Stavo annaspando nel caldo allucinante del Salento, quando, una sera, sfiancato al pensiero di uscire a quelle temperature, mi sono trovato in poltrona ad assistere alla messa in onda di Modena Park, il film-marchetta che immortala l'incredibile concerto di Vasco Rossi in quel di Modena nell'estate di tre anni fa.
In piena passività digestiva (mia suocera, Dio la benedica, eccitata dalla visita, ha cucinato anche le tende), ma con le orecchie ben aperte, ho quindi subìto tutto il rituale che puntualmente prelude ai grandi eventi mediatici: l'imbarazzante passerella dei soliti 'vipponi' nostrani - naturalmente tutti estimatori della prima ora ed amici di vecchia data -; le impressionanti riprese della distesa umana del pubblico; l'inizio del concerto con lo Zarathustra di Richard Strauss ed immagini di chiara filiazione kubrickiana; lo stupore di mio suocero, ultraottantenne ("Ma come fa, questo, ha portare tutte 'ste persone?"), e, alla fine della fuffa, la salvifica apparizione di Vasco - in forma smagliante e per nulla intimorito dalle oltre 220.000 paia di occhi che lo fissavano in preda al delirio. Dopodiché in concerto si è aperto con un classico del primo periodo: Colpa D'Alfredo. Ed è in quel momento che sono stato colto da un'illuminazione.
Premetto che non sono mai stato un suo fan - sebbene io lo apprezzi per più di una canzone e nonostante Va Bene Va Bene Così sia uno dei dischi che più ho ascoltato nella mia vita. Io, per Colpa D'Alfredo, avevo fatto una vera e propria malattia. Anzitutto è stato il primo brano nel quale si sentiva il cantante parlare, e parlare chiaro, diretto, sboccato. Questa cosa mi aveva fatto impazzire. Mi aveva messo di fronte alle immense possibilità della canzone come mezzo espressivo. Il cantato, poi, quando subentrava, non era convenzionale e lineare come nello sdolcinato repertorio italiano che avevo conosciuto fino a quel momento (erano i primi anni '80). Era fatto di urla ed urletti, di un'intonazione volutamente imprecisa, di versi sbiasciati e di altri emessi con tono alticcio, alterato. Ed infine c'era quella chitarra distorta che era una vera novità sonora nel panorama nazionale, improntato com'era alle sviolinate di stampo sanremese. Per un giovane appassionato di musica rock, quale ero al tempo, si trattava di aria fresca di montagna - e di una vera e propria goduria. Una canzone politicamente scorretta al tempo della sua uscita, e - si ponga attenzione a ciò - politicamente scorretta 40'anni dopo.
Ma è solo nel corso della visione di Modena Park che mi sono reso conto delle implicazioni sadicamente sottili insite nella scelta di aprire il concerto - che per Vasco è stato certamente 'il concerto della vita' - con un brano come Colpa D'Alfredo, del filo rosso che partendo da questo arriva all'estate 2017.
Il soggetto della canzone, per chi non la conoscesse, è il resoconto di un abbordaggio andato male. Una tipa ha appena chiesto a Vasco se può darle un passaggio a casa. Il nostro va subito su di giri, ma l'amico Alfredo, inopportuno come suo solito, attacca bottone con un pippotto che non finisce più, e la ragazza, senza perdere altro tempo, se ne va via insieme ad uno di colore, con grande invidia di Vasco. Era il 1980. Era l'Emilia tossica raccontata da Andrea Pazienza, ma anche, più in generale, l'Italia dei 'drogati', come li si chiamava allora. Esistenze periferiche che già, però, avvertivano l'abitare un paese a doppia velocità, con alcuni - pochi - impegnati nella corsa, ed altri - molti - esclusi. Giovani per i quali anche la semplice richiesta di un passaggio a casa da parte di una ragazza rappresentava 'l'America', tanto era il vuoto ed il grigio di quegli anni lontani, geograficamente e cronologicamente, dalla "Milano da bere". Questo, a grandi linee, il retroterra culturale, se così si può dire, di Vasco, l'ambiente che lo ha portato a scrivere una canzone come Colpa D'Alfredo e, nello specifico, i versi che seguono:
La "stronza" è dimentica di avere chiesto un passaggio in direzione Modena-Parco. Ma non così il nostro Vasco il quale, 37 anni più tardi le restituisce il favore portando proprio lì, in quel posto preciso (un caso? dubito) qualcosa come 225.173 spettatori. Chi mi conosce sa che non sono incline alle facili emozioni. Posso pertanto affermare che poche volte mi è capitato di averi brividi come quelli avuti per Vasco quando finalmente urla "Abito fuori Modena, Modena Park". So di sconfinare pericolosamente nel fantasioso, ma mi piace pensare che tra il pubblico, quella sera, vi fosse anche "la stronza", impegnata a mangiarsi le dita per quel passaggio chiesto e poi bellamente ignorato. Ma se questa è fantasia - e lo è -, la verità è che non c'è cosa peggiore del non saper riconoscere il talento nel prossimo, trattandolo con sufficienza e perdendo in tal modo un'occasione d'oro - qual è sempre quella del potersi confrontare con chi è dotato di una particolare sensibilità.
