto che ogni suo pensiero messo in musica - ogni nota, cioè, accordo, melodia o arrangiamento - fosse sempre foriero di rilevanti sottintesi anche quando alle orecchie suonava, né più né meno, come l'equivalente di una gran bella strimpellata (si pensi a Give Peace a Chance, al fatto di pubblicare spudoratamente quella che può ben dirsi la registrazione di una grigliata tra amici, financo ottenendone uno straordinario responso commerciale, e si avrà di quanto vado qui sostenendo una prova agghiacciante). Ribelle senza più causa, piegò la sua produzione alle istanze liberal della sinistra statunitense, assai in voga nella società del momento (posizione, quella ideologica, che, con la grande produzione dei Beatles [1966-69], aveva invece accuratamente evitato). Viene insomma da pensare che, fosse ancora vivo, con buona probabilità lo vedremmo suonare alle feste del PD o alla Leopolda. Non credo che il rock, genere politico alla nascita, debba astenersi dal prendere posizioni aperte (se così fosse, verremmo privati in un sol colpo dell'intera produzione dei Clash – produzione, mi permetto di sottolineare, tutt'altro che meschina). Penso piuttosto che molti, troppi artisti, specie in passato, abbiano letto il proprio successo commerciale come un'investitura a guida politica e spirituale, a guru della pubblica opinione, e che, nell'assumere tale ruolo, abbiano spesso cavalcato l'onda mainstream né più né meno con la stessa spregiudicatezza del più navigato dei politici, e che come questi abbiano ambito più ad influenzare le folle che a persuaderle per mezzo della propria arte. È probabile, insomma, che, se in quel lontano agosto di 42 anni fa Mark Chapman non avesse sparato a Lennon, qualcun altro l'avrebbe comunque fatto, prima o poi.

sabato 12 marzo 2022

GIOVENTÙ BRUCIATA. L'inadeguatezza 'millenial' di fronte alla guerra.


