venerdì 19 maggio 2017

Il Primo Uomo


Mi accorgo solo ora che, quest'anno, ricorre il trentesimo anniversario della scomparsa, tragica per portata culturale e per modalità, di Primo Levi.
Primo Levi ha rappresentato, per me, tra medie e superiori, la classica lettura obbligatoria respinta alla sua prima proposta ed adorata nella riscoperta in età adulta. Ad oggi posso affermare che i suoi libri sono stati, senza ombra di dubbio, quelli più belli, profondi, densi di significato ed iniziatici che abbia mai letto. Sono stati i libri che mi hanno permesso, poco più che ventenne, di scoprire ed amare altri libri, altri autori, altri scrittori. Hanno rappresentato l'incontro con il pensiero, il ragionamento, la formazione, la bella scrittura, lo stile. Ma, soprattutto: l'incontro con la parola usata con responsabilità.
Tutto ha avuto inizio con La Tregua, nell'edizione Einaudi di Se Questo è Un Uomo. Volevo vedere in prima persona cosa realmente celasse di così interessante questo scrittore che così spesso ritornava – incompreso da noi 'sbarbati' e frainteso dai professori - nelle lezioni di Italiano, sovente imbragato in presentazioni non in grado di accendere l'entusiasmo – necessario in ogni avventura d'apprendimento – in quei giovanissimi allievi quali noi eravamo (il Lager, la Shoa, la guerra contro il nazifascismo, ecc., esattamente quanto di meglio per fartene tenere a debita distanza). Lo ricordo ancora. Io che mi faccio coraggio (al tempo non ero per nulla abituato alla lettura). Mi rendo conto che il compito richiede un certo impegno. Comincio. L'urto è frontale. Hurbinek, l'incarnazione dell'orrore in terra che si fa pietà: pietà per un essere venuto al mondo con la sola, mostruosa funzione di simboleggiare una fine del tempo unica nella storia umana – e nella letteratura; pietà per la propria persona, cui è toccato registrare questa testimonianza. Pagine che ancora oggi pietrificano.
Mi persuado che questo Levi, le qualità, le ha davvero. Vado indietro di un passo: Se Questo è Un Uomo. La Storia Di Dieci Giorni. Mi ritrovo sconvolto. Nella mia esperienza di lettore, sono pagine ineguagliate. Credo nemmeno i grandi sceneggiatori hollywoodiani – che grandi, in molti casi, lo sono davvero - siano riusciti, in questi decenni, nelle tante produzioni dedicate vuoi allo sterminio vuoi all'apocalittico come genere (doom), a rendere la sensazione di totale annichilimento che quel solo capitolo del libro di Levi riversa sul lettore - al punto da lasciarlo completamente disarmato, perso tra l'orrore e la sua bellissima descrizione.
Non riesco sinceramente a ricordare la sequenza esatta con la quale ho percorso l'opera di Primo Levi. Rammento solo di avervi incontrato tutti – dico 'tutti' – i temi che un giovane post-adolescente poteva trovare degni di trattazione - alcuni, come la dignità e la sanità del lavoro, assurti, oggi, allo status di profezia, fatti oggetto del libro d'esordio e, in maniera più specifica, ne La Chiave A Stella.
Ricordo bene, invece, di avere terminato questo viaggio con I Sommersi E I Salvati, che iniziai a leggere convinto che il signor Levi, seppur messi a bersaglio, i colpi li avesse già tutti esplosi. Se avete letto questo testo, in tutti i sensi 'ultimo', potete rendervi conto dell'effetto che può avere avuto su di un pivello con una simile, presuntuosa convinzione.
Primo Levi è stato un lavoratore dipendente fino al pensionamento, incaricato di una supervisione tecnica fondamentale e non facilmente surrogabile. Al tempo stesso, e cioè nel cosiddetto tempo libero, un intellettuale di riconosciuta statura, frequentatore attento ed ascoltato del fiore della cultura italiana del novecento. È riuscito, grazie ad una intelligenza non comune, ad eccellere su entrambi i fronti. Sono aspetti che, per quanto mi è dato più che sapere intuire, la scuola dell'obbligo non tratta, a favore di visioni cristallizzate e prive di vita, non in grado di stimolare nei giovani studenti l'attenzione grande che merita a ragion veduta e a pieni meriti.
Che poi la sua uscita di scena sia avvenuta per suicidio, ahimè, alimenta solo e proprio quelle leggende che egli stesso avrebbe deprecato.
Era un uomo, Primo Levi. Aveva cioè le stesse nostre debolezze e fragilità.

martedì 25 aprile 2017

Radio Ga_Ga


… Certo è che quanto segue non sarà utile al fine di procurarmi un colloquio di lavoro con i vertici redazionali di RTL 102.5. Anzi.

