venerdì 14 agosto 2020

THE IRON MAIDEN. L'arte incredibile di Charlotte De Witte.

Amo la buona musica. È una dichiarazione tanto generica ed ovvia da risultare disarmante: ne convengo. Un po'  come il 'comune senso del pudore' al tempo del fascismo. Bisognerebbe anzitutto accordarsi, e non poco, su cosa si intenda per 'buona musica' - impresa ciclicamente tentata in tempi moderni dagli sprovveduti di turno e filosoficamente destinata al più misero dei fallimenti. Ma è data per intendersi, appunto, con i diversi lettori di questo blog, il cui retroterra culturale, mi è stato dato di scoprire, è quanto di più variegato vi sia al di fuori del circuito delle gelaterie artigiane. Non sempre, detto retroterra, include la musica (peggio per voi: trista è la vita senza musica ed ironia). Da questa constatazione, il suo impiego in queste pagine. Limitatamente al mio punto di vista, quindi, la 'buona musica' è, né più né meno, l'insieme degli ascolti, fruiti tramite riproduzione o dal vivo, che hanno finito per assumere un'influenza ed un'importanza imprescindibili. Solo per fare un esempio: nulla è stato più come prima, per me, dopo che mio cugino Riccardo, nel 1983, mi regalò copia di October degli U2, ed ancora dopo avere sentito Brad Melhdau improvvisare, dal vivo, su un brano dei Massive Attack in un'estate di quasi 20'anni fa. Detto questo, nel corso della mia formazione musicale, ho fin da subito sviluppato un gusto che mi ha sempre tenuto lontano da tutto ciò che fosse elaborato elettronicamente. In parole povere, mi sono sempre tenuto lontano dalla musica elettronica, con anche una certa dose di disprezzo. Questo per quasi 30'anni. In particolar modo dal mondo dei DJs, che ho sempre reputato - non del tutto a torto - come un ammasso di ciarlatani. Poi un collega, ultrasnob ed appassionato proprio di musica elettronica, mi ha fatalmente introdotto al mondo del clubbing e, con esso, alla scena dell'ultima generazione di DJs che ne ha definito il suono. Da allora mi si è letteralmente aperto un mondo. Un universo parallelo che questi artisti dalla sensibilità cibernetica hanno creato proprio al fine di differenziarsi dalla massa cialtrona dei colleghi che, dagli anni '80 in poi, avevano fatto cassa sfruttandone ogni potenzialità commerciale. Così, ieri l'altro, dopo quasi una vita dedicata alla beatificazione della performance acustica, assuefatto dalle recenti modalità di ascolto post-lockdown, ho impattato violentemente - e piacevolmente - con il dj set di Charlotte De Witte.

Descrivere un dj set è quanto di più post-moderno e difficile vi sia per chiunque si cimenti nella scrittura con l'intento di rendersi almeno un minimo comprensibile. Aggirerò allora questa bestia partendo dal più semplice, ed accessibile, dato biografico. Charlotte De Witte è una giovane donna non ancora nei 30 orginaria delle Fiandre. Appena maggiorenne ha esordito nel mondo dell'elettronica, significativamente impiegando uno pseudonimo maschile che ha mantenuto fino a cinque anni fa, quando il suo stile, consolidato e molto femmineo, ha dato lei la sicurezza necessaria a presentarsi in piena coerenza con l'anagrafe, forte, inoltre, di un aspetto esteriore pregevole che la nostra da l'impressione di gestire in maniera schiva e parsimoniosa. Da allora la sua carriera, nel settore è svettata. Suona esclusivamente nei più importanti festivals e clubs del circuito. Ha pubblicato un numero abbastanza sorprendente di dischi e fondato una casa discografica dedicata al genere di appartenenza in piena controtendenza con i modelli attuali. L'emergenza pandemica ha naturalmente cancellato per intero la sua agenda di impegni fino a poche settimane fa, e, come molti altri artisti, anche lei ha contribuito a combattere la noia da reclusione attaverso la pubblicazione in rete di alcune sua performaces perticolarmente riuscite. Tra queste la partecipazione a Tomorrowland Winter 2019, l'esibizione che mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta e stimolato a scrivere questo post. Penso sia più utile, quindi, al fine di comprendere le ragioni di un entusiasmo che può sorprendere coloro che mi conoscono meglio, godersi il set per intero: coglierne i tratti minimali (consistenti nel dissezionare le tracce impigandone la sola ossatura); l'arte del saper togliere anziché sovrapporre parossisticamente; la creazione estemporanea di un flusso ossessivo e controllato; l'interpolazione di parlato e cantato; i vuoti improvvisi; il relativismo vertiginoso delle diverse combinazioni del missaggio e, non ultimo, il basso profilo mantenuto dall'artista belga nel corso di una serata da urlo - che noi maschietti avremmo certamente vissuto con ostentazione virile ed incontenibile egocentrismo (esattamente l'atteggiamento tenuto in apertura dal fottuto presentatore - mc, nel gergo del settore). 




