lunedì 5 dicembre 2016

Un Amore Al Rallentatore

Konrad Lorenz sosteneva che, qualità distintiva dell'essere umano, è la riflessione.
A questo ho pensato, sere fa, rincoglionito da uno zapping di fine-giornata, bello spaparanzato sul divano di casa. Mi becco questa pubblicità interna all'emittente su non so quale nuova proposta serale. Arriva diretta come lo Shinkansen Tokyo-Osaka, montata visivamente e testualmente ad una velocità strabiliante, roba al cui confronto David Fincher sembra Ingmar Bergman. Termina, ed io non ho minimamente afferrato il “consiglio per gli acquisti”, essendomi perso nello sforzo inatteso, dettato dal super editing. Beh, certo che qui, di spazio per riflettere, non ne hanno destinato molto. Errore o strategia? Eppure la generazione cui mi è toccato appartenere è quella di Blob – Di Tutto Di Più, la prima, dopo la grande rivoluzione televisiva degli anni '50 e '60, ad avere spontaneamente appreso il linguaggio del 'montato', similmente a come oggi i giovani si appropriano in identica maniera dei linguaggi informatici e cibernetici, postumi alla ultra-veloce rivoluzione digitale. Vero anche che, per gli odierni criteri di valutazione, quelli come me son considerati 'matusa' da un po', e quindi deputati, per anagrafe, a non capire più un cazzo. Di inetti che non sanno quel che fanno, è pieno il mondo. Ma se così non fosse, e si trattasse, invece, di una scelta comunicativa? A quale specie – o subspecie – di persona è primariamente indirizzato un simile messaggio? La mia tesi, semplicistica, è che una massa non istruita a riflettere si assoggetta meglio al subliminale, stile videoclip.
Ma ecco le mie accucciate, fedeli sinapsi condurre, con altrettanta velocità, ad un'altra figura: P.T. Anderson. Mi viene facile, e spontaneo, parlare del cinema di Paul Thomas Anderson. È facile quando sei completamente all'asciutto da ogni bagno ideologico intellettual-sovrastrutturale (non ho mai studiato cinema). È facile se ti senti appassionato dalle sue realizzazioni per il grande – e piccolo - schermo. È facile quando, autodidatta, ti trovi a parlare di figure con identico tuo retroterra. Lungi da me il voler anche solo alludere a comunanze di qualsivoglia specie con il regista californiano. Al posto della scuola di cinema, il giovane Paul Thomas scelse di imbucarsi negli innumerevoli sets che, negli anni '80, impiegavano quasi ogni abitazione libera della nativa Studio City. Il vostro umile estensore fece lo stesso con la musica, imbucandosi similmente, e proprio negli stessi anni del suo paladino cinematografico, nelle sale-prova che sorgevano ovunque vi si trovasse un locale sfitto. È un po' come avere svolto insieme il servizio di leva. Questo, in parole povere, il comune retroterra.
Sono reduce dalla visione dei due ultimi videoclips che Anderson ha girato per la band Radiohead, Present Tense e The Numbers. Una visione minimale non solo per la formazione ridotta (si tratta di esecuzioni dal vivo per chitarre, voce e drum-machine con i soli Thom Yorke e Johnny Greenwood – quest'ultimo, autore, per il regista californiano, di due colonne sonore): minimale per concedere a queste intensissime esecuzioni il giusto spazio ed il giusto respiro. Tecnicamente si tratta di gesti cinematografici che tutti potremmo compiere, a patto di metterci dell'impegno. Ambientazione in esterna; piano-sequenza; qualche stretta in primo piano. Nulla di trascendentale. Non è Magnolia, okey? Perché, allora, cotanto regista minimalizza il proprio intervento fino al confine della sparizione (tra l'altro, tema, quest'ultimo, non indifferente agli artisti in questione)? Si dice spesso – la tesi è interessante – che i poeti, più di ogni altro, sono in grado di sentire, leggere la realtà, il 'presente'. Personalmente sono convinto che i grandi registi, tutti, muovano inconsapevolmente da questa qualità. Lettura ed intravisione. Che le loro opere, cioè, abbiano, fra i tanti aspetti, la capacità di fornire al fruitore un punto della situazione ove risulta possibile relazionarsi all'opera e al suo messaggio. Non mi sembra per nulla utile, a questo punto, tentare una risposta. Molto più interessante la domanda: il 'perché' un gigante del cinema come Anderson rinunci al virtuosismo, proprio nella forma che maggiormente lo induce – cioè il videoclip. L'opera intera di Paul Thomas Anderson, fino a The Master (Inherent Vice, Vizio di Forma, non fa testo, in quanto tipica commedia brillante e leggera che segue ad un capolavoro), presenta un graduale rallentamento del montaggio, funzionale ad una narrazione cinematografica più profonda e dettagliata. Morale? Il cerchio si è chiuso. In un mondo che ha fatto della velocità uno status symbol, se ci si vuole differenziare, e così preservare una propria dignità, è necessario adottare un parlato che esso stesso sia diverso (mai sentito Low e The XX?).

A chiudere, una scoreggia trattenuta per troppo tempo. La band perfetta per David Bowie – la band ideale – sono stati i Nine Inch Nails (vedi, Dissonance 1995/96).
Meditate, gente. Meditate.

venerdì 25 novembre 2016

Regretting Motherhood (Il Rimpianto Materno)

Faccio fronte a quello che spero sia un momentaneo blocco dello scrittore, ospitando un articolo bello e intressante, scritto da Francesca G. Camisa, psicologa psicoterapeuta.

Si tratta di un argomento duro da affrontare, sicuramente controcorrente.

Una posizione che, in questa giornata speciale dedicata un grande problema dell'essere donna, acquista un rilievo particolarissimo.

Un punto di vista nuovo, meritevole di una lettura attenta.