E poi, visti i contenuti di quella che alle statistiche risulta essere l'emittente radio più seguita d'Italia, si dubita persino che il suo apparato organizzativo disponga di una redazione o di altra unità facentesi carico di quanto fuoriesce dalle bocche a busta-paga dei suoi conduttori e dai banchi di regia.
RTL 102.5 non è solo “la radio numero uno d'Italia”, ma anche la più vista, grazie al gemello televisivo, in conseguenza di una multimedialità imperante ed irrinunciabile che obbliga la radio tutta - la radio intesa come media, appunto - ad essere visibile e televisibile.
È infatti difficile, di questi giorni, consumare qualsivoglia alimento o libagione senza imbattersi in un televisore acceso e sintonizzato su RTL 102.5 TV (canale 36 del digitale terrestre), che svariati esercizi – bar, gelaterie, pizzerie da asporto – ed altrettante attività dotate di sala d'aspetto somministrano alle rispettive clientele con orgoglio ed assoluta noncuranza.
Proviamo, allora, a ragionare.
Chi propone un simile prodotto internamente alla propria attività commerciale, nutre la convinzione di non solo offrire un intrattenimento efficace - e questo è probabile se si considera che i più, nella nostra nevroticissima società, abbisognano di un sottofondo costante da relegare a livello inconscio -; ma anche di comunicare al cliente od occasionale visitatore un'identificazione vuoi con l'attitudine psicologica del canale – incarnata dai suoi conduttori - vuoi con le scelte musicali trasmesse. Se si ha anche solo vagamente presente il tipo di programmazione giornaliera di RTL 102.5 TV, c'è da rabbrividire. Seguire anche solo pochi minuti di trasmissione significa, in questo contesto specifico, intraprendere un viaggio attraverso un mondo dove il senso estetico risulta fortemente mutilato – quando non completamente assente. Per non parlare della chiacchiera incessante (generata dal fatto non trascurabile che spesso le coppie di conduttori si intrattengono con battute riguardanti la loro briosa – e agli effetti insondabile - vita privata), del vuoto di senso, dei video tamarri e del catenaccio in costante scorrimento di improbabili sms sentimental-fanatici.
Ma la cosa interessante è che quasi sempre, tra gli astanti, l'unico visibilmente inebetito dai videoclips di RTL 102.5 TV sono io. Lo dico a seguito di attenta osservazione: non mi sono mai trovato a seguire in video la musica che RTL 102.5 TV trasmette non-stop in compagnia di qualcuno. Non i coetanei, non i giovani, non i vecchi. Io solo. A voi l'ardua sentenza.
Personalmente trovo il successo di questa emittente semplicemente incantevole (sensazione che devono avere provato anche i suoi vertici, i quali, come neo-genitori galvanizzati – o delusi - dal primogenito, hanno pensato bene, in questi anni, di figliare, partorendo, in sequenza: Radio Zeta [l'italiana] e Radio Freccia [un omaggio al film di Luciano Ligabue]). Può permettersi l'emissione di qualsiasi proposta anche indegna di questo nome, nella certezza che, in ogni caso, essa verrà venerata dai fedelissimi - ed ignorata dai tantissimi che, nel mentre ne risultano indifferenti, non provano però fastidio ad assumerla come intrattenimento imposto (un po' come la musica, spaventosa, di supermercati e centri commerciali).
L'assenza di senso critico ha origine in tutta una serie di ragioni che vanno dal culturale in senso stretto allo psicologico in senso lato. Mancano sì i mezzi tecnici, conoscitivi, necessari alla formulazione di un giudizio, ma anche la predisposizione – l'attitudine – a sovvertire culturalmente lo stato delle cose per come sono a noi imposte. Sebastião Salgado, interrogato di recente per un consiglio; sorprendendo e forse anche deludendo molti sedicenti fotografi in trepidante attesa per un miracolo da parte del maestro brasiliano in grado di spianare loro una prosperosa carriera nella nona arte, ha risposto: “Se sei giovane ed hai tempo, vai a studiare … Studia per essere effettivamente in grado di capire cosa stai fotografando”. Inteso?
Sta di fatto che una fetta considerevole della popolazione italica accetta quotidianamente – ed acriticamente, direi – di essere intrattenuta da una simile proposta mediatica. Nulla di sorprendente: forse si tratta solo di quello stesso pubblico che Marco Morgan Castoldi, sebbene rivolto alla sua fascia tardo-adolescenziale, ha di recente definito “di Bimbimikia” (esternazione poco felice, viste le conseguenze per l'ex coach, ma sicuro molto divertente e, soprattutto, appropriata).
Avevano ragione Morrissey e i suoi The Smiths (altra manica di stronzi che, giunta ad insolvenza con i rispettivi mutui, questo luglio ci propinerà l'ennesima reunion): “Impiccate i benedetti DJ / Perché la musica che mettono senza sosta / Non dice nulla della mia vita”. (Hang the blessed DJ / Because the music that they constantly play / It tells nothing to me about my life). La canzone era Panic. L'anno il 1986.
Il prossimo caffè me lo bevo a casa.

