lunedì 20 febbraio 2017

Eroi Dei Nostri Tempi


Premetto che non è mia intenzione discutere di Sully e Snowden da un punto di vista cinematografico – sebbene entrambe le pellicole offrano parecchia carne al fuoco.
È interessante che due grandi narratori di storie americane, quali Eastwood e Stone, nello stesso momento storico (le primarie, il tracollo del partito democratico, l'elezione di Trump), abbiano scelto, a soggetto delle rispettive produzioni, due vicende accomunate da aspetti che vanno dalla moralità al coraggio; dal confronto con la paura a quello con se stessi; dalla professionalità all'etica di questa; dal mito dell'eroe solitario alla sofferenza del gesto eroico. Ma soprattutto: dallo straordinario senso della responsabilità dei loro protagonisti.
La retrodatazione delle due vicende può anch'essa essere vista come tratto di comunanza. Del 2009 l'ammaraggio del volo US 1549; del 2013 le rivelazioni del Guardian. Gli estremi del primo mandato Obama.
In un moderno e politicamente connotato gioco delle parti, l'allora neo-eletto presidente riservò a Chesley 'Sully' Sullenberger un trattamento da eroe (la tribuna d'onore alla cerimonia di insediamento), proprio nel mentre l'agenzia statunitense per la sicurezza del volo (NTSB), in un'indagine dovuta, ne sottoponeva a verifica l'affidabilità in maniera a dir poco insinuante. A fine-mandato, e alla ricerca della rielezione, gli toccò invece dare della spia a tale Edward Snowden, caricarlo in toto di una responsabilità che la sua amministrazione, poco credibilmente, disconosceva (ricordate la battuta mi-sa-che-mi-sono-fidato-dele-persone-sbagliate, da Fahrenheit 911?), e con l'agenzia per la sicurezza nazionale (NSA) silente in quanto gabbata dal giovane – ed intelligentissimo – tecnico informatico.
Sully è una visione edificante, un film dove la tecnica cinematografica è integralmente al servizio dell'espressività, del dramma umano che Chesley Sullenberger si trova a vivere alla soglia della pensione, investito da un'emergenza ignota al settore; il dramma di un uomo sano, solido, responsabile, di fronte all'ignoto – appunto -, al non-conosciuto. Anche l'integrale dell'ammaraggio, magistralmente ricostruito in digitale, non indugia, temporalmente e personalmente, su aspetti sensazionali – quali potrebbero essere le reali, effettive reazioni dei passeggeri che, diversamente da 'Sully', non realizzarono quanto stava per accadere loro fino all'impatto con lo Hudson. Montata in tempo reale, è funzionale alla comprensione da parte dello spettatore dell'immensità di ogni dramma necessario alla comparsa di un eroe, e del prezzo da pagare per diventarlo. La narrazione non si incentra sul gesto - indiscutibilmente eroico - dell'optare per un ammaraggio e del realizzarlo. La storia di Sully è quella di un uomo che deve giustificare, nell'ansia che segue ogni tragedia attraversata, la propria scelta eroica. L'eroe conclamato è visto nella difficoltà, nudo. È seguito dalla telecamera nel mentre paga il prezzo dell'eroismo, come un uomo qualunque. Come tutti. Tom Hanks interpreta la sofferenza dell'eroe in maniera sempre equilibrata, davvero eccellente.
Il parallelo con Snowden - lontano dalla pensione, giovane, promettente, in carriera, dotatissimo, patriota ed innamorato – è il confronto con un ignoto del quale il protagonista scopre di essere non spettatore, bensì parte integrante, funzionale ad un sistema di schedatura che concresce autonomamente, svincolato da ogni controllo giurisdizionale. Avevo promesso di mantenermi a distanza dalla critica cinematografica, ma mi risulta impossibile non parlare di quel movimento di camera, nel finale, che, transitando dietro allo schermo del computer portatile fa scomparire Joseph Gordon-Levitt rivelando allo spettatore il volto di Edward Snowden in carne ed ossa. Vale l'intero film, e lo dico senza cattiveria. Un momento di grandissimo, commovente cinema civile americano in grado di donare una speranza ed una forza che, personalmente, avevo dimenticate.
In comune vi è sicuramente l'aspetto della responsabilità, intesa nelle due pellicole nelle sua accezione più nobile: non tanto il portare a compimento un impegno assunto quanto l'accettazione delle sue conseguenze. L'indagine ministeriale per 'Sully', l'esilio forzato per Snowden.
Qui non si tratta di raccontare come va a finire. Si tratta di provare a capire perché due grandi, affermati registi, connazionali, abbiano simultaneamente avvertito l'esigenza di narrare vicende solo apparentemente diverse e distanti. Il bisogno dell'eroe – da non confondersi con il nostrano, ciclico bisogno dell''uomo forte' – denota l'assenza, nelle sfere decisionali, di persone capaci di assumersi responsabilità vere. Capaci di scegliere (impossibile, qui, non citare quello scrittore dal cuore grande come l'America che è stato David Foster Wallace, con le sue bellissime riflessioni sulle “[..] cause che travalicano l'interesse personale [...]”, quando ebbe a scrivere sulla campagna di John McCain). La critica è sicuramente rivolta alle facce che popolano un certo stabile di Pensylvania Avenue, a Washington DC. E a casa nostra? Riuscite davvero, in questo contesto, a non pensare a Virginia Raggi? Io no. Ho sostenuto, moralmente, la sua candidatura. Una donna, giovane, a capo della città più problematica e grande d'Italia. L'opportunità di finalmente mostrare la forza di decisioni controcorrente, prese con cognizione di causa (quanto Snowden e Sully hanno fatto rispettivamente). E se funziona a Roma è probabile che l'esempio sia replicabile altrove. Ebbene, mi sento, oggi, come chi ha acquistato un'auto rotta pagandola come nuova. Non dubito del carico gravosissimo che questa persona si è trovata sulle spalle, e che curverebbe chiunque al suo posto. Ma questo è l'impegno che lei e i Cinque Stelle hanno scientemente voluto assumersi. Questa responsabilità è stata chiesta a gran voce da lei e dalla compagine che l'ha sostenuta. Forse Virginia Raggi dovrebbe andare un po' più al cinema e un po' meno in riunione con Beppe Grillo. Scoprirebbe di persone in grado di prendere decisioni vitali in 208 secondi (!), e dell'esistenza di giovani brillanti e promettenti, esattamente come lei, disposti a rinunciare ad “una vita normale, un buono stipendio, carriera, famiglia”, semplicemente per fare 'la cosa giusta'. E che tutta quella merda trovata a Roma, insomma, è roba risolvibile, consente una reazione - senza, tra l'altro, il rischio di finire nel Tevere con l'intera giunta al seguito, o sottoposto a waterboarding in uno scantinato a Il Cairo. Questo immobilismo, ormai lungo un semestre, non consente giustificazioni. Con la sua gestione capitolina, incessantemente sbandierata – e qui mi rivolgo al movimento, più che alla persona -, non si è riusciti nemmeno nel fare 'la cosa sbagliata'. Siamo all'inazione, alla paralisi decisionale. L'esatto opposto di Chesley Sullenberger ed Edward Snowden.
È di queste ore la notizia della piena disponibilità della giunta Raggi alla costruzione di un nuovo stadio. È come se Chesley Sullenberger avesse optato per un rientro al più vicino aeroporto, replicando ottusamente quanto praticato in simulazione. E Edward Snowden avesse proseguito indifferente nell'attività comandatagli, perché, dopotutto, per citare il connazionale medio, “io faccio solo quello che mi dicono di fare”: vivremmo in un mondo totalmente privo di fiducia nel prossimo, e senza alcuna speranza.
Grazie a questi eroi, il farsi di tale apocalittica prospettiva è rimandato ancora per un po'.

