Certo:
io continuo ad avere le mie idee, a riguardo dei concerti rock
e pop (giusto per individuare facilmente due categorie
nettamente opposte al mondo della musica classica), ed una scarsa
propensione a metterle in discussione.
Sarà
pertanto utile, vista la premessa, rifarci ad una fonte terza ed
estremamente attendibile, sulla quale, si spera, le pregiudiziali
concordino positivamente. Dice, il vocabolario Treccani, alla voce
evento: “Avvenimento,
caso, fatto che è avvenuto o che potrà avvenire.”. Ed è proprio
sulla connotazione casuale dell'evento che vorrei incentrare questa
breve riflessione.
Prestate
attenzione: ormai da tempo immemore vengono definiti eventi
concerti che di ignoto – di affidato al caso, cioè – non hanno
nulla, essendone risaputo ogni dettaglio, vezzo e tempistica. Molto
spesso si configurano persino come riti stagionali od annuali,
similmente ad una festa nazionale o religiosa.
Non
c'è quindi dubbio che, quello di Arluno, piccolo comune alle porte
di Milano, sia stato un vero e proprio evento (quanto meno per i miei standards): vuoi per l'assoluta
non-conformità della proposta vuoi per
l'incognita meteo (la minaccia di precipitazioni forti ha tenuto
il concerto in forse fino all'ultimo). Senza poi dimenticare quanto
il tempo influenzi il contributo di coloro che, all'insegna del
vado-non-vado, cioè della massima indecisione, si presentano con il
fare di chi, scettico, assiste alla messa per mera curiosità (non
dimentichiamo che la resa di un concerto, di ogni
concerto che voglia dirsi tale, dipende sempre dal fattore
relazionale artista-pubblico).
Introdotti
– si fa per dire – da un trio di metallari scassati alla
Mötorhead la cui performance ha sortito il solo effetto di
raddoppiare la vendita delle salamelle allo stand gastronomico
della manifestazione, i nostri si sono presentati ad un'ora nella
quale, normalmente, il vostro umile estensore già sta dormendo con i
vestiti di casa indosso, e quindi la reattività risulta azzerata.
A
risvegliarlo ci hanno pensato i cinque minuti di rumore a volume
crescente (fade-in) a introduzione del concerto, somministrati
al fine di saturare l'udito prima dell'esplosione ultra-digital,
protratta per l'intera serata.
Era
da tempo che non assistevo ad una performance
così vitale, energica, fuori dai canoni odierni e davvero
a tutto volume. Atari Teenage Riot, compagine tedesca definita da
Trent Reznor come una delle sue principali fonti d'ispirazione, offre, dal
vivo, la messa in scena più situazionista dell'attuale panorama
musicale, dove istanze politiche tendenzialmente anarcoidi,
elaborazione del suono, eclettismo stilistico, attitudine rock
'n roll ed una buona dose di
nevrosi confluiscono in una miscela detonante ad altissimo potenziale
adrenalinico. L'equivalente di un'onda d'urto da fissione nucleare.
Il suono, potentissimo e mai distorto per l'intera durata
dell'esibizione, di gran lunga superiore a quello offerto dai
lucrosissimi ingressi di nomi ben più noti, sposato a luci minimali
e ad un impianto visivo di immagini astratte e glitch,
ha non poco contribuito alla resa del concerto: un'ora e mezza
abbondante di miscela techno,
trance, hardcore,
inserti dance e
industrial a fare da
sfondo agli slogans
genuinamente no-global
e black-block delle
voci (mai termine fu più appropriato) di Alec Empire e Nic Endo, e
ai missaggi folli di un DJ non meglio definito che potrebbe
benissimo dare ripetizioni a David Guetta già questo pomeriggio).
Ad
occupare la scaletta, quasi tutti brani tratti dagli ultimi due
lavori del trio, Is This Hyperreal?
e Reset, dischi che,
pur non situandosi alle vette dell'ormai ventenne 60-second
Wipeout (forse il capolavoro del
gruppo), ugualmente danno prova di una spinta creativa ancora
genuinamente energica, giovanile, cosciente dei temi di vera
rilevanza di questi nostri giorni, con un fare sovente canzonatorio
dove l'imminenza di una potenziale minaccia per la società tutta è
resa con ritmi da discoteca delle Baleari.
Si
può ben dire che, quella di Atari Teenage Riot, è canzone di
protesta (sì, avete capito bene: alla Bob Dylan, per intenderci), ma
con il deejay-set al
posto della fottuta chitarra con armonica.
Insomma:
a 49 anni (!), come un verginello, ho assistito al mio primo concerto
senza, finalmente, l'ombra di una ballad,
senza strumenti tradizionali e senza pagare l'ingresso (l'evento era
gratutito).
Sono
tornato a casa sudato e galvanizzato come nemmeno in adolescenza.
Yeah.