Stamane (10 marzo), gli studenti di alcune scuole della mia città hanno sfilato lungo le strade per protestare contro la guerra in Ucraina (la specifica mi sembra d'obbligo, dato il sussistere, a livello internazionale, di numerosi altri conflitti armati). Mi sono imbattuto in loro per puro caso, nel mentre il corteo passava per le vie del centro, e subito sono stato portato ad alcune riflessioni che ritengo meritorie di condivisione. Ciò che mi ha colpito, di questa manifestazione, più di ogni altra cosa, è stato il suo quasi totale silenzio, un'assenza di fragore e di vitalità che mal si addiceva ad un evento come questo. Se si esclude il soffice trepestio da 'calzatura giovane' ed il chiacchiericcio divertito di alcuni, quello odierno è sembrato, più che un corteo di protesta, un corteo funebre. La memoria storica collettiva, intendendo con essa quella italica, porta ancora ben impresso quello che, ad oggi, si può dire sia stato l'unico modello di protesta civile messo in campo con efficacia nel paese: quello del'68. Coinvolgente, coraggioso, genuinamente idealista, rumoroso, certamente arrabbiato e, nel suo ultimo strascico ad inizio '70, ad altissimo potere persuasivo e conflittuale. Sorprende, pertanto, non solo che questi giovani impieghino, al fine di manifestare oggi contro la guerra, gli stessi metodi con i quali i loro nonni (!), 50'anni fa, esercitavano il diritto alla protesta: sorprende l'immiserimento del modello preso a prestito. Persino gli slogans, tenuti alti sopra le teste e compresi in un arco linguistico che andava dal gioco di parole (Put out Putin) all'abusato fate l'amore, non fate la guerra, passando per la citazione (“You may say I'm a dreamer, but I'm not the only one”) - precetti stucchevoli che il pacifismo prêt-à-porter impone ai propri seguaci esattamente come la Chiesa con la messa della domenica, il loggione con il bravo! al termine dell'aria celebre o la curva ultrà con i cori di supporto - sono vetusti al limite della decenza, ed accettati supinamente dai nostri giovani in una acriticità che non fa ben sperare. Tornando al silenzio, mi pare esso sia del tutto in linea con il basso voltaggio che caratterizza da sempre la generazione millenial, la quale, a partire dalla sua comparsa nella vita civile, possiamo dire non ha propriamente brillato per vitalità ed iniziativa (si pensi, ad esempio, alle Sardine, e si avrà, di quanto appena sostenuto, un'immagine emblematica). Si potrebbe obiettare, di fronte a questa mia critica, che c'è ben di che essere addolorati, se si pensa a quanto sta accadendo sul terreno di guerra e al tavolo di mediazione. Ma questo offrirebbe un alibi, ai nostri giovani, che ritengo non meritino, ed uno che, personalmente, non intendo offrire loro. Quello degli studi superiori, si sa, è un momento di dolorosa, ma fondamentale, crescita culturale. Cessa ufficialmente l'età dorata dell'infanzia, ed ha inizio il lento, inesorabile cammino verso quella adulta. Exit Babbo Natale, enter la vita vera. L'intervallo è finito, ragazzi. Mi chiedo, quindi, con quale tipo di coscienza, questi giovani, intendano affrontare il reale - specie se informato, come sembrano darne prova, ad un conflitto estremamente complicato come quello russo-ucraino. Ma, soprattutto, quale tipo di coscienza intendano formare i professori e gli amministratori comunali (il sindaco ha preso parte all'iniziativa ed ha parlato agli studenti) che, nell'anno 2022, concedono ed appoggiano simili iniziative. Sono stato, a mio tempo, un idealista pedante ed inguaribile. Capisco bene come possa suonare, e risuonare, nella testa di un giovane la notizia del bombardamento indiscriminato di una scuola o di un ospedale. Ma credere che una manifestazione come quella di oggi possa avere un impatto sulle coscienze e sulla comunità internazionale, mi sembra non solo pericoloso e diseducativo, ma anche parecchio presuntuoso. Ciò non significa che sia meglio e molto più conveniente votarsi al cinismo. Ritengo sia ora di spiegare ai nostri ragazzi (impiego spontaneamente il possessivo non per paternalismo, ma perché, all'anagrafe, potrei benissimo essere loro padre) che le guerre si fanno sì con gli eserciti, ma anche che il loro invio dipende, in ultima analisi, da decisioni ed opportunismi palesemente politici le cui responsabilità, checché se ne dica, ricadono anche sulla classe politica italiana ed europea. Credere, per restare in casa nostra, che dare dell'animale a Putin, inviare armi in Ucraina, sanzionare la Russia dopo avervi fatto lucrosissimi affari per 20'anni non rappresenti una responsabilità grave per ciò che sta accadendo al nostro paese (sottolineo: il nostro, non l'Ucraina) e per come il loro sentire di giovani ne è conseguentemente investito, significa non solo illudersi che, quando i genitori si separano, la colpa sia sempre o di quella zoccola di mamma o di quello stronzo di papà: significa crescere in una non più adeguata logica manichea di buoni e cattivi. In politica, come nella vita, le responsabilità sono sempre condivise. Sarebbe anche ora di chiarire loro che è più efficace informarsi seriamente e votare con attenzione che protestare inanemente, solo per saltare qualche ora di lezione. Se i ragazzi non lo capiranno – e al più presto - non c'è speranza.

mercoledì 2 febbraio 2022

IL DIRITTO ALLA CARTA IGIENICA. Le vuote rivendicazioni degli studenti al tempo della pandemia.

Al tempo della scuola superiore (dovevo essere al primo o secondo anno), ricordo che presi parte ad uno sciopero, con tanto di corteo in strada, voluto e indetto dai rappresentanti delle singole classi, unitamente a quelli di istituto.
I primi erano spesso ragazzi alla ricerca di un posizionamento sociale, e soprattutto gerarchico, all'interno dell'istituto, sovente avvertito come luogo sottilmente aggressivo e carico di pericoli, mentre i secondi sembravano quasi sempre soggetti prelevati all'uopo da remoti riformatori maschili, talenti che, ben prima del suo inserimento nel Manuale diagnostico dei Disturbi mentali, avvenuto nel 2013, avevano nella naturale predisposizione al bullismo il loro tratto distintivo.
Un po' al fine evitare la squalifica sociale – pratica puntualmente esercitata su tutti coloro che non davano agli scioperi la loro adesione -, un po' per la paura di venire malmenato a titolo dimostrativo ed esemplificativo, ma soprattutto nel tentativo appassionato di saltare il più alto numero di ore di lezione, come si suol dire, scesi in piazza.
Ricordo, tra le motivazioni della protesta, che quella avanzata con maggiore rabbia e sdegno dalle rappresentanze era – udite udite - la mancanza di carta igienica nei bagni della scuola, carenza giudicata sistematica ed inaccettabile, e pertanto meritevole di essere combattuta a colpi di striscioni e di megafono.
Fu quindi così che Stefano Parenzan, più brufoli che anni, intorno la metà degli anni '80, rivendicò, con la propria presenza lungo le strade periferiche della città (a quell'ora di metà mattina, completamente deserte), il diritto degli studenti aronesi a nettarsi il culo con abbondanza di mezzi.