lunedì 30 gennaio 2017

Storia Di Due Brani


Qualche mese fa, Gisella Congia, psicologa, fotografa, documentarista, mente ed anima della realtà social e territoriale Il Club Dei Genitori, ha chiesto se volevo apportare un contributo al loro nuovo progetto, per mezzo di musiche originali. Quanto ha fatto seguito alla risposta, può essere ascoltato qui di seguito.

LENA'S SONG

BRAD
Effettuata in una fredda mattina d'autunno, la sessione di registrazione è stata affrontata dal Vs. umile estensore con il fardello assai pesante di un'intera notte in bianco, gentilmente offerta dalla prole. Dico ciò con l'intenzione non di conferire a questa prova tratti eroici che non può né deve avere; bensì con quella di confermare quanto già evidenziato nelle belle interviste di Gisella Congia sulla figura e sul ruolo paterni. E cioè che la loro assunzione responsabile [di ruolo e figura, n.d.r.] può avvenire solo al prezzo di un cambiamento (vedi alla voce 'sconquasso') che origini dal quotidiano di chi tale scelta decide di compiere.
Suonare non è un mestiere facile. Pretendere di farlo in totale assenza di sonno, e con il carico di quelle azioni di accudimento che caratterizza le notti insonni di tutti i genitori, può avere conseguenze devastanti. La famosa figuradimmerda, per intenderci. Fortuna vuole che a a registrare questi due brevi pezzi vi fosse Vittore Savoini, session man del basso, musicista di grande esperienza e mestiere. Grazie a lui, gli innumerevoli colpi di sonno che hanno caratterizzato le tre ore rese necessarie da sveglia-takes-masterizzazione, sono spariti come d'incanto, unitamente al loro carico di imperfezioni tecniche.
Lena's Song mi è uscita dalle mani – guarda un po' – il giorno quando venni a sapere che sarei divenuto padre di una bambina. Brad è stato invece ispirato dalla figura – immensa – del pianista statunitense Brad Mehldau, e dalla sua mostruosa capacità di improvvisare su strutture ostinate. Entrambi sono stati eseguiti su di una chitarra classica.
Un grazie speciale a mia moglie Francesca: oltre ad avere procurato questo 'ingaggio', e a scuotermi dal bradipismo, mi ha dato quanto di più bello ho nella vita: la nostra piccola. Ti amo.
Questo lavoro, del quale sono davvero soddisfatto, lo voglio dedicare a tutti quei genitori i cui immensi sforzi quotidiani sono devoluti alla crescita di figli psicologicamente sani, alla formazione di persone decenti.
A tutti gli altri, la cui inazione è causa dell'orrore verificabile quotidianamente in contesti come: scuola; luoghi di aggregazione; luoghi pubblici; a loro dedico le parole che il grande Leo Longanesi ebbe a dire in tempi non sospetti: “Sulla bandiera dell'italiano medio sta scritto: 'Tengo famiglia'.”.
Lo so: sono cattivo ed astioso.
Ma ho anche dei difetti.