sabato 8 aprile 2017

La Lingua Salmistrata


Ieri sera mia figlia ha affrontato un bis di zucchine trifolate al grido di “oh, delicious!”, frutto – spero – delle nostre tante, lunghe passeggiate con commento fuori campo in Inglese, e delle prime lezioni a scuola in questo comparto.
Nei giorni passati, invece, il Guardian ha dato notizia della lettera con la quale il Regno Unito (unito per quanto ancora?) ha comunicato a Bruxelles la propria uscita dall'Unione Europea. Per la testata di Kings Cross si tratta di un passo nel vuoto (“... the UK steps into the unknown.”). E se a dirlo è il Guardian, noi europei faremmo bene a credervi: gli inglesi a riflettere, con il senno di poi, sul voto che ha deciso la Brexit.
Ho realizzato con grande amarezza che quello che per me è stato un gesto d'amore (impossibile, difatti, apprendere decentemente la lingua di qualsivoglia popolo per il quale non si nutra rispetto ed ammirazione); se la vita non la dirotterà linguisticamente altrove, per mia figlia l'Inglese sarà un amore non corrisposto. Si troverà cioè a parlare, magari anche fluentemente, la lingua di un popolo che, sotto sotto, di avere a che fare con gente del Sud-Europa, quale lei è a tutti gli effetti, non ne vorrà sapere. Giudizio drastico? Certo. Come tutti quelli facenti seguito alla fine di un rapporto.
La Svezia, dal canto suo, ha di recente dato vita ad un programma per la diffusione capillare della lingua nazionale presso le comunità straniere ospiti sul territorio, convinta dai propri esperti del settore che, non facendo così, fra trent'anni lo Svedese è a rischio di non figurare più come lingua nazionale (!!). Con le dovute forzature, gli eventi che hanno avuto luogo nel centro di Stoccolma, ieri, venerdì 7 aprile, possono rientrare in questo discorso. Buona fortuna anche agli svedesi, quindi.
E noi?
Mi capita spesso, durante le trasferte in macchina, di cercare conforto nell'ascolto di stazioni radio, e di imbattermi così nel blaterare di conduttori alle dipendenze di emittenti con indici di ascolto di tutto rispetto su scala nazionale. Per chiedere nome e cognome ai radioascoltatori intervenuti in diretta – ad esempio – non si chiedono più le generalità o gli estremi: “Dacci le tue coordinate: ti faremo avere il premio.” (Radio Freccia). A.d.C., Ascoltatori della Cassetta (sic), non è una sigla, bensì “un aforisma” (Radio Deejay). In love with you viene tradotto nella nostra lingua in in amore con te, come un gatto (Radio Capital). Sbagliate il titolo di una canzone di Emma Marrone, e la vostra stazione radiofonica verrà tempestata di telefonate di protesta con correzione annessa. Non uno però che faccia altrettanto con strafalcioni e fandonie varie. La stragrande maggioranza dei canali radio si appoggia sul cosiddetto vocabolario basic (600 parole) e sul suo tracotante utilizzo. Una totale assenza di vergogna. È possibile assistere a monologhi di intrattenimento – da parte di persone che, si ricorda, vengono definiti 'professionisti della conduzione' – il cui contenuto – editoriale – è pari a zero. Zero assoluto. Completo svuotamento di significato e comunicazione. Un vero virtuoso in questo campo è sicuramente Nikki di Tropical Pizza. Sforzatevi, a titolo sperimentale, di parlare del nulla per dieci minuti abbondanti: vi renderete conto nell'immediato di quanto impegno richieda (ma se ciò vi viene facile, cominciate a preoccuparvi). Ribadisco: non si tratta, in questa sede, di mettere in discussione contenuti opinabili. Si tratta di denunciarne la totale assenza, ed il livello mostruoso di passività con la quale ciò viene entusiasticamente accettato dagli ascoltatori.
È sempre più frequente, inoltre, il dover fronteggiare gli sguardi stupiti, quando non disgustati o – peggio – accondiscendenti, di chi vi sente impiegare un termine che si reputa appropriato, forbito o no che sia. (A me è capitato di recente all'utilizzo di 'turpiloquio'. No comment.). È la fetta, abbondantissima, di popolazione la cui risposta ad ogni interrogativo è la frase fatta parla-come-mangi, o con-parole-tue. Vere e proprie provocazioni in grado di riaccendere l'aggressività intraspecifica in qualunque essere civilizzato.
Insomma, aveva ragione Nanni Moretti (e qui, molti tra voi lettori di questo blog mi daranno del sinistroide o del comunista, ma questo dice più su di voi che su di me): “Chi parla male, pensa male e vive male”.
I segnali provenienti dai tempi che ci tocca vivere non sono rassicuranti.
Personalmente non demorderò dal somministrare alla mia piccola creatura quanto di meglio questa nostra lingua madre è stata in grado di produrre.
Costi quel che costi.