Quando ripenso a questo episodio, realizzo quanto è stato lungo, nel paese, lo strascico delle dimostrazioni sessantottine.
Fu a quel tempo, infatti, che l'ambizione - arrogantissima - ad ergersi al di sopra dell'istituzione scolastica venne dichiarata, a volte tacitamente, altre violentemente, diritto inalienabile, ed inculcata, da allora, nelle menti sempre facilmente plasmabili di mediocri e facinorosi, mentre per i più opportunisti divenne il cavallo di battaglia per carriere politiche in molti casi brillantemente dischiusesi.


Questo, per i tempi che furono.


Stamane (1 febbraio), molti degli approfondimenti dei
media tradizionali sui fatti del giorno si sono soffermati sugli scontri dei giorni scorsi tra studenti e Polizia in diverse città del paese, con i primi a dimostrare il loro sdegno per la morte sul lavoro di un coetaneo e i secondi ad eseguire l'ordine di impedire la manifestazione in quanto costituente assembramento in zone dichiarate arancione. Risultato: botte da orbi, feriti e le immancabili, trite polemiche del giorno dopo.
Alcuni portavoce dei manifestanti (qualche centinaio, questi ultimi, ma ugualmente autodichiaratisi rappresentativi di un micoruniverso di oltre sette milioni di studenti) sono stati degnati di interviste ed inviti in salotti da
talk show grazie ai quali è stato possibile ascoltare la loro versione dei fatti, le motivazioni alla base della protesta, le richieste (!) dei vari cortei e financo i consigli per riformare al meglio – secondo loro – il mondo della scuola.
Della cronaca dell'accaduto, però, il particolare che mi ha maggiormente colpito è la putrella di cartone che i giovani manifestanti intendevano donare alla sede di Assolombarda (siamo a Milano), a simboleggiare quella che, circa una settimana fa, in uno stabilimento di Udine, ha schiacciato mortalmente uno studente in tirocinio scuola-lavoro.
Non ho potuto, di fronte ad un gesto tanto teatrale quanto inane, non ripensare a quello sciopero per la carta igienica di quasi 40'anni fa, a quanto poco sia cambiata, la scuola italiana, nella percezione degli studenti, così come la loro visione del cosiddetto mondo-fuori.
Noi, allora, sapevamo poco o niente di tutto. Ciò era dovuto non solo ad un'ignoranza palpabile, ma anche, e in misura non trascurabile, all'assoluta mancanza di conoscenza delle cose della vita, inconsapevoli appartenenti, quali effettivamente eravamo, alla cosiddetta Generazione X, figli cresciuti in un paese dove le grandi emergenze sociali (scuola, lavoro, sanità, sicurezza) erano già state affrontate e risolte – per quanto in maniera raffazzonata ed approssimativa - da coloro che li avevano messi al mondo. La nostra esperienza di vita era pari a zero, non disponevamo di alcun titolo né di studio né tantomeno morale per avanzare richieste che non fossero, appunto, quelle per qualche rotolo di carta igienica.
Ciò che più mi rattrista, ed anche mi irrita, però, è constatare come questo giudizio - inappellabile, a mio parere – calzi perfettamente anche ai giovani manifestanti fronteggiati giorni fa dalla Polzia, che, a ragion veduta, potrebbero ben essere i nostri figli.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l'accusa, rivolta da uno dei loro rappresentanti nel corso di una diretta radiofonica, al sistema scolastico di valutazione, reo di avere provocato il suicidio di uno studente in un liceo scientifico del barese, due mesi fa - vittima, secondo il loro modo di vedere, di un voto, di un giudizio, tanto severo da risultare insopportabile, e quindi rimediabile solo con un gesto estremo.
Poche voci si sono alzate intimando loro di tacere. Che ne sapete, voi, di lavoro, del mondo del lavoro, di quale razza di vita conducano i vostri genitori una volta usciti di casa la mattina? Che idea avete di sacrificio? Chi credete di impressionare, con quella putrella di cartone? Quale differenza siete certi di fare? Quanti di voi rivendicano a gran voce l'importanza di una scuola diversa, in grado di fornire ai giovani una visione solidamente culturale, ma già meditano, domani, di iscriversi ad economia e commercio, ingegneria, medicina, perché meglio dottori, ingegneri e primari che poveri pezzenti? È davvero questa, la vostra 'rivoluzionaria' visione del mondo? Queste sono le domande che, secondo me, andavano rivolte all'accusatore e, per estensione, alla comunità dei manifestanti. Il diritto di parola andava esercitato nei loro confronti dandogli l'opportunità di rispondere a queste semplici domande e non predisponendosi ad un ascolto privo di ogni tensione critica.


