Mi ero già espresso
sul tema, parlando della radio. Ieri sera è capitato lo stesso con
la televisione.
La mia modesta
esperienza nel comparto della genitorialità ha condotto alle
seguente conclusione: con l'arrivo di un figlio, ha inizio un
rapporto tutto nuovo, ed obbligato, con la pratica nevrotica dello
zapping. Può sorprendere, ma il salto del canale, tanto
criticato dagli integralisti della 'tivù' (gente che il sabato
attende di veder comparire Baudo in prima serata), presenta dei
vantaggi come: l'affinamento del senso estetico di base (e
considerando che il campione medio della popolazione non ne possiede
affatto. . .).
È successo con Django
Unchained di Tarantino. Inizialmente l'ho alternato a Peppa Pig, per
i motivi sopra esposti. Poi, con frequenza disumana, a Che Bella Giornata,
Conan Il Barbaro, Sette Anime e Le Tre Rose Di Eva. Ti accorgi subito
– mi si perdoni l'ovvietà – della differenza nella fattura delle
immagini quando passi dai vari Cesaroni e Zaloni a produzioni di
livello cinematografico elevato. La qualità è superiore. Comprendi –
ma solo se lo vuoi – che il digitale terrestre, sostanzialmente,
nel menù ha merda mezzogiorno e sera. Non è una questione di
budget: è proprio il senso del bello che risulta accentuato
(mi torna in mente El Mariachi, dell'amico e compagno di
strada [di Tarantino, n.d.r.] Robert Rodriguez: la forma rende e
sorregge la narrazione). Persino un figo pazzesco come Jamie Foxx –
devo ricordarvelo in Collateral, forse? - risulta qui
trasformato, nella bellezza delle immagini, da nero a negro, con
primi piani vintage in stile blackspoitation. Certo:
la fotografia lussureggiante di certi formati (70mm), con i nostri
apparati se ne va in fumo, esattamente come avviene per certe
futuristiche incisioni. In entrambe, però, l'aspetto formale ne esce
esaltato, subendo una compensazione simile a quella sensoriale. In
questo deprecabile contesto, però, è il frammento e non la totalità
dell'opera a risultare stimolante, il raffronto anziché il
messaggio, il climax deprivato del petting. Quindi mi
sono ricordato che questa settimana esce nelle sale The Hateful
Eight. E mi ci sono fermato. Ritiro spirituale.
Non pretendo di fare,
qui, della critica cinematografica. Voglio ricordare alla nutrita
schiera dei miei lettori – quattro: grazie, ragazzi! – che questo
è uno spazio personale, ed in quanto tale deputato ad ospitare non
verità evangeliche, bensì soggettive riflessioni. Quelle che state
leggendo sono pertanto da intendersi come, né più né meno, le
opinioni di un innamorato del cinema, una persona che il giro del
mondo lo ha fatto – prima ancora dell'avvento delle student
fares - iscrivendosi a due indimenticabili cineforum. E questo
per diversi anni. La domanda che viene qui posta è, pertanto, non
perché-il-cinema-di-tarantino-è-grande, ma
perché-il-cinema-di-tarantino-mi-incolla-alla-sedia. Il tutto
analizzato con i limiti – e la sofferenza cinefila - di chi, da
qualche tempo, i film li vede filtrati dal doppiaggio in diretta
fornito dalla prole (un po' come la musica ai tempi del muto).
Anni fa mi capitò di
sentire Silvano Agosti dichiarare: “Tarantino è un delinquente”.
Non ricordo l'argomentazione con la quale Agosti sostenne la tesi, ma
proviamo a riflettervi sopra. Sul fatto che i film di Tarantino siano
violenti, penso non vi sia nulla dire. Sul fatto che produrre film
violenti – meglio, film con una spiccata componente di violenza –
sia strettamente connesso alla propria violenta natura, e quindi
riconducibile all'essere un delinquente, è come dire che se tu,
maschietto, fai sogni bagnati sei uno stupratore. E qui mi fermo, in
quanto do per scontato a) che qualcuno a questo mondo vi sia, in
grado di trarre giuste conclusioni in maniera autonoma; b) che
determinati concetti basic di diversi comparti dello scibile,
nell'anno di Trump 2016, siano ormai parte del corredo di cultura
generale dei più (a] e b] sono inoltre ottime argomentazioni per
svicolare ed uscirne sempre splendidi). Personalmente, trovo
l'apparato violence di Tarantino parecchio appagante, specie
quando funzionale alla sete di vendetta. Frustrated of the world,
unite and take over!
Resto fermamente
convinto che Quentin Tarantino meriti un posto nella storia del
cinema non tanto per i titoli sulla bocca di tutti – compresi
coloro che li hanno fraintesi per benino -, ma per quello che ritengo
sia il suo Promessi Sposi (paragone azzardato, me ne rendo conto):
il progetto Grindhouse come da lui originariamente concepito, vera e
propria sinfonia incompiuta sul mondo di chi il cinema lo ha fatto, e
di chi dentro le sale cinematografiche ha vissuto (Tarantino). Un
pezzo di storia moderna messo su celluloide.
Giusto oggi, Oliviero
Toscani, personaggio burbero e piacevolmente diretto, spiegava ai
microfoni di Radio Rai 1 – la generalissima – come, nella
fotografia, il senso estetico fine a se stesso semplicemente privi
l'arte di una sua componente essenziale: la provocazione. Componente
che viene attivata quando – e solo quando – l'opera d'arte
convogli in sé un messaggio politico – e quindi una sua rilevanza.
Attenzione – sono sempre parole di Toscani -: i tramonti, le
modelle insignificanti, gli scatti tutti concentrati sull'aspetto
tecnico del gesto, non dicono niente, sono vuoti. Per tornare a noi:
si può dire forse che l'arte di Tarantino manchi di un messaggio
politico? I criminali che abitano i suoi suoi film, non rappresentano
una società dove la legalità non è più percepita? La scaltrezza
vertiginosa delle menti criminali non denuncia forse uno slittamento
pericoloso dell'intelligenza? Le uccisioni di bianchi per mano di
neri, non si inseriscono politicamente nelle tante, tristi questioni
'nere' che da Katrina a Ferguson hanno caratterizzato il dibattito
statunitense nell'ultimo decennio (sugli ebrei che sterminano i
nazisti, rifiuto di pronunciarmi: non ho titolo per operare come
insegnante di supporto)? La vendetta al femminile, il metacinema,
sono temi a forte caratterizzazione politica, rendono i film di
Tarantino opere d'arte a tutti gli effetti, e un piacere per gli
occhi.