Kurt Cobain non era una persona maleducata: era una persona disperata e sincera. Il materiale video che lo ritrae in contesti non performativi - oggi disponibile in rete in quantità industriale, per quanto non sempre di buona fattura – ne fornisce una testimonianza palpabile e a tratti struggente - almeno per coloro che lo hanno davvero amato, come artista e come persona.
Non ho motivi per assumere in questa sede – come, d'altronde, in qualunque altra - la difesa di una rockstar che, per quanto leggendaria e financo defunta (o forse leggendaria, per i più, proprio perché defunta), ha sempre saputo tutelare autonomamente la propria persona semplicemente assumendo, a seconda dei frangenti, atteggiamenti schivi quando non freddamente o smaccatamente ironici (per capirci, ad un giornalista che si era permesso di chiedergli se gli piaceva la vodka, riducendolo in tal modo, seduta stante, da artista ad enologo, rispose senza preamboli ne chiose: “I like vodka”).
Ne ho invece diversi, di motivi – e qui sta il punto -, per attaccare a testa bassa i tanti che, in terra italica, ne strumentalizzano da tempo la memoria facendo leva, principalmente, su due punti: l'ignoranza olimpionica di quest'ultima generazione - cui tutto può essere raccontato, certi di vedervi tributato il suo solito, apatico credito - e la distanza trentennale che separa questi tristi giorni dall'opera e dalla scomparsa di Cobain – fattore respingente cui solo una buona memoria nell'ambito del costume e della cultura pop è in grado di opporsi.
Nutro una vera e propria ossessione, per quelli di Radio Freccia, un po' come la sinistra pidina con Berlusconi ai tempi d'oro di quest'ultimo (i tempi d'oro del PD non li ricorda probabilmente nemmeno Enrico Letta). Si spacciano per gli alternativi, portatori di una non meglio specificata esperienza di vita, puntualmente ventilata ad ogni jingle, manco fossero reduci da una guerra o da una turnazione con Emergency. E lo fanno bellamente in un contesto, quello dell'emittenza-radio nazionale, dove è completamente assente ogni vera alternativa o forma di concorrenza (a meno di non considerare come tali stazioni-radio quali Radio Capital o Virgin Radio), uomo solo al comando.
Quest'anno ricorre il quinto compleanno di Radio Freccia. Per festeggiarlo, è stata realizzata una serie di spot audio-video nei quali gli autori dell'emittente (ma esistono davvero? E chi sono?), al suono di alcune tra le più significative canzoni di Cobain e dei suoi Nirvana, hanno inserito le peggiori fregnacce che si potessero imbastire in una simile occasione ed in un simile contesto.
Ecco di seguito, in esclusiva per i sempre più radi lettori di Sala Colloqui, alcune delle cialtronerie di cui sopra, e, fra parentesi, i titoli dei brani ai quali sono state impunemente associate. Giudicate voi (sintassi e punteggiatura a cura della spettabile azienda Radio Freccia).
Ci conosciamo bene. Siamo sintonizzati sulla stessa frequenza. [Radio Freccia] Libera come noi (In Bloom).
Per noi la libertà è una cosa diversa. … liberi di guardare un film che racconta una storia che non hanno il coraggio di vivere (Polly + Smells like Teen Spirit).
Ci vuole fegato per vivere in questo mondo folle... ci vogliono un sacco di cose per vivere in questo mondo folle. A darti il rock ci pensiamo noi. Riesci a prendermi, vita? Se non ci riesci, è perché ballo forte. E se non ti stringo la mano, è perché ce le ho entrambe per aria (In Bloom).
È il rock, l'unica freccia che più ti colpisce e più ti fa sentire vivo (Breed).
