Konrad
Lorenz sosteneva che, qualità distintiva dell'essere umano, è la
riflessione.
A questo ho
pensato, sere fa, rincoglionito da uno zapping di
fine-giornata, bello spaparanzato sul divano di casa. Mi becco questa
pubblicità interna all'emittente su non so quale nuova proposta
serale. Arriva diretta come lo Shinkansen Tokyo-Osaka, montata
visivamente e testualmente ad una velocità strabiliante, roba al cui
confronto David Fincher sembra Ingmar Bergman. Termina, ed io non ho
minimamente afferrato il “consiglio per gli acquisti”, essendomi
perso nello sforzo inatteso, dettato dal super editing. Beh,
certo che qui, di spazio per riflettere, non ne hanno destinato
molto. Errore o strategia? Eppure la generazione cui mi è toccato
appartenere è quella di Blob – Di Tutto Di Più, la prima,
dopo la grande rivoluzione televisiva degli anni '50 e '60, ad avere
spontaneamente appreso il linguaggio del 'montato', similmente a come
oggi i giovani si appropriano in identica maniera dei linguaggi
informatici e cibernetici, postumi alla ultra-veloce rivoluzione
digitale. Vero anche che, per gli odierni criteri di valutazione,
quelli come me son considerati 'matusa' da un po', e quindi deputati,
per anagrafe, a non capire più un cazzo. Di inetti che non sanno
quel che fanno, è pieno il mondo. Ma se così non fosse, e si
trattasse, invece, di una scelta comunicativa? A quale specie – o
subspecie – di persona è primariamente indirizzato un simile
messaggio? La mia tesi, semplicistica, è che una massa non istruita
a riflettere si assoggetta meglio al subliminale, stile videoclip.
Ma ecco le
mie accucciate, fedeli sinapsi condurre, con altrettanta velocità,
ad un'altra figura: P.T. Anderson. Mi viene facile, e spontaneo,
parlare del cinema di Paul Thomas Anderson. È facile quando sei
completamente all'asciutto da ogni bagno ideologico
intellettual-sovrastrutturale (non ho mai studiato cinema). È facile
se ti senti appassionato dalle sue realizzazioni per il grande – e
piccolo - schermo. È facile quando, autodidatta, ti trovi a parlare
di figure con identico tuo retroterra. Lungi da me il
voler anche solo alludere a comunanze di qualsivoglia specie con il
regista californiano. Al posto della scuola di cinema, il giovane
Paul Thomas scelse di imbucarsi negli innumerevoli sets che,
negli anni '80, impiegavano quasi ogni abitazione libera della nativa
Studio City. Il vostro umile estensore fece lo stesso con la musica,
imbucandosi similmente, e proprio negli stessi anni del suo paladino
cinematografico, nelle sale-prova che sorgevano ovunque vi si
trovasse un locale sfitto. È un po' come avere svolto insieme il
servizio di leva. Questo, in parole povere, il comune retroterra.
Sono reduce
dalla visione dei due ultimi videoclips che Anderson ha girato
per la band Radiohead, Present Tense e The Numbers.
Una visione minimale non solo per la formazione ridotta (si tratta di
esecuzioni dal vivo per chitarre, voce e drum-machine con i
soli Thom Yorke e Johnny Greenwood – quest'ultimo, autore, per il
regista californiano, di due colonne sonore): minimale per concedere
a queste intensissime esecuzioni il giusto spazio ed il giusto
respiro. Tecnicamente si tratta di gesti cinematografici che tutti
potremmo compiere, a patto di metterci dell'impegno. Ambientazione in
esterna; piano-sequenza; qualche stretta in primo piano. Nulla di
trascendentale. Non è Magnolia, okey? Perché, allora,
cotanto regista minimalizza il proprio intervento fino al confine
della sparizione (tra l'altro, tema, quest'ultimo, non indifferente
agli artisti in questione)? Si dice spesso – la tesi è
interessante – che i poeti, più di ogni altro, sono in grado di
sentire, leggere la realtà, il 'presente'. Personalmente sono convinto che i
grandi registi, tutti, muovano inconsapevolmente da questa qualità.
Lettura ed intravisione. Che le loro opere, cioè, abbiano, fra i
tanti aspetti, la capacità di fornire al fruitore un punto della
situazione ove risulta possibile relazionarsi
all'opera e al suo messaggio. Non mi sembra per nulla utile, a questo
punto, tentare una risposta. Molto più interessante la domanda: il
'perché' un gigante del cinema come Anderson rinunci al virtuosismo,
proprio nella forma che maggiormente lo induce – cioè il
videoclip. L'opera intera di Paul Thomas
Anderson, fino a The Master (Inherent Vice, Vizio di Forma, non fa testo, in quanto tipica commedia brillante e leggera che segue ad un capolavoro), presenta un graduale
rallentamento del montaggio, funzionale ad una narrazione
cinematografica più profonda e dettagliata. Morale? Il cerchio si è
chiuso. In un mondo che ha fatto della velocità uno status
symbol, se ci si vuole differenziare, e così preservare una propria dignità, è necessario adottare un parlato che esso stesso sia
diverso (mai sentito Low e The XX?).
A chiudere,
una scoreggia trattenuta per troppo tempo. La band perfetta
per David Bowie – la band ideale – sono stati i Nine
Inch Nails (vedi, Dissonance 1995/96).
Meditate, gente.
Meditate.