Cari manifestanti, la verità è che, voi, “non sapete nulla, del mondo reale. Siete andati a scuola meno di Greta Thunberg”, ed ora pretendete di dettare le linee-guida del paese. Dite di voler abolire la prova scritta all'esame di maturità scrivendone la proposta direttamente al Ministro dell'Istruzione, ma lo fate con un lessico ridotto al minimo e con una sintassi che denuncia tutta la vostra inadeguatezza al ruolo che vi siete arbitrariamente assunti. Vi dite rappresentanti, ma non siete stati eletti da nessuno. Andate in giro sostenendo che il quattro dato alla vostra impreparazione è un'onta insanabile, e nel mentre ignorate chi è sopravvissuto ai campi di sterminio, alle guerre, alla povertà più nera e ad una traversata del Mediterraneo a bordo di una bagnarola. Vi ritenete vittime di tutto quanto non si presenti voi come accessibile, inclusivo, precotto, in grado di consentire un percorso privo di sobbalzi e perfettamente aderente alle aspettative. Vi ritenete vittime ed in effetti lo siete. Ma non del sistema: di voi stessi.
Che dirvi, quindi?
Benvenuti nella vita vera, ragazzi
.

domenica 7 novembre 2021

LIBERI DA CHE COSA? Radio Freccia e la musica di Kurt Cobain.

Kurt Cobain non era una persona maleducata: era una persona disperata e sincera. Il materiale video che lo ritrae in contesti non performativi - oggi disponibile in rete in quantità industriale, per quanto non sempre di buona fattura – ne fornisce una testimonianza palpabile e a tratti struggente - almeno per coloro che lo hanno davvero amato, come artista e come persona.

Non ho motivi per assumere in questa sede – come, d'altronde, in qualunque altra - la difesa di una rockstar che, per quanto leggendaria e financo defunta (o forse leggendaria, per i più, proprio perché defunta), ha sempre saputo tutelare autonomamente la propria persona semplicemente assumendo, a seconda dei frangenti, atteggiamenti schivi quando non freddamente o smaccatamente ironici (per capirci, ad un giornalista che si era permesso di chiedergli se gli piaceva la vodka, riducendolo in tal modo, seduta stante, da artista ad enologo, rispose senza preamboli ne chiose: “I like vodka”).

Ne ho invece diversi, di motivi – e qui sta il punto -, per attaccare a testa bassa i tanti che, in terra italica, ne strumentalizzano da tempo la memoria facendo leva, principalmente, su due punti: l'ignoranza olimpionica di quest'ultima generazione - cui tutto può essere raccontato, certi di vedervi tributato il suo solito, apatico credito - e la distanza trentennale che separa questi tristi giorni dall'opera e dalla scomparsa di Cobain – fattore respingente cui solo una buona memoria nell'ambito del costume e della cultura pop è in grado di opporsi.

Nutro una vera e propria ossessione, per quelli di Radio Freccia, un po' come la sinistra pidina con Berlusconi ai tempi d'oro di quest'ultimo (i tempi d'oro del PD non li ricorda probabilmente nemmeno Enrico Letta). Si spacciano per gli alternativi, portatori di una non meglio specificata esperienza di vita, puntualmente ventilata ad ogni jingle, manco fossero reduci da una guerra o da una turnazione con Emergency. E lo fanno bellamente in un contesto, quello dell'emittenza-radio nazionale, dove è completamente assente ogni vera alternativa o forma di concorrenza (a meno di non considerare come tali stazioni-radio quali Radio Capital o Virgin Radio), uomo solo al comando.