La musica di Charlotte De Witte, a mio parere, è una delle colonne sonore più rappresentative di questi tempi dove prestazione ed informazione sembrano essersi fuse in un unicum distruttivo e a volte letale. Il suo dj set sembra inserirsi, anziché rifuggervi, nel flusso initerrotto di queste due entità astratte che, almeno fino alla recente pandemia, hanno scandito impietosamente il ritmo di tante, forse troppe, delle nostre giornate. Lo penetra e lo modella in una forma che, come insegna l'estetica, è l'essenza del bello. 

Mi piace pensare vi sia in circolazione un'artista come lei: donna, giovane, non volgare, di grande personalità e dotata di un'energia vitale che è sempre più rara da scorgere nel prossimo (segno, per me, di un processo di estinzione in corso ormai da tempo).

P.S. Qualche anno fa, all'apice del successo, Lady Gaga, in un'intervista condotta da Rolling Stone - che è come dire 'Matteo Renzi intervistato da Repubblica' -, ha avuto la faccia tosta di dichiarare che lei, no, non è, come sostenuto dall'intervistatore, la nuova Madonna, bensì la nuova Iron Maiden. Errore di sopravalutazione. La nuova Iron Maiden è Charlotte De Witte.

domenica 2 agosto 2020

IMMUNITÀ DI GREGGE. Le donne in difesa di Irene Pivetti.

Giorni fa, nel corso di una pausa dal lavoro, ho sparato a zero contro Irene Pivetti, indagata da ben tre procure e dalla Corte dei Conti per riciclaggio e frode. Normalmente ad un personaggio come il suo presto l'identica attenzione tributata al contatore del gas. Ma il fatto di averne sentito parlare da una collega ha fatto sì che la mia socialità, tarpata da mesi di lockdown, avesse la meglio sulla riservatezza, e così mi sono fatto avanti per dire la mia. In tempo zero, quello che consideravo un attacco del tutto giustificato nei confronti di una persona che spudoratamente compensa il proprio declino politico con intrallazzi di ogni sorta, mi si è ritorta contro con l'accusa di sessismo. Secondo la collega il mio livore non è dettato da una condivisibile indignazione civile per chiunque abusi della propria posizione di privilegio, bensì dal fastidio provocatomi nel vedere assurta agli onori della cronaca una donna con un curriculum che farebbe impallidire molti maschietti, me compreso. In più, ha aggiunto, Irene Pivetti è una donna che, lasciata la politica, non è rimasta sugli allori: ha saputo reinventarsi come giornalista, affrontando tutte le difficoltà che un simile cambio di ruolo comporta. Insomma: torna alla tua caverna, troglodita, e fatti rivedere quando ad un uomo verranno mosse identiche accuse.

Povero femminismo: oltre un secolo di lotte, e tutto ciò cui si è giunti è la consegna della causa nelle mani di persone convinte che la donna sia
sempre e comunque  vittima. D'altronde non ci si poteva aspettare altro da un movimento nato con esponenti del calibro di Emily Pankhurst e Margaret Sanger ed oggi rappresentato da Asia Argento e le donne di Me Too. Il declino era scritto nelle stelle: prima del cielo, ora del cinema. (Da appassionato della settima arte, poi, sono colpito dal silenzio con il quale i difensori dei diritti delle donne hanno accolto il fatto che il film più straordinariamente femminista mai realizzato sia stato scritto e diretto da un uomo. Sto parlando di Kill Bill di Quentin Tarantino).