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SE SOLO POTESSI TORNARE INDIETRO .. NON DIVENTEREI MADRE”
Parto da quel concetto che considera l'amore materno circolare, come fosse una sfera. La perfezione, in una sola parola. Può accadere di vivere la gravidanza come una bolla che ci “ingloba” e ci contiene al suo interno facendoci sentire tutt'uno col nostro grembo, fagocitate dal “dentro” e indistinte dal “fuori”, attraverso un legame inequivocabile con la nostra creatura. “Come sarà quest'avventura? Cosa mi attende di qui a breve?” Sono le domande senza risposta che una quasi-mamma si pone in silenzio, per riscoprire il senso di questi interrogativi giorno dopo giorno grazie al legame imprescindibile che va prendendo forma col figlio, dove la riscoperta della vita fa rinascere emozioni. E' lo stupore continuo, inaspettato: ricordo l'espressione rapita della mia bambina durante il racconto della sua prima Cenerentola (un libro quasi storico e fuori produzione che lei ha ereditato da me). Attraverso la fiaba e la sua narrazione, la mia infanzia più bella riaffiorava e diventava sguardo nel suo sguardo, che mi restituiva colmo di nuovi significati (il Vecchio che fa nascere il Nuovo). I figli sono come le rose, mai senza spine aggiungo. Accompagnarli e guidarli nella loro crescita è un percorso complesso e accidentato. Così mi chiedo: è sufficiente un SÌ convinto proveniente dal nostro mondo interno quando decidiamo di dare la vita per farci diventare madri ipso facto? O diventare mamma è una conquista necessaria per potersi poi prendere cura delle nostre creature? Talvolta il SÌ diventa un FORSE, che sfocerà nel DOPO e che si potrebbe trasformare in un MAI. Orna Donath, Sociologa e Ricercatrice dell'Università di Tel Aviv nel suo saggio Regretting Motherhood, divenuto anche libro tradotto in diverse lingue va oltre per raccontarci del così detto MAI PIÚ NELLA VITA, ossia il rimpianto materno. Donne divenute madri di più figli e persino nonne che, guardando alla loro esperienza materna la definiscono attraverso il pentimento ed il rimorso (“se tornassi indietro sapendo quello che so oggi deciderei di non avere mai e poi mai figli”). Attraverso le 23 interviste realizzate con donne tra i 20 ed i 70 anni, la Donath si addentra nel materno utilizzando un concetto chiave: ambivalenza. Essa è il sentimento fondativo della maternità, il materno è ambivalenza. Si crea un'equazione perfetta tra le due che include oscillazioni tra amore e risentimento, il rancore ed il senso di colpa opposti alla tenerezza, la frustrazione che fa breccia tra la gioia. Per la Donath il rimpianto dell'esperienza materna può giungere al punto limite: il sentimento d'inadeguatezza e di ambivalenza, il rifiuto di un ruolo sociale imposto fatto di aspettative eccelse donano sfumature inedite alla maternità ed alla genitorialità, così da farle virare verso il cupo, oltre le ombre che ben conosciamo .. . Il “peso” dell'essere madre è eccessivo, nell'accezione dell'insieme di responsabilità quotidiane e di una cura esclusiva dei figli affidata ad uno solo dei genitori: la mamma. Dalla ricerca della Donath emerge come sia possibile “amare i propri figli incondizionatamente” ma rimpiangere l'esperienza materna in sé, in quanto foriera di disagi ed infelicità non previsti; la maternità, come ogni altra esperienza porta l'impronta della soggettività e della personalizzazione. Qui, la donna è portatrice di sentimenti e bisogni che s'intrecciano al suo ruolo, al suo contesto sociale e religioso, alla sua etnia di provenienza. Possiamo notare la tendenza da tempo (sopratutto nella società italiana) ad appiattire l'identità femminile su di quella materna allo scopo di ottenere coincidenza perfetta che non considera invece la maternità come esperienza in divenire e alquanto fragile, imperfetta (la buona madre tutta-mamma e solo mamma, dove l'identità di donna si annulla per far posto a quella di madre). Scopriamo così che il rimpianto unisce il passato al presente e al “desiderabile”. Il nostro contesto sociale è culturale, ideologico e cattolico, pretende di stabilire quali emozioni siano ritenute appropriate rispetto al ruolo materno. C'è qui una divaricazione evidente tra codice femminile e codice materno. Il primo ha subito un'evoluzione: la donna dipendente, fragile, incapace di autonomia economica e sociale, costretta a gravitare nella sfera maschile alla ricerca di sicurezza e protezione per sé ed i suoi figli ha lasciato il posto alla consapevolezza individuale, all'indipendenza finanziaria e ad un ruolo sociale forte, oltre ad una relazione di coppia paritetica fatta di libertà di scelte (sulla maternità, il divorzio, la professione). E il codice materno? È rimasto identico al passato: tradizionale, romantico, assoluto, soccorrevole e statico. Colei che non si adegua ad esso sarà identificata come una cattiva mamma. E' la madre che si occupa dei figli: il vuoto sociale (dovuto alla mancanza di servizi per l'infanzia e l'adolescenza), il disinteresse politico che considera i figli un prolungamento materno invece che soggetti con diritti e doveri sui quali investire amplificano e alimentano sentimenti che nutrono l'ambivalenza materna. Essa si alterna di continuo tra amore e odio e diventa esperienza dinamica di conflitto. Questo ci riporta alla ricerca sociologica di Regretting motherhood: le madri pentite, così come le non madri per scelta si ritrovano ad avere a che fare con norme sociali che le considerano al di fuori del sistema normativo. Il sentimento di esclusione (e della non appartenenza) grava sulla loro coscienza e trasforma a livello fantasmatico il futuro bambino come Altro-da-Sé minaccioso, da temere. Se la paura della non appartenenza sfocia nella scelta di una maternità, quest'ultima verrà vissuta forse come transizione automatica ed irriflessiva, confusa. La conseguente negazione del ruolo di mamma e del percorso intrapreso per diventarlo è una mera conseguenza così come il desiderio di cancellare “idealmente” l'esperienza materna vissuta. Anche la clinica della fecondazione assistita e le esperienze di depressione e di ansia invalidante a partire dalla gravidanza fino al periodo del post partum evidenziano il fatto che il codice femminile non è più al servizio di quello materno dal quale ha preso le distanze. Non mancano così le versioni patologiche opposte alla maternità, che testimoniano in altro modo la difficoltà a costruire il nostro percorso di madri, fatto di simboli, di presenza ma anche assenza e separazione necessarie. Esistono oggi madri ipermoderne, concentrate in maniera univoca su di sé e sui propri bisogni, incapaci di decentrarsi rispetto al figlio ritenuto una sorta di traino che non dev'essere d'ingombro, per non rischiare di guastare la propria immagine narcisistica (la madre narcisista, appunto). Un'altra versione corrisponde alla mamma-coccodrillo, indistinta dal figlio, presa da un rapporto con lui di sola fusione e appartenenza reciproca ideale, influenzato dal fantasma dell'onnipotenza.
Il desiderio materno se trasceso nel figlio lo aiuta ad acquisire il desiderio della vita, un desiderio unico nel suo genere, grazie ad una madre che riconosce il figlio come tale. La mamma ideale è tramontata? Forse sì. Se iniziassimo a dare spazio a quest'idea potremmo incominciare ad elaborare la sofferenza della perdita, e consentire a queste verità nuove di farsi strada dentro di noi.