lunedì 5 dicembre 2016

Un Amore Al Rallentatore

Konrad Lorenz sosteneva che, qualità distintiva dell'essere umano, è la riflessione.
A questo ho pensato, sere fa, rincoglionito da uno zapping di fine-giornata, bello spaparanzato sul divano di casa. Mi becco questa pubblicità interna all'emittente su non so quale nuova proposta serale. Arriva diretta come lo Shinkansen Tokyo-Osaka, montata visivamente e testualmente ad una velocità strabiliante, roba al cui confronto David Fincher sembra Ingmar Bergman. Termina, ed io non ho minimamente afferrato il “consiglio per gli acquisti”, essendomi perso nello sforzo inatteso, dettato dal super editing. Beh, certo che qui, di spazio per riflettere, non ne hanno destinato molto. Errore o strategia? Eppure la generazione cui mi è toccato appartenere è quella di Blob – Di Tutto Di Più, la prima, dopo la grande rivoluzione televisiva degli anni '50 e '60, ad avere spontaneamente appreso il linguaggio del 'montato', similmente a come oggi i giovani si appropriano in identica maniera dei linguaggi informatici e cibernetici, postumi alla ultra-veloce rivoluzione digitale. Vero anche che, per gli odierni criteri di valutazione, quelli come me son considerati 'matusa' da un po', e quindi deputati, per anagrafe, a non capire più un cazzo. Di inetti che non sanno quel che fanno, è pieno il mondo. Ma se così non fosse, e si trattasse, invece, di una scelta comunicativa? A quale specie – o subspecie – di persona è primariamente indirizzato un simile messaggio? La mia tesi, semplicistica, è che una massa non istruita a riflettere si assoggetta meglio al subliminale, stile videoclip.
Ma ecco le mie accucciate, fedeli sinapsi condurre, con altrettanta velocità, ad un'altra figura: P.T. Anderson. Mi viene facile, e spontaneo, parlare del cinema di Paul Thomas Anderson. È facile quando sei completamente all'asciutto da ogni bagno ideologico intellettual-sovrastrutturale (non ho mai studiato cinema). È facile se ti senti appassionato dalle sue realizzazioni per il grande – e piccolo - schermo. È facile quando, autodidatta, ti trovi a parlare di figure con identico tuo retroterra. Lungi da me il voler anche solo alludere a comunanze di qualsivoglia specie con il regista californiano. Al posto della scuola di cinema, il giovane Paul Thomas scelse di imbucarsi negli innumerevoli sets che, negli anni '80, impiegavano quasi ogni abitazione libera della nativa Studio City. Il vostro umile estensore fece lo stesso con la musica, imbucandosi similmente, e proprio negli stessi anni del suo paladino cinematografico, nelle sale-prova che sorgevano ovunque vi si trovasse un locale sfitto. È un po' come avere svolto insieme il servizio di leva. Questo, in parole povere, il comune retroterra.
Sono reduce dalla visione dei due ultimi videoclips che Anderson ha girato per la band Radiohead, Present Tense e The Numbers. Una visione minimale non solo per la formazione ridotta (si tratta di esecuzioni dal vivo per chitarre, voce e drum-machine con i soli Thom Yorke e Johnny Greenwood – quest'ultimo, autore, per il regista californiano, di due colonne sonore): minimale per concedere a queste intensissime esecuzioni il giusto spazio ed il giusto respiro. Tecnicamente si tratta di gesti cinematografici che tutti potremmo compiere, a patto di metterci dell'impegno. Ambientazione in esterna; piano-sequenza; qualche stretta in primo piano. Nulla di trascendentale. Non è Magnolia, okey? Perché, allora, cotanto regista minimalizza il proprio intervento fino al confine della sparizione (tra l'altro, tema, quest'ultimo, non indifferente agli artisti in questione)? Si dice spesso – la tesi è interessante – che i poeti, più di ogni altro, sono in grado di sentire, leggere la realtà, il 'presente'. Personalmente sono convinto che i grandi registi, tutti, muovano inconsapevolmente da questa qualità. Lettura ed intravisione. Che le loro opere, cioè, abbiano, fra i tanti aspetti, la capacità di fornire al fruitore un punto della situazione ove risulta possibile relazionarsi all'opera e al suo messaggio. Non mi sembra per nulla utile, a questo punto, tentare una risposta. Molto più interessante la domanda: il 'perché' un gigante del cinema come Anderson rinunci al virtuosismo, proprio nella forma che maggiormente lo induce – cioè il videoclip. L'opera intera di Paul Thomas Anderson, fino a The Master (Inherent Vice, Vizio di Forma, non fa testo, in quanto tipica commedia brillante e leggera che segue ad un capolavoro), presenta un graduale rallentamento del montaggio, funzionale ad una narrazione cinematografica più profonda e dettagliata. Morale? Il cerchio si è chiuso. In un mondo che ha fatto della velocità uno status symbol, se ci si vuole differenziare, e così preservare una propria dignità, è necessario adottare un parlato che esso stesso sia diverso (mai sentito Low e The XX?).