lunedì 20 febbraio 2017

Eroi Dei Nostri Tempi


Premetto che non è mia intenzione discutere di Sully e Snowden da un punto di vista cinematografico – sebbene entrambe le pellicole offrano parecchia carne al fuoco.
È interessante che due grandi narratori di storie americane, quali Eastwood e Stone, nello stesso momento storico (le primarie, il tracollo del partito democratico, l'elezione di Trump), abbiano scelto, a soggetto delle rispettive produzioni, due vicende accomunate da aspetti che vanno dalla moralità al coraggio; dal confronto con la paura a quello con se stessi; dalla professionalità all'etica di questa; dal mito dell'eroe solitario alla sofferenza del gesto eroico. Ma soprattutto: dallo straordinario senso della responsabilità dei loro protagonisti.
La retrodatazione delle due vicende può anch'essa essere vista come tratto di comunanza. Del 2009 l'ammaraggio del volo US 1549; del 2013 le rivelazioni del Guardian. Gli estremi del primo mandato Obama.
In un moderno e politicamente connotato gioco delle parti, l'allora neo-eletto presidente riservò a Chesley 'Sully' Sullenberger un trattamento da eroe (la tribuna d'onore alla cerimonia di insediamento), proprio nel mentre l'agenzia statunitense per la sicurezza del volo (NTSB), in un'indagine dovuta, ne sottoponeva a verifica l'affidabilità in maniera a dir poco insinuante. A fine-mandato, e alla ricerca della rielezione, gli toccò invece dare della spia a tale Edward Snowden, caricarlo in toto di una responsabilità che la sua amministrazione, poco credibilmente, disconosceva (ricordate la battuta mi-sa-che-mi-sono-fidato-dele-persone-sbagliate, da Fahrenheit 911?), e con l'agenzia per la sicurezza nazionale (NSA) silente in quanto gabbata dal giovane – ed intelligentissimo – tecnico informatico.
Sully è una visione edificante, un film dove la tecnica cinematografica è integralmente al servizio dell'espressività, del dramma umano che Chesley Sullenberger si trova a vivere alla soglia della pensione, investito da un'emergenza ignota al settore; il dramma di un uomo sano, solido, responsabile, di fronte all'ignoto – appunto -, al non-conosciuto. Anche l'integrale dell'ammaraggio, magistralmente ricostruito in digitale, non indugia, temporalmente e personalmente, su aspetti sensazionali – quali potrebbero essere le reali, effettive reazioni dei passeggeri che, diversamente da 'Sully', non realizzarono quanto stava per accadere loro fino all'impatto con lo Hudson. Montata in tempo reale, è funzionale alla comprensione da parte dello spettatore dell'immensità di ogni dramma necessario alla comparsa di un eroe, e del prezzo da pagare per diventarlo. La narrazione non si incentra sul gesto - indiscutibilmente eroico - dell'optare per un ammaraggio e del realizzarlo. La storia di Sully è quella di un uomo che deve giustificare, nell'ansia che segue ogni tragedia attraversata, la propria scelta eroica. L'eroe conclamato è visto nella difficoltà, nudo. È seguito dalla telecamera nel mentre paga il prezzo dell'eroismo, come un uomo qualunque. Come tutti. Tom Hanks interpreta la sofferenza dell'eroe in maniera sempre equilibrata, davvero eccellente.
Il parallelo con Snowden - lontano dalla pensione, giovane, promettente, in carriera, dotatissimo, patriota ed innamorato – è il confronto con un ignoto del quale il protagonista scopre di essere non spettatore, bensì parte integrante, funzionale ad un sistema di schedatura che concresce autonomamente, svincolato da ogni controllo giurisdizionale. Avevo promesso di mantenermi a distanza dalla critica cinematografica, ma mi risulta impossibile non parlare di quel movimento di camera, nel finale, che, transitando dietro allo schermo del computer portatile fa scomparire Joseph Gordon-Levitt rivelando allo spettatore il volto di Edward Snowden in carne ed ossa. Vale l'intero film, e lo dico senza cattiveria. Un momento di grandissimo, commovente cinema civile americano in grado di donare una speranza ed una forza che, personalmente, avevo dimenticate.
In comune vi è sicuramente l'aspetto della responsabilità, intesa nelle due pellicole nelle sua accezione più nobile: non tanto il portare a compimento un impegno assunto quanto l'accettazione delle sue conseguenze. L'indagine ministeriale per 'Sully', l'esilio forzato per Snowden.
Qui non si tratta di raccontare come va a finire. Si tratta di provare a capire perché due grandi, affermati registi, connazionali, abbiano simultaneamente avvertito l'esigenza di narrare vicende solo apparentemente diverse e distanti. Il bisogno dell'eroe – da non confondersi con il nostrano, ciclico bisogno dell''uomo forte' – denota l'assenza, nelle sfere decisionali, di persone capaci di assumersi responsabilità vere. Capaci di scegliere (impossibile, qui, non citare quello scrittore dal cuore grande come l'America che è stato David Foster Wallace, con le sue bellissime riflessioni sulle “[..] cause che travalicano l'interesse personale [...]”, quando ebbe a scrivere sulla campagna di John McCain). La critica è sicuramente rivolta alle facce che popolano un certo stabile di Pensylvania Avenue, a Washington DC. E a casa nostra? Riuscite davvero, in questo contesto, a non pensare a Virginia Raggi? Io no. Ho sostenuto, moralmente, la sua candidatura. Una donna, giovane, a capo della città più problematica e grande d'Italia. L'opportunità di finalmente mostrare la forza di decisioni controcorrente, prese con cognizione di causa (quanto Snowden e Sully hanno fatto rispettivamente). E se funziona a Roma è probabile che l'esempio sia replicabile altrove. Ebbene, mi sento, oggi, come chi ha acquistato un'auto rotta pagandola come nuova. Non dubito del carico gravosissimo che questa persona si è trovata sulle spalle, e che curverebbe chiunque al suo posto. Ma questo è l'impegno che lei e i Cinque Stelle hanno scientemente voluto assumersi. Questa responsabilità è stata chiesta a gran voce da lei e dalla compagine che l'ha sostenuta. Forse Virginia Raggi dovrebbe andare un po' più al cinema e un po' meno in riunione con Beppe Grillo. Scoprirebbe di persone in grado di prendere decisioni vitali in 208 secondi (!), e dell'esistenza di giovani brillanti e promettenti, esattamente come lei, disposti a rinunciare ad “una vita normale, un buono stipendio, carriera, famiglia”, semplicemente per fare 'la cosa giusta'. E che tutta quella merda trovata a Roma, insomma, è roba risolvibile, consente una reazione - senza, tra l'altro, il rischio di finire nel Tevere con l'intera giunta al seguito, o sottoposto a waterboarding in uno scantinato a Il Cairo. Questo immobilismo, ormai lungo un semestre, non consente giustificazioni. Con la sua gestione capitolina, incessantemente sbandierata – e qui mi rivolgo al movimento, più che alla persona -, non si è riusciti nemmeno nel fare 'la cosa sbagliata'. Siamo all'inazione, alla paralisi decisionale. L'esatto opposto di Chesley Sullenberger ed Edward Snowden.
È di queste ore la notizia della piena disponibilità della giunta Raggi alla costruzione di un nuovo stadio. È come se Chesley Sullenberger avesse optato per un rientro al più vicino aeroporto, replicando ottusamente quanto praticato in simulazione. E Edward Snowden avesse proseguito indifferente nell'attività comandatagli, perché, dopotutto, per citare il connazionale medio, “io faccio solo quello che mi dicono di fare”: vivremmo in un mondo totalmente privo di fiducia nel prossimo, e senza alcuna speranza.
Grazie a questi eroi, il farsi di tale apocalittica prospettiva è rimandato ancora per un po'.