Dott.ssa Francesca G. Camìsa


BIBLIOGRAFIA
O. Donath, Regretting Motherhood: a Sociopolitical Analysis, University of Chicago, 2014.
M. Recalcati, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno. LaFeltrinelli Editore, 2015.

E. Rosci, estratto da La maternità può attendere, Mondadori Editore, 2013, intervista all'autrice sul “Corriere della sera – la 24esima ora” del 11/05/2013.

mercoledì 16 novembre 2016

TEN SONGS (Hit Parade)

Siamo quel che mangiamo. Vero.
Ma siamo anche quel che ascoltiamo.
Grandi nomi della musica e delle neuroscienze (specificamente Daniel Baremboim ed Antonio Damasio) lo hanno ripetutamente dichiarato e dimostrato: i due fori che noi mammiferi superiori portiamo ai lati del cranio, senza che peraltro ci sia data facoltà di occlusione, stimolano il pensiero, con risultati che dicono di noi più di un curriculum vitae. Ciò che vi facciamo transitare, nei suddetti fori, è, a grandi linee, né più né meno il cibo che riteniamo adeguato al nostro appetito intellettuale. Inoltre, sul versante psicologico, grande euforia o profonda depressione possono seguire ad ascolti rispettivamente arricchenti o abbruttenti.
Ed è su questi ultimi che ci soffermeremo in questa occasione, al fine propositivo di arginare l'avanzata del brutto, e annientarne gli effetti distruttivi mediante il suggerimento di appropriati antidoti.
In questo elenco potreste trovare alcuni dei vostri artisti preferiti. Niente panico: vuol solo dire che ascoltate musica 'dimmerda'.
Ecco allora le...

DIECI CANZONI DOPO LE QUALI IMPICCARSI (METAFORICAMENTE)


10 - Ragazza Magica (Jovanotti)
Non pago di un successo che gli ha dato tutto, e di avere dichiarato che chi critica la sua musica “non capisce un cazzo”, il Lorenzo ci fa presente che anche sceso dal palco la sua vita non perde di slancio, grazie alle qualità uniche e taumaturgiche della sua ragazza. Antidoto: Anna Is A Speed Freak (Pure).
9 - Be The One (Dua Lipa)
Nonostante il problema con le spirate e le difficoltà di sincronizzazione con il playback, la ventenne kosovara insite nel farci presente che lei potrebbe essere 'quella giusta'. Cantante, autrice, donna, partner, modella. Di studiare, manco l'ombra. Antidoto: One (Aimee Mann).
8 - Londra (Bluvertigo)
Questo è quel che succede quando, sotto sotto, non hai mai smesso di fare il ragazzino, e scimmiottare i tuoi idoli. Secondo il leader del quartetto padano, se non comprendi quel che lui in persona decanta nei testi della band, problemi tuoi. Se lo comprendi e non vi trovi significato, è nonsense. Antidoto: Down On The Street (The Stooges).
7 - Santa Klaus Is Coming To Town (Laura Pausini)
Questo è quel che succede, invece, quando ci si reputa indispensabili: davvero ci serviva l'interpretazione della Laura nazionale per la rivisitazione di cotanta stucchevolezza? No. Il Natale è già difficile di suo. Con una simile colonna sonora non resta che la fuga. Antidoto: Reign in Blood (Slayer).
6 - Party Like A Russian (Robbie Williams)
Magnate indiscusso della composizione a la carlona, l'ex Take That, oggi ufologo, dona al mondo l'unico brano che, di questi tempi, poteva trovare un investitore nell'Inghilterra della Brexit: un attacco a Vladimir Putin in forma di canzone, testo delirante e campionamento da Prokofiev. Antidoto: Wanna Be Startin' Somethin' (Michael Jackson).
5 - G Come Giungla (Ligabue)
Qui il 'Liga' canta dei tuoi e miei problemi, con un fare che altrove rispetto al Bar Mario gli procurerebbe un sacco di guai. Lobbysmo, darwinismo e psicodinamismo spicci, vieto buonsenso e un pizzico di presunzione. I tuoi problemi, non i suoi - capisci? Antidoto: Welcome To The Jungle (Guns 'n Roses).
4 - Grande Amore (Il Volo)
Se il ministero della salute volesse impegnarsi in una campagna per l'educazione sessuale della penisola più bigotta dell'emisfero boreale, questa canzone ne costituirebbe la giusta colonna sonora. Si rabbrividisce al pensiero che i minorenni del trio possano averne concepito musica e testo. Antidoto: Happyness In Slavery (NIN).
3 - The Reason Why (Lorenzo Fragola)
Impiegare una lingua che nel tuo paese d'origine è odiata e misconosciuta, sostanzialmente per dire cose delle quali che ti vergogni. Questo il succo della hit del vincitore di X Factor 2014. Autocelebrazione eterodiretta. Da chi? Basti vedere le facce che compaiono nel videoclip. Antidoto: You (Radiohead).
2 - Nessun Grado Di Separazione (Francesca Michielin)
La prova provata che, se sei troppo giovane, non hai veramente nulla da dire (e il tanto citato talent latita). Qui siamo alla nipote che la canta al nonno. E se il nonno fosse stato il Clint Eastwood di Gran Torino, erano cazzi. Antidoto: Occupo Poco Spazio (Nada).
1 - Rosetta (Vangelis)
Scritta per la missione spaziale europea Rosetta – ma pagata profumatamente da noi contribuenti -, questa pagina si propone, con piglio da neomelodico, di fornire la colonna sonora alle imprese degli astronauti nostrani. Un modo certo per tenere lontana qualsivoglia forma di vita aliena. Antidoto: Tabla (Jon Brion).