A chiudere, una scoreggia trattenuta per troppo tempo. La band perfetta per David Bowie – la band ideale – sono stati i Nine Inch Nails (vedi, Dissonance 1995/96).
Meditate, gente. Meditate.

venerdì 25 novembre 2016

Regretting Motherhood (Il Rimpianto Materno)

Faccio fronte a quello che spero sia un momentaneo blocco dello scrittore, ospitando un articolo bello e intressante, scritto da Francesca G. Camisa, psicologa psicoterapeuta.

Si tratta di un argomento duro da affrontare, sicuramente controcorrente.

Una posizione che, in questa giornata speciale dedicata un grande problema dell'essere donna, acquista un rilievo particolarissimo.

Un punto di vista nuovo, meritevole di una lettura attenta.

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SE SOLO POTESSI TORNARE INDIETRO .. NON DIVENTEREI MADRE”
Parto da quel concetto che considera l'amore materno circolare, come fosse una sfera. La perfezione, in una sola parola. Può accadere di vivere la gravidanza come una bolla che ci “ingloba” e ci contiene al suo interno facendoci sentire tutt'uno col nostro grembo, fagocitate dal “dentro” e indistinte dal “fuori”, attraverso un legame inequivocabile con la nostra creatura. “Come sarà quest'avventura? Cosa mi attende di qui a breve?” Sono le domande senza risposta che una quasi-mamma si pone in silenzio, per riscoprire il senso di questi interrogativi giorno dopo giorno grazie al legame imprescindibile che va prendendo forma col figlio, dove la riscoperta della vita fa rinascere emozioni. E' lo stupore continuo, inaspettato: ricordo l'espressione rapita della mia bambina durante il racconto della sua prima Cenerentola (un libro quasi storico e fuori produzione che lei ha ereditato da me). Attraverso la fiaba e la sua narrazione, la mia infanzia più bella riaffiorava e diventava sguardo nel suo sguardo, che mi restituiva colmo di nuovi significati (il Vecchio che fa nascere il Nuovo). I figli sono come le rose, mai senza spine aggiungo. Accompagnarli e guidarli nella loro crescita è un percorso complesso e accidentato. Così mi chiedo: è sufficiente un SÌ convinto proveniente dal nostro mondo interno quando decidiamo di dare la vita per farci diventare madri ipso facto? O diventare mamma è una conquista necessaria per potersi poi prendere cura delle nostre creature? Talvolta il SÌ diventa un FORSE, che sfocerà nel DOPO e che si potrebbe trasformare in un MAI. Orna Donath, Sociologa e Ricercatrice dell'Università di Tel Aviv nel suo saggio Regretting Motherhood, divenuto anche libro tradotto in diverse lingue va oltre per raccontarci del così detto MAI PIÚ NELLA VITA, ossia il rimpianto materno. Donne divenute madri di più figli e persino nonne che, guardando alla loro esperienza materna la definiscono attraverso il pentimento ed il rimorso (“se tornassi indietro sapendo quello che so oggi deciderei di non avere mai e poi mai figli”). Attraverso le 23 interviste realizzate con donne tra i 20 ed i 70 anni, la Donath si addentra nel materno utilizzando un concetto chiave: ambivalenza. Essa è il sentimento fondativo della maternità, il materno è ambivalenza. Si crea un'equazione perfetta tra le due che include oscillazioni tra amore e risentimento, il rancore ed il senso di colpa opposti alla tenerezza, la frustrazione che fa breccia tra la gioia. Per la Donath il rimpianto dell'esperienza materna può giungere al punto limite: il sentimento d'inadeguatezza e di ambivalenza, il rifiuto di un ruolo sociale imposto fatto di aspettative eccelse donano sfumature inedite alla maternità ed alla genitorialità, così da farle virare verso il cupo, oltre le ombre che ben conosciamo .. . Il “peso” dell'essere madre è eccessivo, nell'accezione dell'insieme di responsabilità quotidiane e di una cura esclusiva dei figli affidata ad uno solo dei genitori: la mamma. Dalla ricerca della Donath emerge come sia possibile “amare i propri figli incondizionatamente” ma rimpiangere l'esperienza materna in sé, in quanto foriera di disagi ed infelicità non previsti; la maternità, come ogni altra esperienza porta l'impronta della soggettività e della personalizzazione. Qui, la donna è portatrice di sentimenti e bisogni che s'intrecciano al suo ruolo, al suo contesto sociale e religioso, alla sua etnia di provenienza. Possiamo notare la tendenza da tempo (sopratutto nella società italiana) ad appiattire l'identità femminile su di quella materna allo scopo di ottenere coincidenza perfetta che non considera invece la maternità come esperienza in divenire e alquanto fragile, imperfetta (la buona madre tutta-mamma e solo mamma, dove l'identità di donna si annulla per far posto a quella di madre). Scopriamo così che il rimpianto unisce il passato al presente e al “desiderabile”. Il nostro contesto sociale è culturale, ideologico e cattolico, pretende di stabilire quali emozioni siano ritenute appropriate rispetto al ruolo materno. C'è qui una divaricazione evidente tra codice femminile e codice materno. Il primo ha subito un'evoluzione: la donna dipendente, fragile, incapace di autonomia economica e sociale, costretta a gravitare nella sfera maschile alla ricerca di sicurezza e protezione per sé ed i suoi figli ha lasciato il posto alla consapevolezza individuale, all'indipendenza finanziaria e ad un ruolo sociale forte, oltre ad una relazione di coppia paritetica fatta di libertà di scelte (sulla maternità, il divorzio, la professione). E il codice materno? È rimasto identico al passato: tradizionale, romantico, assoluto, soccorrevole e statico. Colei che non si adegua ad esso sarà identificata come una cattiva mamma. E' la madre che si occupa dei figli: il vuoto sociale (dovuto alla mancanza di servizi per l'infanzia e l'adolescenza), il disinteresse politico che considera i figli un prolungamento materno invece che soggetti con diritti e doveri sui quali investire amplificano e alimentano sentimenti che nutrono l'ambivalenza materna. Essa si alterna di continuo tra amore e odio e diventa esperienza dinamica di conflitto. Questo ci riporta alla ricerca sociologica di Regretting motherhood: le madri pentite, così come le non madri per scelta si ritrovano ad avere a che fare con norme sociali che le considerano al di fuori del sistema normativo. Il sentimento di esclusione (e della non appartenenza) grava sulla loro coscienza e trasforma a livello fantasmatico il futuro bambino come Altro-da-Sé minaccioso, da temere. Se la paura della non appartenenza sfocia nella scelta di una maternità, quest'ultima verrà vissuta forse come transizione automatica ed irriflessiva, confusa. La conseguente negazione del ruolo di mamma e del percorso intrapreso per diventarlo è una mera conseguenza così come il desiderio di cancellare “idealmente” l'esperienza materna vissuta. Anche la clinica della fecondazione assistita e le esperienze di depressione e di ansia invalidante a partire dalla gravidanza fino al periodo del post partum evidenziano il fatto che il codice femminile non è più al servizio di quello materno dal quale ha preso le distanze. Non mancano così le versioni patologiche opposte alla maternità, che testimoniano in altro modo la difficoltà a costruire il nostro percorso di madri, fatto di simboli, di presenza ma anche assenza e separazione necessarie. Esistono oggi madri ipermoderne, concentrate in maniera univoca su di sé e sui propri bisogni, incapaci di decentrarsi rispetto al figlio ritenuto una sorta di traino che non dev'essere d'ingombro, per non rischiare di guastare la propria immagine narcisistica (la madre narcisista, appunto). Un'altra versione corrisponde alla mamma-coccodrillo, indistinta dal figlio, presa da un rapporto con lui di sola fusione e appartenenza reciproca ideale, influenzato dal fantasma dell'onnipotenza.
Il desiderio materno se trasceso nel figlio lo aiuta ad acquisire il desiderio della vita, un desiderio unico nel suo genere, grazie ad una madre che riconosce il figlio come tale. La mamma ideale è tramontata? Forse sì. Se iniziassimo a dare spazio a quest'idea potremmo incominciare ad elaborare la sofferenza della perdita, e consentire a queste verità nuove di farsi strada dentro di noi.