lunedì 30 gennaio 2017

Storia Di Due Brani


Qualche mese fa, Gisella Congia, psicologa, fotografa, documentarista, mente ed anima della realtà social e territoriale Il Club Dei Genitori, ha chiesto se volevo apportare un contributo al loro nuovo progetto, per mezzo di musiche originali. Quanto ha fatto seguito alla risposta, può essere ascoltato qui di seguito.

LENA'S SONG

BRAD
Effettuata in una fredda mattina d'autunno, la sessione di registrazione è stata affrontata dal Vs. umile estensore con il fardello assai pesante di un'intera notte in bianco, gentilmente offerta dalla prole. Dico ciò con l'intenzione non di conferire a questa prova tratti eroici che non può né deve avere; bensì con quella di confermare quanto già evidenziato nelle belle interviste di Gisella Congia sulla figura e sul ruolo paterni. E cioè che la loro assunzione responsabile [di ruolo e figura, n.d.r.] può avvenire solo al prezzo di un cambiamento (vedi alla voce 'sconquasso') che origini dal quotidiano di chi tale scelta decide di compiere.
Suonare non è un mestiere facile. Pretendere di farlo in totale assenza di sonno, e con il carico di quelle azioni di accudimento che caratterizza le notti insonni di tutti i genitori, può avere conseguenze devastanti. La famosa figuradimmerda, per intenderci. Fortuna vuole che a a registrare questi due brevi pezzi vi fosse Vittore Savoini, session man del basso, musicista di grande esperienza e mestiere. Grazie a lui, gli innumerevoli colpi di sonno che hanno caratterizzato le tre ore rese necessarie da sveglia-takes-masterizzazione, sono spariti come d'incanto, unitamente al loro carico di imperfezioni tecniche.
Lena's Song mi è uscita dalle mani – guarda un po' – il giorno quando venni a sapere che sarei divenuto padre di una bambina. Brad è stato invece ispirato dalla figura – immensa – del pianista statunitense Brad Mehldau, e dalla sua mostruosa capacità di improvvisare su strutture ostinate. Entrambi sono stati eseguiti su di una chitarra classica.
Un grazie speciale a mia moglie Francesca: oltre ad avere procurato questo 'ingaggio', e a scuotermi dal bradipismo, mi ha dato quanto di più bello ho nella vita: la nostra piccola. Ti amo.
Questo lavoro, del quale sono davvero soddisfatto, lo voglio dedicare a tutti quei genitori i cui immensi sforzi quotidiani sono devoluti alla crescita di figli psicologicamente sani, alla formazione di persone decenti.
A tutti gli altri, la cui inazione è causa dell'orrore verificabile quotidianamente in contesti come: scuola; luoghi di aggregazione; luoghi pubblici; a loro dedico le parole che il grande Leo Longanesi ebbe a dire in tempi non sospetti: “Sulla bandiera dell'italiano medio sta scritto: 'Tengo famiglia'.”.
Lo so: sono cattivo ed astioso.
Ma ho anche dei difetti.