Buon ascolto a tutti.

mercoledì 21 settembre 2016

Varie ed Eventuali

In un periodo caratterizzato da una pletora di argomenti di assoluta rilevanza, eccone cinque che mi hanno particolrmente irritato.

Charlie Hebdo

Ha fatto discutere la vignetta del settimanale satirico sul terremoto in centro Italia. Fiumi di parole e nessuna vera analisi critica dei contenuti. Tranne quella di Daniele Luttazzi – passata naturalmente sotto silenzio-stampa (a riprova che gli ordini di Berlusconi valgono ancora oggi come encicliche papali). Ditemi perché, se è sensato chiedere lumi ad un politologo quando non capiamo un cazzo della politica nostrana, non lo è rivolgersi ad un autore satirico quando non si capisce una battuta? Quella di Luttazzi è una spiegazione chiara; diretta; compressa in un lessico appropriato; capace di fornire anche agli sprovveduti criteri di lettura affidabili. Andate a leggerla: ne uscirete arricchiti. Pochi sono in grado di interpretare il presente come fa Daniele Luttazzi per mezzo della propria tecnica satirica. Che la televisione italiana tutta abbia estromesso un talento come il suo, la dice lunga sulla condizione ideologico-culturale della televisione italiana. Tutta.

Il Ciclone

A Radio Deejay hanno definito “film storico” Il Ciclone di Leonardo Pieraccioni. Motivazione: il dicembre prossimo la pellicola compie 20 anni. Un po' come quando ti dicono che a diciotto sei 'maturo'. Pieraccioni come Bergman, quindi. Mi rendo conto della sterilità di questa mia nota scritta: nulla di diverso da quanto qui riportato verrà mai partorito dall'emittente di Via Massena. Il suo pubblico è fatto così: persone che concepiscono la storia come serie di avvenimenti seguiti alla loro nascita. Il compleanno come anno zero. Come per Gesù Cristo. Ciliegina sulla torta: al fine di celebrare lo 'storico' genetliaco, il film è stato proiettato sulla facciata della basilica di Santo Spirito, a Firenze, lo scorso dodici settembre. Leonardo Pieraccioni, dal suo, ha fatto sapere che l'intenzione 'registica', dietro allo sforzo di 20 anni fa, era quella di fornire allo spettatore uno sguardo non tanto sulla vita in Toscana, quanto sull'Italia “nel suo insieme”. Io, che in questi 20 anni, non sono mai riuscito a liberarmi della sua visione (del film, ma anche di Pieraccioni stesso), non ricordo, in sala, spettatori confusi, convinti di assistere ad uno stralcio di vita dello Jutland o della Danimarca “nel suo insieme”. Ad ogni modo, grazie, Leonardo. (Nota a margine. Avete notato l'evoluzione del clero quanto a costume sessuale? Nessuno ha più niente da dire, nel proiettare in faccia ad un edificio sacro sequenze di donne semivestite e sudate, impegnate nella sensuale danza flamenco. Visione consigliata: Spotlight, di Tom McCarthy).

Nostalgia Canaglia

Filo diretto con gli ascoltatori nel corso della rassegna stampa del mattino di Radio Rai 3. Con voce commossa una radioascoltatrice notifica il conduttore dell'immenso piacere provato nel rivedere Cesare Salvi (!) alla recente reunion dei dalemiani qualche settimana fa. È proprio un paese di nostalgici e di retrogradi, il nostro. Come si può provare piacere di fronte a simili riesumazioni? Chi è in grado, senza pensarci a lungo, di citare un provvedimento, una legge, una battaglia, una qualsiasi azione o frase per i quali uno qualsiasi dei politici nostrani degli ultimi 25 anni verrà certo ricordato e rimpianto? Nonostante questo, con persone così condividiamo la cabina elettorale. Emotivi politici. Sapete che ha detto Clint Eastwood recentemente? Che a correre per le presidenziali avrebbe voluto Chesley Sullenberger, il pilota che 2009 ammarò magistralmente nell'Hudson salvando le 150 vite di cui era responsabile – e figura sulla quale si incentra il suo ultimo film. Marchetta? Certo. Sparata? No. Nonno Clint ci ha dato, qui, gli unici hashtags sui quali si dovrebbero concentrare tutte le nostre riflessioni social: civile e responsabile. #civile, #responsabile. Meditate, gente. Meditate.