Quest'anno ricorre il quinto compleanno di Radio Freccia. Per festeggiarlo, è stata realizzata una serie di spot audio-video nei quali gli autori dell'emittente (ma esistono davvero? E chi sono?), al suono di alcune tra le più significative canzoni di Cobain e dei suoi Nirvana, hanno inserito le peggiori fregnacce che si potessero imbastire in una simile occasione ed in un simile contesto.

Ecco di seguito, in esclusiva per i sempre più radi lettori di Sala Colloqui, alcune delle cialtronerie di cui sopra, e, fra parentesi, i titoli dei brani ai quali sono state impunemente associate. Giudicate voi (sintassi e punteggiatura a cura della spettabile azienda Radio Freccia).

  • Ci conosciamo bene. Siamo sintonizzati sulla stessa frequenza. [Radio Freccia] Libera come noi (In Bloom).

  • Per noi la libertà è una cosa diversa. … liberi di guardare un film che racconta una storia che non hanno il coraggio di vivere (Polly + Smells like Teen Spirit).

  • Ci vuole fegato per vivere in questo mondo folle... ci vogliono un sacco di cose per vivere in questo mondo folle. A darti il rock ci pensiamo noi. Riesci a prendermi, vita? Se non ci riesci, è perché ballo forte. E se non ti stringo la mano, è perché ce le ho entrambe per aria (In Bloom).

  • È il rock, l'unica freccia che più ti colpisce e più ti fa sentire vivo (Breed).

Mi immagino, qui, Cobain con il fucile in mano, qualche attimo prima di spararsi in testa. E che quelli di Radio Freccia (gli 'sfrecciati', come amano definirsi), per un caso fortuito, stiano passando davanti a quell'americanissimo ed alquanto comune capanno per gli attrezzi, così cogliendo Cobain proprio nel mentre sta puntando il fucile. Cobain li vede, lancia loro uno sguardo supplice, implora davvero per l'ultima volta di dargli una buona ragione per non farlo, la speranza che vi sia ancora una soluzione da tentare. E loro: - Kurt, no! È il rock, l'unica freccia che più ti colpisce e più ti fa sentire vivo.

BUM!

Molte delle canzoni di Cobain – ed in particolar modo quelle impiegate da Radio Freccia per suoi recenti spot celebrativi – sono caratterizzate da un'impostazione sostanzialmente non-ideologica, amorale. Non impartiscono lezioni né, tantomeno, hanno la pretesa di costituire viatici à la carte per qualsivoglia tipo di condotta. Sono piuttosto canzoni impregnate di sofferenza, di disincanto, di ironica amarezza – tratti, questi, facilmente riconducibili ai trascorsi abbandonici vissuti da Cobain in infanzia e buona parte dell'adolescenza. Giovanilismo, disagio psichico, esclusione, la disperazione nello sguardo altrui, la ricerca di un briciolo di sincerità nei rapporti umani, sono tutti aspetti del vivere che proprio le canzoni di maggior successo dei Nirvana hanno fatto risuonare in animi spesso spenti e indifferenti – non esclusi quelli di molti fan -, attraverso la voce rabbiosa, a tratti implorante, di Cobain – e va da sé che quel che cantava era fuor di dubbio sé stesso, la sua visione nera e bipolare della vita. Ecco: nessuno – dico, nessuno – di questi temi è in alcun modo riconducibile agli arbitrari e manipolatori montaggi operati dalla redazione di Radio Freccia. Il loro messaggio – sempre che si sia disposti ad individuarvene uno od anche più – è qui integralmente distorto a fini meramente autocelebrativi e commerciali (commuove, nel tentativo di dare seguito a quest'ultima considerazione, il ricordo dello scatto del fotografo statunitense Mark Saliger per quella che fu la prima copertina di Rolling Stone dei Nirvana [aprile 1992], quando Cobain si presentò sul set indossando una maglietta con la scritta Corporate-Magazines-still-suck).