lunedì 5 dicembre 2016

Un Amore Al Rallentatore

Konrad Lorenz sosteneva che, qualità distintiva dell'essere umano, è la riflessione.
A questo ho pensato, sere fa, rincoglionito da uno zapping di fine-giornata, bello spaparanzato sul divano di casa. Mi becco questa pubblicità interna all'emittente su non so quale nuova proposta serale. Arriva diretta come lo Shinkansen Tokyo-Osaka, montata visivamente e testualmente ad una velocità strabiliante, roba al cui confronto David Fincher sembra Ingmar Bergman. Termina, ed io non ho minimamente afferrato il “consiglio per gli acquisti”, essendomi perso nello sforzo inatteso, dettato dal super editing. Beh, certo che qui, di spazio per riflettere, non ne hanno destinato molto. Errore o strategia? Eppure la generazione cui mi è toccato appartenere è quella di Blob – Di Tutto Di Più, la prima, dopo la grande rivoluzione televisiva degli anni '50 e '60, ad avere spontaneamente appreso il linguaggio del 'montato', similmente a come oggi i giovani si appropriano in identica maniera dei linguaggi informatici e cibernetici, postumi alla ultra-veloce rivoluzione digitale. Vero anche che, per gli odierni criteri di valutazione, quelli come me son considerati 'matusa' da un po', e quindi deputati, per anagrafe, a non capire più un cazzo. Di inetti che non sanno quel che fanno, è pieno il mondo. Ma se così non fosse, e si trattasse, invece, di una scelta comunicativa? A quale specie – o subspecie – di persona è primariamente indirizzato un simile messaggio? La mia tesi, semplicistica, è che una massa non istruita a riflettere si assoggetta meglio al subliminale, stile videoclip.
Ma ecco le mie accucciate, fedeli sinapsi condurre, con altrettanta velocità, ad un'altra figura: P.T. Anderson. Mi viene facile, e spontaneo, parlare del cinema di Paul Thomas Anderson. È facile quando sei completamente all'asciutto da ogni bagno ideologico intellettual-sovrastrutturale (non ho mai studiato cinema). È facile se ti senti appassionato dalle sue realizzazioni per il grande – e piccolo - schermo. È facile quando, autodidatta, ti trovi a parlare di figure con identico tuo retroterra. Lungi da me il voler anche solo alludere a comunanze di qualsivoglia specie con il regista californiano. Al posto della scuola di cinema, il giovane Paul Thomas scelse di imbucarsi negli innumerevoli sets che, negli anni '80, impiegavano quasi ogni abitazione libera della nativa Studio City. Il vostro umile estensore fece lo stesso con la musica, imbucandosi similmente, e proprio negli stessi anni del suo paladino cinematografico, nelle sale-prova che sorgevano ovunque vi si trovasse un locale sfitto. È un po' come avere svolto insieme il servizio di leva. Questo, in parole povere, il comune retroterra.
Sono reduce dalla visione dei due ultimi videoclips che Anderson ha girato per la band Radiohead, Present Tense e The Numbers. Una visione minimale non solo per la formazione ridotta (si tratta di esecuzioni dal vivo per chitarre, voce e drum-machine con i soli Thom Yorke e Johnny Greenwood – quest'ultimo, autore, per il regista californiano, di due colonne sonore): minimale per concedere a queste intensissime esecuzioni il giusto spazio ed il giusto respiro. Tecnicamente si tratta di gesti cinematografici che tutti potremmo compiere, a patto di metterci dell'impegno. Ambientazione in esterna; piano-sequenza; qualche stretta in primo piano. Nulla di trascendentale. Non è Magnolia, okey? Perché, allora, cotanto regista minimalizza il proprio intervento fino al confine della sparizione (tra l'altro, tema, quest'ultimo, non indifferente agli artisti in questione)? Si dice spesso – la tesi è interessante – che i poeti, più di ogni altro, sono in grado di sentire, leggere la realtà, il 'presente'. Personalmente sono convinto che i grandi registi, tutti, muovano inconsapevolmente da questa qualità. Lettura ed intravisione. Che le loro opere, cioè, abbiano, fra i tanti aspetti, la capacità di fornire al fruitore un punto della situazione ove risulta possibile relazionarsi all'opera e al suo messaggio. Non mi sembra per nulla utile, a questo punto, tentare una risposta. Molto più interessante la domanda: il 'perché' un gigante del cinema come Anderson rinunci al virtuosismo, proprio nella forma che maggiormente lo induce – cioè il videoclip. L'opera intera di Paul Thomas Anderson, fino a The Master (Inherent Vice, Vizio di Forma, non fa testo, in quanto tipica commedia brillante e leggera che segue ad un capolavoro), presenta un graduale rallentamento del montaggio, funzionale ad una narrazione cinematografica più profonda e dettagliata. Morale? Il cerchio si è chiuso. In un mondo che ha fatto della velocità uno status symbol, se ci si vuole differenziare, e così preservare una propria dignità, è necessario adottare un parlato che esso stesso sia diverso (mai sentito Low e The XX?).