Bridget Jones' Baby

Ecco un bel film per l'italietta del Family Day, che si appresta ora ai festeggiamenti nello spinoff dedicato alla fertilità. È proprio vero che, se un grande come Colin Firth non può permettersi di rifiutare una simile indecenza, a livello di grande-produzione, la libertà artistica è inesistente - e che, anche nell'Inghilterra della Brexit, se non fai un figlio, ti rompono i coglioni. Il caso vuole che da noi il film esca a ridosso del Fertility 'Fuckin' 'Day. (Ricordate il prologo di Magnolia? “Queste strane cose accadono di continuo.”.). Nel cast anche Patrick Demsey, lo Stranamore di Grey's Anatomy, stanco delle scopate in corsia. Di chi sarà il marmocchio? Grey's Nursery. Shit, Actually.

Vasco Rossi & Il Fertility Day

Ho impiegato trent'anni a capirlo, che Vasco Rossi è un cantautore di razza (perdonami, Blasco). Del 1983, infatti, la strofa “Credi che basti avere un figlio / per essere un uomo e non un coniglio”, dal brano Deviazioni. Coraggioso e profetico (nota per gli aderenti alla Lega: facile oggi strumentalizzare un altro celebre verso Rossiano come “è andata a casa con il negro, la troia”, quando il culo, sulla graticola, ce l'ha messo un altro). Rincara la dose (mi si risparmi l'ironia, qui, sui trascorsi tossicomaniaci del Rossi, grazie), sul finale, con i versi: “Quante volte, quante dai / C'hai pensato / a me lo puoi dire, sai / Mica ti voglio far del male, dai... / Quante deviazioni hai”. Penso non ci sia slogan migliore per chi, il 22 settembre prossimo, interromperà il coito, in opposizione a questa iniziativa. Personalmente, ritengo di avere avuto le strapalle già al tempo quando di prole non ne volevo: è grazie ad esse che oggi ho una bambina fantastica, e non il contrario.

domenica 11 settembre 2016

Lettera Aperta (al sindaco della mia città)

Egregio Sindaco Gusmeroli,
Mi chiamo Stefano Parenzan e vivo ad Arona.
Scrivo Lei questa lettera aperta, sul tema delle biciclette nella nostra città.
Nelle ultime settimane, passeggiando su due ruote, mi sono ripetutamente imbattuto nei richiami – solo successivamente realizzati come tali – di persone in abiti civili - di fatto, mi è stato poi spiegato, volontari del comune. Al mio indirizzo è stato intimato, in altrettante occasioni, di: non affrontare un percorso non meglio definito; scendere dalla bicicletta; ricordare il rapporto tra carreggiata e marciapiede.
Realizzato, allora, di avere commesso atti che per queste persone sconfinano nell'illecito, giorni dopo ripeto gli identici percorsi alla ricerca della cartellonistica di proibizione e limitazione che, a questo punto, è chiaro io non abbia visto.
Nonostante l'esito negativo della ricerca, ancora stamane parole tra me ciclista e lui pedone.
Mi sono allora chiesto da dove venga questa improvvisa – e del tutto inaspettata – verve normativa. Che è successo a questi concittadini che si ergono a paladini intransigenti dell'area pedonale, insofferenti a che vi si vada rispettosamente, a passo d'uomo, con prole a bordo e financo con carrozzina e passeggino (a quando il cazziatone alle sedie a rotelle in contromano sul marciapiede?)? Ed ho scoperto, in seguito ad una semplice ricerca, che le Sue parole, sindaco Gusmeroli, postate ieri, 2 settembre, alle 8:38, su 'Arona È Nostra', sono state assunte a vangelo da moltissime di queste persone.
Sindaco Gusmeroli, ho molti colleghi che mi chiedono perché io affronti senza ostentare insofferenza i tanti chilometri che mi separano dal luogo di lavoro. Puntualmente rispondo loro che poter crescere la propria creatura in un posto dove si dispone della costa di un lago per passeggiarvi, con tutto quanto questo comporta in termini di qualità della vita, dall'aria buona ai panorami mozzafiato; la dimensione ancora umana dell'abitato, il decoro urbano; la pulizia; i servizi, tutto questo vale la pena di un po' di strada in macchina. Questo ho sempre detto e pensato fino all'avvento della tolleranza-zero nei confronti dei ciclisti, due settimane fa circa.
Certo: non sono persona “senza peccato”. Ho peccato nel non aver sempre rispettato il codice della strada quando in bicicletta. Sono un peccatore, Sindaco Gusmeroli. Ma non sono un intollerante. Questo è il punto. E l'intolleranza che molti aronesi sembrano aver messo in campo trova – ahimè - supporto nell'inflessibilità da Lei manifestata sull'argomento. Inflessibilità della quale Le faccio lode: un sindaco che si rispetti deve regolamentare per mezzo di ordinanze, pena il caos. Ma quelle parole, Sindaco – ne Converrà -, sono state mal interpretate. E Deve porvi rimedio. Le tensioni intraspecifiche – tra aronesi, tra ciclisti pro e contro – non sono segno di salute civica: ne segnano il decadimento. Emetta un'ordinanza dove le biciclette con bambini a bordo vengono assimilate alle carrozzine e ai passeggini, con identica libertà di movimento. Gli spazi che noi genitori impegnamo a volte in maniera eccessivamente disinvolta quando in bicicletta con i nostri bambini si devono semplicemente alla pericolosità dei regolari percorsi urbani. I percorsi (tutti sulla costa) che negli ultimi tre anni ho affrontato con mia figlia a bordo, Deve sapere, sono d'improvviso divenuti terreno di scontri, no-fly zones dove la rissa verbale e fisica è potenzialmente possibile, manco fossimo a Inglewood '94. Questo non è mai successo, prima. È un comportamento da calmierare. E ciò può avvenire solo attraverso un Suo richiamo al buon senso – e rimettendo le funzioni di rilevazione e sanzionamento degli infrattori agli organi preposti, non a volontari.
Lei è il mio sindaco, signor Gusmeroli. Io La riconosco e rispetto come tale. Da me non avrà problemi. Starò alle regole. Sono stato educato così. Ma se Vuole aspirare ad un terzo mandato onorifico, alla Rudy Giuliani, per intenderci – e mi sembra che una persona della Sua ambizione possa permetterselo -, ecco: Regali la città la pista ciclabile che Ha promesso: degna di questo nome, normata, che tolga ai ciclisti come me quegli alibi che, ad oggi, giustificano alcune loro azioni. Avrà, lo prometto, il voto che Le ho negato fino ad oggi.
Con i più cordiali saluti...
SP
(Arona, 3 settembre 2016)