Mi sono allora reso conto d'improvviso di quanto coerente è stata l'ascesa al successo di questo signor nessuno partorito dalla provincia emiliana, di quanto poco si sia venduto al sistema, di quante belle canzoni ha scritto specie all'inizio (sulla sua lapide dovranno obbligatoriamente venire inscritti i versi universali di Siamo Solo Noi, "Generazione di sconvolti, senza più santi né eroi"), di come sia riuscito ad evitare prediche e moralismi cantando sempre e solo delle proprie esperienze personali, del proprio sentire, e di come proprio per questo sia divenuto, suo malgrado, rappresentante degli ultimi, dell'emarginazione urbana, di un pubblico sicuramente fedele, ma che in modi diversi avverte un malcelato senso di inadeguatezza di fronte alla vita (prova ne è il saluto che Vasco, a fine concerto, gli ha voluto tributare: "Ce la farete. Ce la farete tutti!", un'iniezione di autostima che manco il Papa o Bono...).
In piena passività digestiva (mia suocera, Dio la benedica, eccitata dalla visita, ha cucinato anche le tende), ma con le orecchie ben aperte, ho quindi subìto tutto il rituale che puntualmente prelude ai grandi eventi mediatici: l'imbarazzante passerella dei soliti 'vipponi' nostrani - naturalmente tutti estimatori della prima ora ed amici di vecchia data -; le impressionanti riprese della distesa umana del pubblico; l'inizio del concerto con lo Zarathustra di Richard Strauss ed immagini di chiara filiazione kubrickiana; lo stupore di mio suocero, ultraottantenne ("Ma come fa, questo, ha portare tutte 'ste persone?"), e, alla fine della fuffa, la salvifica apparizione di Vasco - in forma smagliante e per nulla intimorito dalle oltre 220.000 paia di occhi che lo fissavano in preda al delirio. Dopodiché in concerto si è aperto con un classico del primo periodo: Colpa D'Alfredo. Ed è in quel momento che sono stato colto da un'illuminazione.
Premetto che non sono mai stato un suo fan - sebbene io lo apprezzi per più di una canzone e nonostante Va Bene Va Bene Così sia uno dei dischi che più ho ascoltato nella mia vita. Io, per Colpa D'Alfredo, avevo fatto una vera e propria malattia. Anzitutto è stato il primo brano nel quale si sentiva il cantante parlare, e parlare chiaro, diretto, sboccato. Questa cosa mi aveva fatto impazzire. Mi aveva messo di fronte alle immense possibilità della canzone come mezzo espressivo. Il cantato, poi, quando subentrava, non era convenzionale e lineare come nello sdolcinato repertorio italiano che avevo conosciuto fino a quel momento (erano i primi anni '80). Era fatto di urla ed urletti, di un'intonazione volutamente imprecisa, di versi sbiasciati e di altri emessi con tono alticcio, alterato. Ed infine c'era quella chitarra distorta che era una vera novità sonora nel panorama nazionale, improntato com'era alle sviolinate di stampo sanremese. Per un giovane appassionato di musica rock, quale ero al tempo, si trattava di aria fresca di montagna - e di una vera e propria goduria. Una canzone politicamente scorretta al tempo della sua uscita, e - si ponga attenzione a ciò - politicamente scorretta 40'anni dopo.
Ma è solo nel corso della visione di Modena Park che mi sono reso conto delle implicazioni sadicamente sottili insite nella scelta di aprire il concerto - che per Vasco è stato certamente 'il concerto della vita' - con un brano come Colpa D'Alfredo, del filo rosso che partendo da questo arriva all'estate 2017.
Il soggetto della canzone, per chi non la conoscesse, è il resoconto di un abbordaggio andato male. Una tipa ha appena chiesto a Vasco se può darle un passaggio a casa. Il nostro va subito su di giri, ma l'amico Alfredo, inopportuno come suo solito, attacca bottone con un pippotto che non finisce più, e la ragazza, senza perdere altro tempo, se ne va via insieme ad uno di colore, con grande invidia di Vasco. Era il 1980. Era l'Emilia tossica raccontata da Andrea Pazienza, ma anche, più in generale, l'Italia dei 'drogati', come li si chiamava allora. Esistenze periferiche che già, però, avvertivano l'abitare un paese a doppia velocità, con alcuni - pochi - impegnati nella corsa, ed altri - molti - esclusi. Giovani per i quali anche la semplice richiesta di un passaggio a casa da parte di una ragazza rappresentava 'l'America', tanto era il vuoto ed il grigio di quegli anni lontani, geograficamente e cronologicamente, dalla "Milano da bere". Questo, a grandi linee, il retroterra culturale, se così si può dire, di Vasco, l'ambiente che lo ha portato a scrivere una canzone come Colpa D'Alfredo e, nello specifico, i versi che seguono:
E quella stronza non si è neanche preoccupata
Di dire almeno qualche cosa, che so, una scusa
Si era già dimenticata
Di quello che mi aveva detto prima
"Mi puoi portare a casa questa sera?