A chiudere, una scoreggia trattenuta per troppo tempo. La band perfetta per David Bowie – la band ideale – sono stati i Nine Inch Nails (vedi, Dissonance 1995/96).
Meditate, gente. Meditate.

venerdì 25 novembre 2016

Regretting Motherhood (Il Rimpianto Materno)

Faccio fronte a quello che spero sia un momentaneo blocco dello scrittore, ospitando un articolo bello e intressante, scritto da Francesca G. Camisa, psicologa psicoterapeuta.

Si tratta di un argomento duro da affrontare, sicuramente controcorrente.

Una posizione che, in questa giornata speciale dedicata un grande problema dell'essere donna, acquista un rilievo particolarissimo.

Un punto di vista nuovo, meritevole di una lettura attenta.

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SE SOLO POTESSI TORNARE INDIETRO .. NON DIVENTEREI MADRE”
Parto da quel concetto che considera l'amore materno circolare, come fosse una sfera. La perfezione, in una sola parola. Può accadere di vivere la gravidanza come una bolla che ci “ingloba” e ci contiene al suo interno facendoci sentire tutt'uno col nostro grembo, fagocitate dal “dentro” e indistinte dal “fuori”, attraverso un legame inequivocabile con la nostra creatura. “Come sarà quest'avventura? Cosa mi attende di qui a breve?” Sono le domande senza risposta che una quasi-mamma si pone in silenzio, per riscoprire il senso di questi interrogativi giorno dopo giorno grazie al legame imprescindibile che va prendendo forma col figlio, dove la riscoperta della vita fa rinascere emozioni. E' lo stupore continuo, inaspettato: ricordo l'espressione rapita della mia bambina durante il racconto della sua prima Cenerentola (un libro quasi storico e fuori produzione che lei ha ereditato da me). Attraverso la fiaba e la sua narrazione, la mia infanzia più bella riaffiorava e diventava sguardo nel suo sguardo, che mi restituiva colmo di nuovi significati (il Vecchio che fa nascere il Nuovo). I figli sono come le rose, mai senza spine aggiungo. Accompagnarli e guidarli nella loro crescita è un percorso complesso e accidentato. Così mi chiedo: è sufficiente un SÌ convinto proveniente dal nostro mondo interno quando decidiamo di dare la vita per farci diventare madri ipso facto? O diventare mamma è una conquista necessaria per potersi poi prendere cura delle nostre creature? Talvolta il SÌ diventa un FORSE, che sfocerà nel DOPO e che si potrebbe trasformare in un MAI. Orna Donath, Sociologa e Ricercatrice dell'Università di Tel Aviv nel suo saggio Regretting Motherhood, divenuto anche libro tradotto in diverse lingue va oltre per raccontarci del così detto MAI PIÚ NELLA VITA, ossia il rimpianto materno. Donne divenute madri di più figli e persino nonne che, guardando alla loro esperienza materna la definiscono attraverso il pentimento ed il rimorso (“se tornassi indietro sapendo quello che so oggi deciderei di non avere mai e poi mai figli”). Attraverso le 23 interviste realizzate con donne tra i 20 ed i 70 anni, la Donath si addentra nel materno utilizzando un concetto chiave: ambivalenza. Essa è il sentimento fondativo della maternità, il materno è ambivalenza. Si crea un'equazione perfetta tra le due che include oscillazioni tra amore e risentimento, il rancore ed il senso di colpa opposti alla tenerezza, la frustrazione che fa breccia tra la gioia. Per la Donath il rimpianto dell'esperienza materna può giungere al punto limite: il sentimento d'inadeguatezza e di ambivalenza, il rifiuto di un ruolo sociale imposto fatto di aspettative eccelse donano sfumature inedite alla maternità ed alla genitorialità, così da farle virare verso il cupo, oltre le ombre che ben conosciamo .. . Il “peso” dell'essere madre è eccessivo, nell'accezione dell'insieme di responsabilità quotidiane e di una cura esclusiva dei figli affidata ad uno solo dei genitori: la mamma. Dalla ricerca della Donath emerge come sia possibile “amare i propri figli incondizionatamente” ma rimpiangere l'esperienza materna in sé, in quanto foriera di disagi ed infelicità non previsti; la maternità, come ogni altra esperienza porta l'impronta della soggettività e della personalizzazione. Qui, la donna è portatrice di sentimenti e bisogni che s'intrecciano al suo ruolo, al suo contesto sociale e religioso, alla sua etnia di