domenica 28 agosto 2016

A Prova Di Proiettile

Premesso che non mi sembra di rientrare nella categoria degli snobs monomaniacali, carbonchiosi, condiscendenti e veramente elitarii; che sull'argomento, esplicitato nel titolo, sono stati scritti fiumi di parole, sovente di eccelsa qualità, spesso da parte di sedicenti fans con palle letterarie di acciaio e passione invidiabile; che questo – utile ricordarlo, periodicamente – è uno spazio personale e pertanto deputato ad ospitare ne più ne meno l'opinione, il pensiero e il sentire del momento di chi lo ha creato e – si suppone – lo gestisce. Premessa inoltre la convinzione di vivere un'era di grandissima difficoltà esistenziale, di malattia mentale dilagante, di crescente aggressività fisica e verbale e di carestia affettiva, mi sono imbattuto nell'ennesimo brano degli amati/abusati Radiohead, che penso meriti dell'attenzione, una pausa di riflessione e magari – perché no? - lo status anomalo di 'consiglio per gli acquisti'. (Premetto anche che, ultimo scritto del genere la-canzone-che-mi-ha-fatto-innamorare [bleah!], dal prossimo post si tornerà a parlare di calcio, puttanelle, tronisti, politici, video virali, polemiche social e rimbambiti vari, argomenti che sembrano non conoscere eclissi alcuna, garantendo nel contempo statistiche di visualizzazione da capogiro).
Non ho mai amato particolarmente The Bends, il secondo disco in studio dei cinque di Oxford. Iniziai ad apprezzarli morbosamente in tarda età (a dispetto del clamore discografico e culturale), grazie a mia moglie, quando erano già, a ragion veduta, a leggenda vivente. Era l'anno 2003. Il riferimento discografico Hail To The Thief. Ed essendo, quest'ultimo, un disco di conferma del percorso intrapreso tre anni prima con Kid A, pose dei paletti profondi nel catalogo del gruppo, facilitando il mio ascolto nei confronti dei lavori successivi a The Bends. (A beneficio dei più giovani e dei non credenti: il culto - prima sotterraneo, poi di superficie – che ha interessato questa band fin dagli esordi, è ben esemplificato dalla spedizione, in quel di Londra, che un gruppuscolo di giovani di una piccola frazione sui colli sopra Arona organizzò nella speranza di far coincidere lo sbarco a terra con un live dei nostri - in un lontano 1994 dove gli U2 occupavano ad esaurimento-posti i gusti di massa europei e statunitensi, il quintetto inglese aveva alle spalle un solo disco, e le politiche a basso-costo del trasporto aereo, unite alle comodità web, non esistevano [cosa che complicava questo tipo di trasferta di non poco, quasi sempre costretti a viaggiare su voli charter di babbioni inglesi al rientro dall'italian trip: per capirci, gli stessi che due mesi fa – sicuro – hanno votato a favore della Brexit. Grazie al cazzo, fellas.]). Generalizzando molto, si tende a considerare come 'd'esordio' i primi due dischi, Ok Computer come transizione verso una cifra stilistica radicalmente nuova, i due successivi come la grande svolta, e quindi un graduale dissolversi nel mito, fino ai giorni nostri. In preda a quella noia mortale che l'estate insiste a voler elargire, ho riascoltato The Bends. Con piacere. Al momento di Bulletproof... I Wish I Was, ho avuto la sensazione netta di un'illuminazione: fu in quel brano che le incrinature nello stile musicale dei Radiohead diedero vita a quel percorso di crescita artistica e cambiamento che ha forse un unico, illustre precedente: i Beatles di Rubber Soul.
Mi sono sempre domandato quale sensazione può avere provato Thom Yorke, il giorno nel quale ha lasciato lo studio di Abbey Road per tornare in albergo - o magari a casa, vista la vicinanza con Abingdon OX-, dopo avere registrato la versione di Bulletproof... I Wish I Was che è possibile sentire alla traccia nove di The Bends. Non fosse per i suoni che si suppone siano stati sovraincisi alle parti di voce e chitarra, il brano presenta la struttura classica della ballata. Ma sono proprio queste tracce, una delle quali apre la registrazione, a costituire quella massa liquida, semovente, che regala all'ascoltatore attento la sensazione di qualcosa di prossimo d accadere, un'inquietudine che accentua le immagini di disfacimento, desiderio di morte e di esibizione della propria intrinseca fragilità presenti nel testo.
Limb by limb, tooth by tooth

Tearing up inside of me

Every day, every hour

I wish that I was bullet proof
Wax me, mould me

Heat the pins and stab them in

You have turned me into this

Just wish that it was bullet proof,

Was bullet proof
So pay the money and take a shot
Lead-fill the hole in me
I could burst a million bubbles

