Ieri sera mia figlia ha affrontato un
bis di zucchine trifolate al grido di “oh, delicious!”,
frutto – spero – delle nostre tante, lunghe passeggiate con
commento fuori campo in Inglese, e delle prime lezioni a scuola in
questo comparto.
Nei giorni passati, invece, il
Guardian ha dato notizia della lettera con la quale il Regno
Unito (unito per quanto ancora?) ha comunicato a Bruxelles la propria
uscita dall'Unione Europea. Per la testata di Kings Cross si tratta
di un passo nel vuoto (“... the UK steps into the unknown.”).
E se a dirlo è il Guardian, noi europei faremmo bene a
credervi: gli inglesi a riflettere, con il senno di poi, sul voto che
ha deciso la Brexit.
Ho realizzato con grande amarezza che
quello che per me è stato un gesto d'amore (impossibile, difatti,
apprendere decentemente la lingua di qualsivoglia popolo per il quale
non si nutra rispetto ed ammirazione); se la vita non la dirotterà
linguisticamente altrove, per mia figlia l'Inglese sarà un amore non
corrisposto. Si troverà cioè a parlare, magari anche fluentemente,
la lingua di un popolo che, sotto sotto, di avere a che fare con
gente del Sud-Europa, quale lei è a tutti gli effetti, non ne vorrà
sapere. Giudizio drastico? Certo. Come tutti quelli facenti seguito
alla fine di un rapporto.
La Svezia, dal canto suo, ha di
recente dato vita ad un programma per la diffusione capillare della
lingua nazionale presso le comunità straniere ospiti sul territorio,
convinta dai propri esperti del settore che, non facendo così, fra
trent'anni lo Svedese è a rischio di non figurare più come lingua
nazionale (!!). Con le dovute forzature, gli eventi che hanno avuto
luogo nel centro di Stoccolma, ieri, venerdì 7 aprile, possono
rientrare in questo discorso. Buona fortuna anche agli svedesi,
quindi.
E noi?
Mi capita spesso, durante le
trasferte in macchina, di cercare conforto nell'ascolto di stazioni
radio, e di imbattermi così nel blaterare di conduttori alle
dipendenze di emittenti con indici di ascolto di tutto rispetto su
scala nazionale. Per chiedere nome e cognome ai radioascoltatori
intervenuti in diretta – ad esempio – non si chiedono più le
generalità o gli estremi: “Dacci le tue coordinate: ti faremo
avere il premio.” (Radio Freccia). A.d.C., Ascoltatori della
Cassetta (sic), non è una sigla, bensì “un aforisma”
(Radio Deejay). In love with you viene tradotto nella nostra
lingua in in amore con te, come un gatto (Radio Capital).
Sbagliate il titolo di una canzone di Emma Marrone, e la vostra
stazione radiofonica verrà tempestata di telefonate di protesta con
correzione annessa. Non uno però che faccia altrettanto con
strafalcioni e fandonie varie. La stragrande maggioranza dei canali
radio si appoggia sul cosiddetto vocabolario basic (600
parole) e sul suo tracotante utilizzo. Una totale assenza di
vergogna. È possibile assistere a monologhi di intrattenimento –
da parte di persone che, si ricorda, vengono definiti 'professionisti
della conduzione' – il cui contenuto – editoriale – è pari a
zero. Zero assoluto. Completo svuotamento di significato e
comunicazione. Un vero virtuoso in questo campo è sicuramente Nikki
di Tropical Pizza. Sforzatevi, a titolo sperimentale, di parlare del
nulla per dieci minuti abbondanti: vi renderete conto nell'immediato
di quanto impegno richieda (ma se ciò vi viene facile, cominciate a
preoccuparvi). Ribadisco: non si tratta, in questa sede, di mettere
in discussione contenuti opinabili. Si tratta di denunciarne la
totale assenza, ed il livello mostruoso di passività con la quale
ciò viene entusiasticamente accettato dagli ascoltatori.
È sempre più frequente, inoltre, il
dover fronteggiare gli sguardi stupiti, quando non disgustati o –
peggio – accondiscendenti, di chi vi sente impiegare un termine che
si reputa appropriato, forbito o no che sia. (A me è capitato di
recente all'utilizzo di 'turpiloquio'. No comment.). È la
fetta, abbondantissima, di popolazione la cui risposta ad ogni
interrogativo è la frase fatta parla-come-mangi, o
con-parole-tue. Vere e
proprie provocazioni in grado di riaccendere l'aggressività
intraspecifica in qualunque essere civilizzato.
Insomma,
aveva ragione Nanni Moretti (e qui, molti tra voi lettori di questo
blog mi daranno del
sinistroide o del comunista, ma questo dice più su di voi che su di
me): “Chi parla male, pensa male e vive male”.
I
segnali provenienti dai tempi che ci tocca vivere non sono
rassicuranti.
Personalmente
non demorderò dal somministrare alla mia piccola creatura quanto di
meglio questa nostra lingua madre è stata in grado di produrre.
Costi
quel che costi.