Dott.ssa Francesca G. Camìsa


BIBLIOGRAFIA
O. Donath, Regretting Motherhood: a Sociopolitical Analysis, University of Chicago, 2014.
M. Recalcati, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno. LaFeltrinelli Editore, 2015.

E. Rosci, estratto da La maternità può attendere, Mondadori Editore, 2013, intervista all'autrice sul “Corriere della sera – la 24esima ora” del 11/05/2013.

mercoledì 16 novembre 2016

TEN SONGS (Hit Parade)

Siamo quel che mangiamo. Vero.
Ma siamo anche quel che ascoltiamo.
Grandi nomi della musica e delle neuroscienze (specificamente Daniel Baremboim ed Antonio Damasio) lo hanno ripetutamente dichiarato e dimostrato: i due fori che noi mammiferi superiori portiamo ai lati del cranio, senza che peraltro ci sia data facoltà di occlusione, stimolano il pensiero, con risultati che dicono di noi più di un curriculum vitae. Ciò che vi facciamo transitare, nei suddetti fori, è, a grandi linee, né più né meno il cibo che riteniamo adeguato al nostro appetito intellettuale. Inoltre, sul versante psicologico, grande euforia o profonda depressione possono seguire ad ascolti rispettivamente arricchenti o abbruttenti.
Ed è su questi ultimi che ci soffermeremo in questa occasione, al fine propositivo di arginare l'avanzata del brutto, e annientarne gli effetti distruttivi mediante il suggerimento di appropriati antidoti.
In questo elenco potreste trovare alcuni dei vostri artisti preferiti. Niente panico: vuol solo dire che ascoltate musica 'dimmerda'.
Ecco allora le...