All surrogate and bullet proof

And bullet proof

And bullet proof

And bullet proof
Arto dopo arto, dente per dente
Mi lacera da dentro
Ogni giorno, ogni ora
Ho sperato d'essere resistente a tutto
Ricoprimi di cera, modellami
Prepara gli aghi e piantaceli dentro
Tu mi hai reso così
Solo speravo di essere resistente a tutto,
Resistente a tutto
E allora paga e concediti un colpo
Colma di piombo il mio vuoto
Potrei scoppiare mille e mille bolle
Tutte quante finte e a prova di proiettile
E a prova di proiettile
E a prova di proiettile
E a prova di proiettile
Ancora una volta il cantato di Thom Yorke si rivela una miniera di sensibilità e delicatezza. Reo confesso nel riconoscere la propria pronuncia come non esattamente received, da scuola di dizione, strega chiunque ancora serbi un briciolo di umanità ed empatia già dal primo verso, con quelle tipiche sillabe smozzicate in grado di rendere in modo spaventoso questa condizione di fragilità allo stremo.
Così come un identico ammontare di sanità psichica facilita il tentativo di non invidiare il protagonista della canzone, pronto ormai al colpo di grazia.
Eppure... Eppure c'è quell'arpeggio vagamente frattale, luminoso, sovraincisione di due chitarre, che fa la sua comparsa al termine della seconda strofa. E che viene ripreso più avanti, fino a chiudere la traccia. Perché così bello? In tonalità maggiore. Carico di speranza. Sembra una dichiarazione in punto di morte, questo arpeggio, sulle parole “was bullet proof”. Il suo autore (del brano) non ha mai fornito, al riguardo, molte indicazioni, disponibile, evidentemente, a lasciare che l'ascoltatore colga nell'opera tutto quanto più chiaramente risuoni dentro di esso (dentro l'ascoltatore). Personalmente nutro la convinzione che in questo inserto di inaspettata positività si sia cercato di convogliare un messaggio ad esaltazione della fragilità. Ho sofferto all'inverosimile – dice il cantato – per le scelte che ho fatto. Ne ho pagato il prezzo fino al dovuto. E lì ho scoperto di non essere, come pensavo, 'a prova di proiettile': sono fragile, un cristallo. Ma questo sono io: nessuno ne ha colpa e nessuno pagherà per questo. È l'arpeggio a comunicarlo: sono fatto così.
Dicevo: mi sono sempre domandato quale sensazione può avere provato Thom Yorke, quel giorno. Ho una risposta: la sensazione di avere comunicato qualcosa, in maniera profonda, il più possibile sincera, e di avere lasciato di questo processo di confessione una testimonianza incantevole. Un capolavoro.
Non è infatti il non-detto, l'origine delle nostre più profonde nevrosi?

iUn grazie a DFW.

lunedì 8 agosto 2016

Il Vero Amore

AVVERTENZA! I paragrafi che seguono, contengono opinioni che, per espressa volontà dell'autore, possono essere impiegati in pubblico quando in presenza di soggetti arroganti, presuntuosi, saccenti e musicalmente illetterati, e ciò al fine socialmente utile di riportare il dibattito cultural-musicale nelle rispettive sfere di competenza. L'autore si impegna, inoltre, a non adire le vie legali a tutela della propria produzione di pensiero. Ugualmente ogni utilizzo delle suddette opinioni andrà comunicato all'autore tramite ricevuta fiscale recante dicitura n°1 Spritz, Pagato (Bar I Bastioni, Piazza Gorizia 1, Arona [chiedere di Fays Diversamente Bello]) o, in alternativa, con ricevuta di bonifico attestante l'avvenuta donazione ad ONLUS di propria scelta purché operante nella lotta all'abolizione del decespugliatore a scoppio. Non fiori, ma opere di bene.

Nell'ormai lontano anno 2001, gli inglesi Radiohead pubblicarono una raccolta di brani dal vivo intitolata I Might Be Wrong: Live Recordings. Dodici brani che, definitivamente escludendo – e quasi negando –, la produzione degli esordi, pescavano nel bacino seminale dei due ultimi lavori, Kid A ed Amnesiac. Unica eccezione: l'inedito, a chiusura del disco, True Love Waits.
I'll drown my beliefs...
Dai tempi di Ok Computer, True Love Waits aveva cercato forma e collocazione, senza però trovarla in alcuno dei lavori citati. Da qui l'idea di liberarsi della sua presenza fantasmatica includendola nella raccolta dal vivo - operazione che, dal punto di vista commerciale, rispondeva a quelle regole del mercato discografico che i cinque inglesi avrebbero sovvertito radicalmente, sei anni più tardi, con la pubblicazione di In Rainbows, mediante la formula “Pay What You Want” ed un'iniziale, esclusiva distribuzione on-line. Ma ecco che, come una nevrosi rimossa, a quindici anni di distanza True Love Waits riappare, in un arrangiamento sofisticato e inquietante, all'interno dell'ultimo A Moon Shaped Pool. Traccia 11. Di nuovo a conclusione di un disco.
Per una serie di ragioni che andranno delineandosi nel testo, chi scrive è rimasto affezionato (stregato?) alla precedente versione, la cui struggente bellezza costituisce l'oggetto di questo scritto. Si tratta, nella sostanza, di un brano tonale (do maggiore, con un solo accordo estraneo ad allargare la tonalità alla fine di ogni verso) per voce e chitarra acustica. Il testo - di una commovente disperazione -, come spesso accade nella produzione del quintetto inglese, è attribuito al collettivo (all songs written by Radiohead...). Ed è non poco interessante il fatto che cinque teste 'radiosonore' come quelle in questione abbiano concordato nel ritenere il solo sottofondo di chitarra adeguato alle esigenze espressive della canzone.
… And wash your swollen feet...
Thom Yorke è, senza possibilità di discussione, una delle figure più asimmetriche dell'arte di oggi, somaticamente e musicalmente. Disforico nel personaggio del rocker, della rockstar, ha mostrato, nel tempo, una crescente, naturale predilezione per ritmi dispari e sincopati, e per un falsetto la cui funzione iniziale era principalmente quella di discostarsi dagli stereotipi delle voci piene – pur con tutte le possibili sfumature timbriche -, tipici delle figure suddette. Divenuto, suo malgrado, un marchio distintivo, il falsetto a la Yorke ha in qualche modo influenzato la produzione testuale del gruppo, che sempre di più si è improntata a tematiche legate a stati psicologici (Paranoid Android, The National Anthem), all'individuazione di inusuali luoghi di sofferenza umana (Everything In Its Right Place, Where I End And You Begin) e a delicatezze dettate dalle singole sensibilità (Nude).
… I'm not living,
 I'm just killing time
...
Urge, a questo punto, specificare le motivazioni che hanno spinto chi scrive ad occuparsi di questa canzone, e perché proprio in questo momento.
26 luglio 2016. ore 21:35. Autostrada A1. Altezza Napoli Nord/San Nicola. Una pattuglia della Polizia Stradale rinviene, nel corso di un pattugliamento d'ordinanza, la presenza di un corpo umano legato con degli stracci all'asse di un TIR. Si tratta di un ragazzo afgano di quindici anni che, stando alla documentazione di trasporto esibita dall'ignaro autista, uno spagnolo, ha viaggiato in quelle condizioni dalla Grecia. I parametri vitali sono ai minimi fisiologici, ma il giovane è vivo, e le cure pietosamente somministrate presso il vicino ospedale gli salvano la vita.
… Your tiny hands...
Al leggere questa notizia ho pensato: bene, potrei piangere. O, al contrario, fare finta di nulla. O, ancora, estetizzare questa sensazione rifugiandomi in un ascolto musicale, nella atavica speranza che la buona musica mi preservi dal divenire un mostro di cinismo e di insensibilità. Opto per quest'ultima soluzione, la via più facile. Allora mi chiedo: se, come sosteneva Foster Wallace, scopo dell'arte è quello di farci sentire meno soli, più vicini gli uni agli altri, esiste oggi, nella musica, un'opera che assolva a questa funzione? Capace di rappresentare i sentimenti che insorgono di fronte ad un simile orrore? In grado di descrivere i postmoderni luoghi dell'amore violato così come quelli dell'amore atteso? Ed ecco che, dopo un poco, mi torna alla mente una canzone. La canzone che chiudeva un disco.”
… And true love waits