Quella della manipolazione delle parole, della distorsione senza scrupolo della verità altrui, della più irrispettosa strumentalizzazione, è un costume che, in Italia, ha attecchito, più o meno, in quel lontano aprile del 1994 (un caso, certo, ma alquanto significativo). Qualche giorno prima del suicidio di Cobain, infatti, un partito fondato con un solo anno d'anticipo sulle elezioni politiche, si piazzò al primo posto con uno sconcertante score del 21%, in tal modo travolgendo tutto quanto politicamente ed ideologicamente l'aveva preceduto. Il nome del partito era Forza Italia, e con il consenso creditatogli in cabina elettorale il paese aveva dato credito alle sue promesse per un futuro fatto di fica, caviale e champagne. Da allora la pianta è cresciuta, le sue ramificazioni hanno lentamente, ma inesorabilmente, invaso ogni ambito del paese: politico, civile, culturale. L'italiano medio è passato da una condizione di semianalfabetismo ad una apparentemente più innocua di compiaciuta passività, dove la circonvenzione è supinamente accettata a patto di saperla composta da atteggiamenti tonitruanti, immagini patinate, vocabolario basic, una malcelata bibliofobia ed un opportunismo raro. In termini mediatici, esattamente quanto Radio Freccia va praticando con gli spot dell'anniversario. Libera come noi, quindi, di dire tutto e il contrario di tutto (non si dimentichi che la coalizione vincente in quell'aprile funestato dalla scomparsa di Cobain rispondeva, appunto, al nome de Il Polo delle Libertà): l'importante, è farlo in altissima definizione.

Ma a questo punto, passando da Kurt Cobain a Vasco Rossi, da Aberdeen WA a Zocca (MO), ad un territorio, cioè, a noi più familiare, viene proprio da chiedersi: “Liberi, liberi / liberi da che cosa? / Chissà cos'è?”.

sabato 9 ottobre 2021

LE IDIOZIE DELLA PICCOLA AMBRA MARIE. La generazione dei senza-vergogna.

Sono passati 30'anni dalla pubblicazione di Nevermind, il disco che fece dei Nirvana un fenomeno planetario, così sottraendoli, loro malgrado, alla scena grunge dell'area di Seattle.

Eppure, per molti conduttori delle nostre miserrime emittenti-radio commerciali, sembra proprio che tre decenni non siano un tempo sufficiente per produrre, al riguardo, una riflessione, almeno per una volta, seria, profonda, in grado di restituire agli ascoltatori quello che fu il clima nel quale canzoni come Smells like Teen Spirit, In Bloom, Come as You are, Lithium, letteralmente esplosero in faccia agli ascoltatori, musicalmente imberbi quando non del tutto analfabeti.

La conseguenza principale di tale inettitudine riflessiva mi sembra oggigiorno ben rappresentata dall'anacronismo del fenomeno Måneskin, in Italia, e – giusto per pareggiare i conti e sentirci un po' meno soli nella miseria - da quello ancor più triste degli statunitensi Greta Van Fleet, altrove.

In uno spettacolo di qualche anno fa, lo stand-up comedian Jimmy Carr, colpito dall'espressione basita di uno degli spettatori delle prime file, chiosò sarcasticamente che esiste un livello di comprensione sotto il quale non è consentito assistere ad una serata di stand-up comedy, pena l'estromissione dalla sede dell'evento (“There's a level of minimum understanding, here. You know what I mean?”).

Contorto quanto volete, ma è a questo che ho pensato, giorni addietro, quando ho sentito tale Ambramarie, una delle conduttrici di Radio Freccia – l'emittente radiofonica con il più alto tasso di crescita negli ascolti del paese –, inanellare una serie di castronerie da stazione-radio locale.

Portata ad una strana forma di eccitazione sconosciuta ai più dall'ascolto di Ohio, di Crosby, Still, Nash & Young, la nostra ha prima affermato di sognare una vita negli anni '60 o '70, evidentemente ritenuti similari; o, in alternativa, nel 1991, anno nel quale, per l'appunto, i Nirvana pubblicavano Nevermind - periodo tra i più difformi, per quanto possibile, dai conflittuali, travagliati due decenni appena citati.

Il tempo di mandare in onda il brano e la nostra è già sulla difensiva.
- Non vorrei aver dato l'idea di una che vuole essere una 'hippy' o un figlio dei fiori, o roba così -, dice. - Io non so neanche cosa sono, gli 'hippy'. Sono degli stivali, forse? -.
A parte il mancato uso del congiuntivo e la finta modestia, sui quali si potrebbe aprire un post a sé stante, per tornare alla frecciata di Carr, c'è davvero un limite inferiore a ciò che ci si può permettere di non comprendere, pena l'inclusione nella sempre più affollata categoria dei subnormali.