DIECI CANZONI DOPO LE QUALI IMPICCARSI (METAFORICAMENTE)


10 - Ragazza Magica (Jovanotti)
Non pago di un successo che gli ha dato tutto, e di avere dichiarato che chi critica la sua musica “non capisce un cazzo”, il Lorenzo ci fa presente che anche sceso dal palco la sua vita non perde di slancio, grazie alle qualità uniche e taumaturgiche della sua ragazza. Antidoto: Anna Is A Speed Freak (Pure).
9 - Be The One (Dua Lipa)
Nonostante il problema con le spirate e le difficoltà di sincronizzazione con il playback, la ventenne kosovara insite nel farci presente che lei potrebbe essere 'quella giusta'. Cantante, autrice, donna, partner, modella. Di studiare, manco l'ombra. Antidoto: One (Aimee Mann).
8 - Londra (Bluvertigo)
Questo è quel che succede quando, sotto sotto, non hai mai smesso di fare il ragazzino, e scimmiottare i tuoi idoli. Secondo il leader del quartetto padano, se non comprendi quel che lui in persona decanta nei testi della band, problemi tuoi. Se lo comprendi e non vi trovi significato, è nonsense. Antidoto: Down On The Street (The Stooges).
7 - Santa Klaus Is Coming To Town (Laura Pausini)
Questo è quel che succede, invece, quando ci si reputa indispensabili: davvero ci serviva l'interpretazione della Laura nazionale per la rivisitazione di cotanta stucchevolezza? No. Il Natale è già difficile di suo. Con una simile colonna sonora non resta che la fuga. Antidoto: Reign in Blood (Slayer).
6 - Party Like A Russian (Robbie Williams)
Magnate indiscusso della composizione a la carlona, l'ex Take That, oggi ufologo, dona al mondo l'unico brano che, di questi tempi, poteva trovare un investitore nell'Inghilterra della Brexit: un attacco a Vladimir Putin in forma di canzone, testo delirante e campionamento da Prokofiev. Antidoto: Wanna Be Startin' Somethin' (Michael Jackson).
5 - G Come Giungla (Ligabue)
Qui il 'Liga' canta dei tuoi e miei problemi, con un fare che altrove rispetto al Bar Mario gli procurerebbe un sacco di guai. Lobbysmo, darwinismo e psicodinamismo spicci, vieto buonsenso e un pizzico di presunzione. I tuoi problemi, non i suoi - capisci? Antidoto: Welcome To The Jungle (Guns 'n Roses).
4 - Grande Amore (Il Volo)
Se il ministero della salute volesse impegnarsi in una campagna per l'educazione sessuale della penisola più bigotta dell'emisfero boreale, questa canzone ne costituirebbe la giusta colonna sonora. Si rabbrividisce al pensiero che i minorenni del trio possano averne concepito musica e testo. Antidoto: Happyness In Slavery (NIN).
3 - The Reason Why (Lorenzo Fragola)
Impiegare una lingua che nel tuo paese d'origine è odiata e misconosciuta, sostanzialmente per dire cose delle quali che ti vergogni. Questo il succo della hit del vincitore di X Factor 2014. Autocelebrazione eterodiretta. Da chi? Basti vedere le facce che compaiono nel videoclip. Antidoto: You (Radiohead).
2 - Nessun Grado Di Separazione (Francesca Michielin)
La prova provata che, se sei troppo giovane, non hai veramente nulla da dire (e il tanto citato talent latita). Qui siamo alla nipote che la canta al nonno. E se il nonno fosse stato il Clint Eastwood di Gran Torino, erano cazzi. Antidoto: Occupo Poco Spazio (Nada).
1 - Rosetta (Vangelis)
Scritta per la missione spaziale europea Rosetta – ma pagata profumatamente da noi contribuenti -, questa pagina si propone, con piglio da neomelodico, di fornire la colonna sonora alle imprese degli astronauti nostrani. Un modo certo per tenere lontana qualsivoglia forma di vita aliena. Antidoto: Tabla (Jon Brion).

Buon ascolto a tutti.

mercoledì 21 settembre 2016

Varie ed Eventuali

In un periodo caratterizzato da una pletora di argomenti di assoluta rilevanza, eccone cinque che mi hanno particolrmente irritato.

Charlie Hebdo

Ha fatto discutere la vignetta del settimanale satirico sul terremoto in centro Italia. Fiumi di parole e nessuna vera analisi critica dei contenuti. Tranne quella di Daniele Luttazzi – passata naturalmente sotto silenzio-stampa (a riprova che gli ordini di Berlusconi valgono ancora oggi come encicliche papali). Ditemi perché, se è sensato chiedere lumi ad un politologo quando non capiamo un cazzo della politica nostrana, non lo è rivolgersi ad un autore satirico quando non si capisce una battuta? Quella di Luttazzi è una spiegazione chiara; diretta; compressa in un lessico appropriato; capace di fornire anche agli sprovveduti criteri di lettura affidabili. Andate a leggerla: ne uscirete arricchiti. Pochi sono in grado di interpretare il presente come fa Daniele Luttazzi per mezzo della propria tecnica satirica. Che la televisione italiana tutta abbia estromesso un talento come il suo, la dice lunga sulla condizione ideologico-culturale della televisione italiana. Tutta.