In haunted attics...
Ha ragione Mauro Covacich: nella moderna cultura occidentale non vi è nulla di più profondo della musica dei Radiohead, nulla che più di essa si adatti a descrivere questo nostro tempo, colonna sonora di un'umanità dolorante e poesia in grado di risvegliare sentimenti pericolosamente assopiti. Il vero amore. Pensiamoci. Non più quello che la nostra generazione è stata addestrata a dare, bensì l'amore che chiama, urge, pretende di essere colto lì dove il suo bisogno è vitale, ma sempre senza alzare la voce. Esattamente come fa Thom Yorke in questa esecuzione mozzafiato. Il vero amore non va in diretta streaming e neanche via satellite. Il vero amore sa attendere.
… 
And true love lives

On lollipops and crisps...
Si è passati dalla gioventù bruciata alla gioventù violata. Dalle soffitte popolate di fantasmi al semiasse di un camion in corsa.
I miei quindici anni sono stati, almeno formalmente, un bel periodo, esente da grandi traumi. Eppure la rabbia di quei giorni, l'inadeguatezza, la frustrazione, sono ancora facilmente richiamabili alla memoria. Credo sia stata, generalizzando, l'esperienza di molti coetanei e connazionali. Penso, allora, alla rabbia che può passare nella testa di un quindicenne costretto ad abbandonare tutto – tutto - nel tentativo, privo di certezza, di una vita non dico migliore, ma quantomeno diversa da quella dell'Afganistan 2016. Che per fare ciò è costretto a legare il suo corpo vergine al ventre di un autotreno, dal suo paese a casa nostra. E che, salvato per miracolo al termine del viaggio, si veda rispedito a casa. Ecco. Potrebbe balenare, in questo ragazzo - questo figlio indifeso che nella mia mente bacata continuo a chiamare Senzanome, come il fragile personaggio dei Minicuccioli - una sana idea di vendetta, una fantasia in grado di riscattarlo da un esperienza che nemmeno Primo Levi avrebbe avuto remore nel definire concetrazionaria-postmoderna. Può essere che il lieto fine - dove per tale è da intendersi il semplice essersi salvato, e non la becera visione, frutto di troppo brutto cinema, di chi, nei commenti alla notizia, ha gioito (Rejoice) al pensiero del ritorno a casa del giovane, tra le braccia della genitori), l'inesperienza, la mancanza di un metro di giudizio rispetto allo stile di vita della vecchia Europa, gli consentano di rimandare la stesura di detto piano all'età della maturità. E verrà quel giorno. I contorni della sua tragedia personale diverranno nitidi. La storia che studierà gli dirà di come la stessa Europa presso la quale ha cercato rifugio senza trovarvelo, abbia condotto alla morte, il 10 settembre 2001 (!!), Ahmad Shah Massoud, inascoltato, al termine di due giorni di sfiancante, burocratica attesa nelle stanze del potere di Bruxelles - l'unica figura in grado, allora, di garantire al suo paese l'Afganistan dei Talebani, uno sforzo per una vita diversa da quella che lo ha costretto sull'asfalto caldo e veloce di un'estate della sua gioventù. Si persuaderà, forse, che quel Cristo tanto venerato dagli europei non era poi così grande, se questi sono tanto indifferenti, e si rivolgerà ad altro profeta. Un momento di feroce, spietata lucidità, dicevamo, che potrebbe avere luogo e trovare sfogo in un bistrot, ad una fermata della metropolitana, allo stadio, in un centro commerciale, nella hall di un aeroporto, in una chiesa o ad uno dei concerti ai quali noi occidentali amiamo darci appuntamento 'per fare casino'. Il concerto di un quintetto inglese, magari. Durante una canzone i cui versi finali fanno...”
… Just don't leave
...
...
Don't leave

True Love Waits è una delle canzoni più belle, commoventi e rappresentative di questo nostro tempo travagliato.