provenienza. Possiamo notare la tendenza da tempo (sopratutto nella società italiana) ad appiattire l'identità femminile su di quella materna allo scopo di ottenere coincidenza perfetta che non considera invece la maternità come esperienza in divenire e alquanto fragile, imperfetta (la buona madre tutta-mamma e solo mamma, dove l'identità di donna si annulla per far posto a quella di madre). Scopriamo così che il rimpianto unisce il passato al presente e al “desiderabile”. Il nostro contesto sociale è culturale, ideologico e cattolico, pretende di stabilire quali emozioni siano ritenute appropriate rispetto al ruolo materno. C'è qui una divaricazione evidente tra codice femminile e codice materno. Il primo ha subito un'evoluzione: la donna dipendente, fragile, incapace di autonomia economica e sociale, costretta a gravitare nella sfera maschile alla ricerca di sicurezza e protezione per sé ed i suoi figli ha lasciato il posto alla consapevolezza individuale, all'indipendenza finanziaria e ad un ruolo sociale forte, oltre ad una relazione di coppia paritetica fatta di libertà di scelte (sulla maternità, il divorzio, la professione). E il codice materno? È rimasto identico al passato: tradizionale, romantico, assoluto, soccorrevole e statico. Colei che non si adegua ad esso sarà identificata come una cattiva mamma. E' la madre che si occupa dei figli: il vuoto sociale (dovuto alla mancanza di servizi per l'infanzia e l'adolescenza), il disinteresse politico che considera i figli un prolungamento materno invece che soggetti con diritti e doveri sui quali investire amplificano e alimentano sentimenti che nutrono l'ambivalenza materna. Essa si alterna di continuo tra amore e odio e diventa esperienza dinamica di conflitto. Questo ci riporta alla ricerca sociologica di Regretting motherhood: le madri pentite, così come le non madri per scelta si ritrovano ad avere a che fare con norme sociali che le considerano al di fuori del sistema normativo. Il sentimento di esclusione (e della non appartenenza) grava sulla loro coscienza e trasforma a livello fantasmatico il futuro bambino come Altro-da-Sé minaccioso, da temere. Se la paura della non appartenenza sfocia nella scelta di una maternità, quest'ultima verrà vissuta forse come transizione automatica ed irriflessiva, confusa. La conseguente negazione del ruolo di mamma e del percorso intrapreso per diventarlo è una mera conseguenza così come il desiderio di cancellare “idealmente” l'esperienza materna vissuta. Anche la clinica della fecondazione assistita e le esperienze di depressione e di ansia invalidante a partire dalla gravidanza fino al periodo del post partum evidenziano il fatto che il codice femminile non è più al servizio di quello materno dal quale ha preso le distanze. Non mancano così le versioni patologiche opposte alla maternità, che testimoniano in altro modo la difficoltà a costruire il nostro percorso di madri, fatto di simboli, di presenza ma anche assenza e separazione necessarie. Esistono oggi madri ipermoderne, concentrate in maniera univoca su di sé e sui propri bisogni, incapaci di decentrarsi rispetto al figlio ritenuto una sorta di traino che non dev'essere d'ingombro, per non rischiare di guastare la propria immagine narcisistica (la madre narcisista, appunto). Un'altra versione corrisponde alla mamma-coccodrillo, indistinta dal figlio, presa da un rapporto con lui di sola fusione e appartenenza reciproca ideale, influenzato dal fantasma dell'onnipotenza.
Il desiderio materno se trasceso nel figlio lo aiuta ad acquisire il desiderio della vita, un desiderio unico nel suo genere, grazie ad una madre che riconosce il figlio come tale. La mamma ideale è tramontata? Forse sì. Se iniziassimo a dare spazio a quest'idea potremmo incominciare ad elaborare la sofferenza della perdita, e consentire a queste verità nuove di farsi strada dentro di noi.

Dott.ssa Francesca G. Camìsa


BIBLIOGRAFIA
O. Donath, Regretting Motherhood: a Sociopolitical Analysis, University of Chicago, 2014.
M. Recalcati, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno. LaFeltrinelli Editore, 2015.

E. Rosci, estratto da La maternità può attendere, Mondadori Editore, 2013, intervista all'autrice sul “Corriere della sera – la 24esima ora” del 11/05/2013.