Il Ciclone

A Radio Deejay hanno definito “film storico” Il Ciclone di Leonardo Pieraccioni. Motivazione: il dicembre prossimo la pellicola compie 20 anni. Un po' come quando ti dicono che a diciotto sei 'maturo'. Pieraccioni come Bergman, quindi. Mi rendo conto della sterilità di questa mia nota scritta: nulla di diverso da quanto qui riportato verrà mai partorito dall'emittente di Via Massena. Il suo pubblico è fatto così: persone che concepiscono la storia come serie di avvenimenti seguiti alla loro nascita. Il compleanno come anno zero. Come per Gesù Cristo. Ciliegina sulla torta: al fine di celebrare lo 'storico' genetliaco, il film è stato proiettato sulla facciata della basilica di Santo Spirito, a Firenze, lo scorso dodici settembre. Leonardo Pieraccioni, dal suo, ha fatto sapere che l'intenzione 'registica', dietro allo sforzo di 20 anni fa, era quella di fornire allo spettatore uno sguardo non tanto sulla vita in Toscana, quanto sull'Italia “nel suo insieme”. Io, che in questi 20 anni, non sono mai riuscito a liberarmi della sua visione (del film, ma anche di Pieraccioni stesso), non ricordo, in sala, spettatori confusi, convinti di assistere ad uno stralcio di vita dello Jutland o della Danimarca “nel suo insieme”. Ad ogni modo, grazie, Leonardo. (Nota a margine. Avete notato l'evoluzione del clero quanto a costume sessuale? Nessuno ha più niente da dire, nel proiettare in faccia ad un edificio sacro sequenze di donne semivestite e sudate, impegnate nella sensuale danza flamenco. Visione consigliata: Spotlight, di Tom McCarthy).

Nostalgia Canaglia

Filo diretto con gli ascoltatori nel corso della rassegna stampa del mattino di Radio Rai 3. Con voce commossa una radioascoltatrice notifica il conduttore dell'immenso piacere provato nel rivedere Cesare Salvi (!) alla recente reunion dei dalemiani qualche settimana fa. È proprio un paese di nostalgici e di retrogradi, il nostro. Come si può provare piacere di fronte a simili riesumazioni? Chi è in grado, senza pensarci a lungo, di citare un provvedimento, una legge, una battaglia, una qualsiasi azione o frase per i quali uno qualsiasi dei politici nostrani degli ultimi 25 anni verrà certo ricordato e rimpianto? Nonostante questo, con persone così condividiamo la cabina elettorale. Emotivi politici. Sapete che ha detto Clint Eastwood recentemente? Che a correre per le presidenziali avrebbe voluto Chesley Sullenberger, il pilota che 2009 ammarò magistralmente nell'Hudson salvando le 150 vite di cui era responsabile – e figura sulla quale si incentra il suo ultimo film. Marchetta? Certo. Sparata? No. Nonno Clint ci ha dato, qui, gli unici hashtags sui quali si dovrebbero concentrare tutte le nostre riflessioni social: civile e responsabile. #civile, #responsabile. Meditate, gente. Meditate.


Bridget Jones' Baby

Ecco un bel film per l'italietta del Family Day, che si appresta ora ai festeggiamenti nello spinoff dedicato alla fertilità. È proprio vero che, se un grande come Colin Firth non può permettersi di rifiutare una simile indecenza, a livello di grande-produzione, la libertà artistica è inesistente - e che, anche nell'Inghilterra della Brexit, se non fai un figlio, ti rompono i coglioni. Il caso vuole che da noi il film esca a ridosso del Fertility 'Fuckin' 'Day. (Ricordate il prologo di Magnolia? “Queste strane cose accadono di continuo.”.). Nel cast anche Patrick Demsey, lo Stranamore di Grey's Anatomy, stanco delle scopate in corsia. Di chi sarà il marmocchio? Grey's Nursery. Shit, Actually.

Vasco Rossi & Il Fertility Day

Ho impiegato trent'anni a capirlo, che Vasco Rossi è un cantautore di razza (perdonami, Blasco). Del 1983, infatti, la strofa “Credi che basti avere un figlio / per essere un uomo e non un coniglio”, dal brano Deviazioni. Coraggioso e profetico (nota per gli aderenti alla Lega: facile oggi strumentalizzare un altro celebre verso Rossiano come “è andata a casa con il negro, la troia”, quando il culo, sulla graticola, ce l'ha messo un altro). Rincara la dose (mi si risparmi l'ironia, qui, sui trascorsi tossicomaniaci del Rossi, grazie), sul finale, con i versi: “Quante volte, quante dai / C'hai pensato / a me lo puoi dire, sai / Mica ti voglio far del male, dai... / Quante deviazioni hai”. Penso non ci sia slogan migliore per chi, il 22 settembre prossimo, interromperà il coito, in opposizione a questa iniziativa. Personalmente, ritengo di avere avuto le strapalle già al tempo quando di prole non ne volevo: è grazie ad esse che oggi ho una bambina fantastica, e non il contrario.