Abito fuori Modena, Modena Park"
La "stronza" è dimentica di avere chiesto un passaggio in direzione Modena-Parco. Ma non così il nostro Vasco il quale, 37 anni più tardi le restituisce il favore portando proprio lì, in quel posto preciso (un caso? dubito) qualcosa come 225.173 spettatori. Chi mi conosce sa che non sono incline alle facili emozioni. Posso pertanto affermare che poche volte mi è capitato di averi brividi come quelli avuti per Vasco quando finalmente urla "Abito fuori Modena, Modena Park". So di sconfinare pericolosamente nel fantasioso, ma mi piace pensare che tra il pubblico, quella sera, vi fosse anche "la stronza", impegnata a mangiarsi le dita per quel passaggio chiesto e poi bellamente ignorato. Ma se questa è fantasia - e lo è -, la verità è che non c'è cosa peggiore del non saper riconoscere il talento nel prossimo, trattandolo con sufficienza e perdendo in tal modo un'occasione d'oro - qual è sempre quella del potersi confrontare con chi è dotato di una particolare sensibilità.
Mi sono allora reso conto d'improvviso di quanto coerente è stata l'ascesa al successo di questo signor nessuno partorito dalla provincia emiliana, di quanto poco si sia venduto al sistema, di quante belle canzoni ha scritto specie all'inizio (sulla sua lapide dovranno obbligatoriamente venire inscritti i versi universali di Siamo Solo Noi, "Generazione di sconvolti, senza più santi né eroi"), di come sia riuscito ad evitare prediche e moralismi cantando sempre e solo delle proprie esperienze personali, del proprio sentire, e di come proprio per questo sia divenuto, suo malgrado, rappresentante degli ultimi, dell'emarginazione urbana, di un pubblico sicuramente fedele, ma che in modi diversi avverte un malcelato senso di inadeguatezza di fronte alla vita (prova ne è il saluto che Vasco, a fine concerto, gli ha voluto tributare: "Ce la farete. Ce la farete tutti!", un'iniezione di autostima che manco il Papa o Bono...).
La mia idea di successo è questa: riuscire a riempire il frigorifero facendo, nella vita, ciò che maggiormente ci appassiona - e per cui ci si sente maggiormente portati -, cercando, nel contempo, di restare il più possibile fedeli a noi stessi. Ecco: mi sembra che questa condotta si attagli alla perfezione a quella che è stata la carriera di Vasco Rossi, classe '52, rocker in un paese di neomelodici, protagonista di una vicenda di successo meritato, onesto e per questo raro, all'apparenzan senza invidie e cadute di tono (io continuo persino a credere che un riff de La Combriccola Del Blasco sia stato impiegato dagli U2 in The Blackout).
Bravo, Vasco: le avevi promesso un passaggio a Modena Park, alla "stronza". E sei stato di parola.
P.S. Nel mentre assistevo alla performance di Modena Park - veramente perfetta sotto ogni punto di vista -, ho realizzato che molti dei nomi celebri del rock - i cosiddetti big, U2, Rolling Stones, Muse, Springsteen, Coldplay e compagnia bella -, un concerto così, se lo possono solo sognare la notte (non sto esagerando: lo penso davvero). Fra i tanti pregi, il documentario, per quanto impregnato di toni fortemente autocelebrativi, ha quello di avere fornito un'immagine estramamente fedele dell'Italia nell'anno 2017: quella di un paese in costante crisi - politica, sociale, strutturale, economica -, ma capace, se adeguatamente incentivato, di guizzi di assoluta, incomparabile eccellenza.
Bravo, Vasco: le avevi promesso un passaggio a Modena Park, alla "stronza". E sei stato di parola.
P.S. Nel mentre assistevo alla performance di Modena Park - veramente perfetta sotto ogni punto di vista -, ho realizzato che molti dei nomi celebri del rock - i cosiddetti big, U2, Rolling Stones, Muse, Springsteen, Coldplay e compagnia bella -, un concerto così, se lo possono solo sognare la notte (non sto esagerando: lo penso davvero). Fra i tanti pregi, il documentario, per quanto impregnato di toni fortemente autocelebrativi, ha quello di avere fornito un'immagine estramamente fedele dell'Italia nell'anno 2017: quella di un paese in costante crisi - politica, sociale, strutturale, economica -, ma capace, se adeguatamente incentivato, di guizzi di assoluta, incomparabile eccellenza.