Mi immagino, qui, Cobain con il fucile in mano, qualche attimo prima di spararsi in testa. E che quelli di Radio Freccia (gli 'sfrecciati', come amano definirsi), per un caso fortuito, stiano passando davanti a quell'americanissimo ed alquanto comune capanno per gli attrezzi, così cogliendo Cobain proprio nel mentre sta puntando il fucile. Cobain li vede, lancia loro uno sguardo supplice, implora davvero per l'ultima volta di dargli una buona ragione per non farlo, la speranza che vi sia ancora una soluzione da tentare. E loro: - Kurt, no! È il rock, l'unica freccia che più ti colpisce e più ti fa sentire vivo.
BUM!
Molte delle canzoni di Cobain – ed in particolar modo quelle impiegate da Radio Freccia per suoi recenti spot celebrativi – sono caratterizzate da un'impostazione sostanzialmente non-ideologica, amorale. Non impartiscono lezioni né, tantomeno, hanno la pretesa di costituire viatici à la carte per qualsivoglia tipo di condotta. Sono piuttosto canzoni impregnate di sofferenza, di disincanto, di ironica amarezza – tratti, questi, facilmente riconducibili ai trascorsi abbandonici vissuti da Cobain in infanzia e buona parte dell'adolescenza. Giovanilismo, disagio psichico, esclusione, la disperazione nello sguardo altrui, la ricerca di un briciolo di sincerità nei rapporti umani, sono tutti aspetti del vivere che proprio le canzoni di maggior successo dei Nirvana hanno fatto risuonare in animi spesso spenti e indifferenti – non esclusi quelli di molti fan -, attraverso la voce rabbiosa, a tratti implorante, di Cobain – e va da sé che quel che cantava era fuor di dubbio sé stesso, la sua visione nera e bipolare della vita. Ecco: nessuno – dico, nessuno – di questi temi è in alcun modo riconducibile agli arbitrari e manipolatori montaggi operati dalla redazione di Radio Freccia. Il loro messaggio – sempre che si sia disposti ad individuarvene uno od anche più – è qui integralmente distorto a fini meramente autocelebrativi e commerciali (commuove, nel tentativo di dare seguito a quest'ultima considerazione, il ricordo dello scatto del fotografo statunitense Mark Saliger per quella che fu la prima copertina di Rolling Stone dei Nirvana [aprile 1992], quando Cobain si presentò sul set indossando una maglietta con la scritta Corporate-Magazines-still-suck).
Quella della manipolazione delle parole, della distorsione senza scrupolo della verità altrui, della più irrispettosa strumentalizzazione, è un costume che, in Italia, ha attecchito, più o meno, in quel lontano aprile del 1994 (un caso, certo, ma alquanto significativo). Qualche giorno prima del suicidio di Cobain, infatti, un partito fondato con un solo anno d'anticipo sulle elezioni politiche, si piazzò al primo posto con uno sconcertante score del 21%, in tal modo travolgendo tutto quanto politicamente ed ideologicamente l'aveva preceduto. Il nome del partito era Forza Italia, e con il consenso creditatogli in cabina elettorale il paese aveva dato credito alle sue promesse per un futuro fatto di fica, caviale e champagne. Da allora la pianta è cresciuta, le sue ramificazioni hanno lentamente, ma inesorabilmente, invaso ogni ambito del paese: politico, civile, culturale. L'italiano medio è passato da una condizione di semianalfabetismo ad una apparentemente più innocua di compiaciuta passività, dove la circonvenzione è supinamente accettata a patto di saperla composta da atteggiamenti tonitruanti, immagini patinate, vocabolario basic, una malcelata bibliofobia ed un opportunismo raro. In termini mediatici, esattamente quanto Radio Freccia va praticando con gli spot dell'anniversario. Libera come noi, quindi, di dire tutto e il contrario di tutto (non si dimentichi che la coalizione vincente in quell'aprile funestato dalla scomparsa di Cobain rispondeva, appunto, al nome de Il Polo delle Libertà): l'importante, è farlo in altissima definizione.
Ma a questo punto, passando da Kurt Cobain a Vasco Rossi, da Aberdeen WA a Zocca (MO), ad un territorio, cioè, a noi più familiare, viene proprio da chiedersi: “Liberi, liberi / liberi da che cosa? / Chissà cos'è?”.