domenica 11 settembre 2016

Lettera Aperta (al sindaco della mia città)

Egregio Sindaco Gusmeroli,
Mi chiamo Stefano Parenzan e vivo ad Arona.
Scrivo Lei questa lettera aperta, sul tema delle biciclette nella nostra città.
Nelle ultime settimane, passeggiando su due ruote, mi sono ripetutamente imbattuto nei richiami – solo successivamente realizzati come tali – di persone in abiti civili - di fatto, mi è stato poi spiegato, volontari del comune. Al mio indirizzo è stato intimato, in altrettante occasioni, di: non affrontare un percorso non meglio definito; scendere dalla bicicletta; ricordare il rapporto tra carreggiata e marciapiede.
Realizzato, allora, di avere commesso atti che per queste persone sconfinano nell'illecito, giorni dopo ripeto gli identici percorsi alla ricerca della cartellonistica di proibizione e limitazione che, a questo punto, è chiaro io non abbia visto.
Nonostante l'esito negativo della ricerca, ancora stamane parole tra me ciclista e lui pedone.
Mi sono allora chiesto da dove venga questa improvvisa – e del tutto inaspettata – verve normativa. Che è successo a questi concittadini che si ergono a paladini intransigenti dell'area pedonale, insofferenti a che vi si vada rispettosamente, a passo d'uomo, con prole a bordo e financo con carrozzina e passeggino (a quando il cazziatone alle sedie a rotelle in contromano sul marciapiede?)? Ed ho scoperto, in seguito ad una semplice ricerca, che le Sue parole, sindaco Gusmeroli, postate ieri, 2 settembre, alle 8:38, su 'Arona È Nostra', sono state assunte a vangelo da moltissime di queste persone.
Sindaco Gusmeroli, ho molti colleghi che mi chiedono perché io affronti senza ostentare insofferenza i tanti chilometri che mi separano dal luogo di lavoro. Puntualmente rispondo loro che poter crescere la propria creatura in un posto dove si dispone della costa di un lago per passeggiarvi, con tutto quanto questo comporta in termini di qualità della vita, dall'aria buona ai panorami mozzafiato; la dimensione ancora umana dell'abitato, il decoro urbano; la pulizia; i servizi, tutto questo vale la pena di un po' di strada in macchina. Questo ho sempre detto e pensato fino all'avvento della tolleranza-zero nei confronti dei ciclisti, due settimane fa circa.
Certo: non sono persona “senza peccato”. Ho peccato nel non aver sempre rispettato il codice della strada quando in bicicletta. Sono un peccatore, Sindaco Gusmeroli. Ma non sono un intollerante. Questo è il punto. E l'intolleranza che molti aronesi sembrano aver messo in campo trova – ahimè - supporto nell'inflessibilità da Lei manifestata sull'argomento. Inflessibilità della quale Le faccio lode: un sindaco che si rispetti deve regolamentare per mezzo di ordinanze, pena il caos. Ma quelle parole, Sindaco – ne Converrà -, sono state mal interpretate. E Deve porvi rimedio. Le tensioni intraspecifiche – tra aronesi, tra ciclisti pro e contro – non sono segno di salute civica: ne segnano il decadimento. Emetta un'ordinanza dove le biciclette con bambini a bordo vengono assimilate alle carrozzine e ai passeggini, con identica libertà di movimento. Gli spazi che noi genitori impegnamo a volte in maniera eccessivamente disinvolta quando in bicicletta con i nostri bambini si devono semplicemente alla pericolosità dei regolari percorsi urbani. I percorsi (tutti sulla costa) che negli ultimi tre anni ho affrontato con mia figlia a bordo, Deve sapere, sono d'improvviso divenuti terreno di scontri, no-fly zones dove la rissa verbale e fisica è potenzialmente possibile, manco fossimo a Inglewood '94. Questo non è mai successo, prima. È un comportamento da calmierare. E ciò può avvenire solo attraverso un Suo richiamo al buon senso – e rimettendo le funzioni di rilevazione e sanzionamento degli infrattori agli organi preposti, non a volontari.
Lei è il mio sindaco, signor Gusmeroli. Io La riconosco e rispetto come tale. Da me non avrà problemi. Starò alle regole. Sono stato educato così. Ma se Vuole aspirare ad un terzo mandato onorifico, alla Rudy Giuliani, per intenderci – e mi sembra che una persona della Sua ambizione possa permetterselo -, ecco: Regali la città la pista ciclabile che Ha promesso: degna di questo nome, normata, che tolga ai ciclisti come me quegli alibi che, ad oggi, giustificano alcune loro azioni. Avrà, lo prometto, il voto che Le ho negato fino ad oggi.
Con i più cordiali saluti...
SP
(Arona, 3 settembre 2016)