Lungi da me il voler assumere qui o altrove la difesa di una categoria – quella degli hippy - sostanzialmente estinta, fatta eccezione per l'assurdo stoicismo di alcune sacche di disadattati ancora presenti sul territorio nazionale. È certa di essere estremamente simpatica, Ambramarie, o quantomeno di risultare tale all'attenzione del suo seguito.

Cito integralmente dal suo profilo, così come pubblicato sul sito di Radio Freccia (ortografia, lessico e tipografia a cura dell'autrice):

Ambramarie, classe 1987, inquieta e curiosa per indole (miei coglioni!, n.d.r.), si avvicina al rock dall’infanzia, quando tra le mani e le orecchie le capita il greatest hits 'Cross Road' di Bon Jovi (caspita, davvero un disco seminale, n.d.r.). Più avanti, nell’adolescenza, con 'Post Orgasmic Chill' degli Skunk Anansie (mai senza, n.d.r.) si rende conto che è proprio quello che vuole fare nella vita: la cantante ruuuuoookkk (Wow!, n.d.r.). Forma la sua prima e attuale band a 17 anni, vivendo tra un furgone sgangherato e la sua amata mansarda, dove si rinchiude a macinare dischi e film, sdraiata con la pizza sul letto (e questa è la stessa che non vuole essere scambiata per una hippy, n.d.r.). Si appassiona follemente al mondo della radio dopo aver visto il film I love Radio Rock (parallelo tra la radio pirata del film e Radio Freccia, davvero senza vergogna, n.d.r.), perché libertà e ribellione sono l’unica via per essere felici e cambiare veramente Qualcosa (scritto con la maiuscola, ma se ne ignora il perché, n.d.r.).”

Curioso ed illuminante che la nostra ometta elegantemente la partecipazione ad X Factor come il suo essere stata tra le prime 'grandi promesse' del programma.

All'uscita di Nevermind avevo 21'anni, e la sua forza d'urto mi colpì come una vergine al primo rapporto. Impiegai del tempo a realizzare che questo disco per me straordinario era invece considerato da Kurt Cobain una sorta di sottoprodotto, un disco estremamente commerciale il cui fine era compiacere quella gioventù – il 'teen spirit' - già allora senza arte né parte della quale io pure ero parte integrante ed attiva; una registrazione dal cui suono Cobain diceva di non sentirsi rappresentato.

Oggi davvero si può dire tutto e, minuti dopo, il contrario di tutto, senza nemmeno l'ansia derivante dalla possibilità, divenuta assai remota, di venire scoperti. I personaggi a la Ambramarie sono ormai la normalità, e non c'è morale o cultura - checché ne dicano gli intellettualoni del paese - che possa arginarne la deriva. Indignarsi, come io faccio spesso, serve a poco o a niente. Questi fenomeni vanno affrontati e sconfitti sul loro terreno di gioco, lì dove si sentono maggiormente protetti, al sicuro – un po' come quando si riesce nell'impresa di umiliare la squadra più forte del torneo nella partita che questa gioca in casa. Scendere in campo, sporcarsi le mani, accettare la sfida secondo regole altrui, ironizzare senza pietà e in maniera pungente, senza rimorso, contro questa generazione di senza-scrupoli, di senza-vergogna. Con il fare messo in campo sistematicamente nel corso dello spazio tributatole settimanalmente da Radio Freccia, Ambramarie sarebbe stata schifata dai suoi tanto decantati idoli pop sia come hippy che come nativa di Olympia WA. George Harrison, che visse con il massimo candore possibile la grande illusione dell''estate dell'amore' 1968, scappò letteralmente a gambe levate quando, in visita al quartiere di Haight-Ashbury, in quel di San Francisco, vide con i propri occhi in cosa realmente consisteva la cosiddetta cultura hippy. Quanto a Cobain - che la nostra vorrebbe vicino a sé per mezzo di reincarnazione nell'anno 1991 - che dire? Forse che anche per fuggire dalla stupidità e dall'ipocrisia di persone come lei Cobain si tolse la vita. È sufficiente leggere con calma i suoi diari, per capirlo.

Ma per sentire, al riguardo, cazzate firmate Ambramarie, abbiamo tempo fino all'aprile 2024.