Per tornare a noi. Ho voluto concedere alla collega il beneficio del dubbio (non sul mio sessismo: sul curriculum di Irene Pivetti). Ho pertanto svolto alcune modeste ricerche, scoprendo: a) che la nostra si è sempre guaradata bene dall'abbandonare la politica (si è candidata ancora lo scorso anno, ma ormai non la votano più neanche i parenti stretti, e difatti non è stata eletta); b) che la sua carriera giornalistica  ammonta ad occasionali collaborazioni a testate partitiche, tutte puntualmente finite in rovina, qualche rivista patinata e nulla più (ad oggi non risulta  nemmeno iscritta all'albo professionale). Quanto alle indagini in corso, anche volendo applicare ad Irene Pivetti lo stigma della persecuzione giudiziaria, c'è da chiedersi: cui prodest? Il peso politico della ex presidente della Camera è pari al mio, cioè nullo. Di conseguenza, se ricevo l'avviso di garanzia da tre procure e financo la Corte dei Conti, è davvero improbabile che l'opinione pubblica sia disponibile ad accettare la tesi della persecuzione (sebbene debba riconoscere che, nel nostro spaventoso paese, si possono contare un certo numero di casi illustri dove ciò è accaduto).

Detto questo, l'episodio tradisce, da parte di una schiera abbastanza nutrita di persone, una visione del giornalismo, del ruolo di questo, che ne spiega esaurientemente la crisi irreversibile. Molto generalizzando, il giornalismo moderno nasce come strumento di controllo del potere, la cui efficacia dipende essenzialmente dal suo grado di indipendenza. In parole povere, chi esercita il controllo non può essere, nel contempo, il controllato. Andrebbe quindi spiegato, quanto meno ai sessisti come me, quale tipo di contributo, Irene Pivetti, per oltre 20'anni giornalista e parlamentare, abbia dato alla stampa nostrana, quale miracolosa indipendenza essa sia riuscita a mettere in campo nei suoi articoli - al momento introvabili ovunque, compreso il suo sito web, "fuori servizio per manutenzione" (ma guarda il caso, a volte...). Non mi sembra sia necessaria una laurea per comprendere che, se fai affari con il governo e con la pubblica amministrazione (è il caso di Irene Pivetti e delle sue società controllate), è un po' difficile che tu, l'indomani, esca con un articolo a tuo nome dove avanzi critiche ed accuse all'uno e all'altra. Non scherziamo: questo fulgido esempio di femminismo rampante - perché questo è, agli occhi dei suoi fedeli, Irene Pivetti -, il tirocinio, lo ha svolto nella scuderia di Lele Mora, non nella redazione del New York Times, come invece sembra suggerire la narrazione dei suoi più accaniti difensori. Questo atteggiamento, inoltre, è inconsapevolmente irrispettoso del sacrificio di donne straordinarie quali furono Veronica Guerin ed Anna Politkovskaja, giornaliste che con il loro lavoro contribuirono fortemente alle tante verità che noi, oggi, possiamo sfoggiare senza rischio alcuno.

Chiudo. In una delle intercettazioni operate nel filone milanese delle indagini, Irene Pivetti è stata sentita descriversi a Lele Mora (suo maestro di giornalismo, immagino) come una dalla faccia come il didietro. A riprova, Maurizio Crozza la sta ridicolizzando da quasi due mesi senza che alcuna diffida sia giunta a porre fine ad uno stillicidio meritatissimo. Ecco: che per esprimere liberamente un giudizio su una simile donna, io ne debba prima ventilare uno identico su di un uomo, è un ricatto al quale non intendo sottostare.

lunedì 27 luglio 2020

FOTTERE UNA STRONZA. Il meritato successo di Vasco Rossi.

Stavo annaspando nel caldo allucinante del Salento, quando, una sera, sfiancato al pensiero di uscire a quelle temperature, mi sono trovato in poltrona ad assistere alla messa in onda di Modena Park, il film-marchetta che immortala l'incredibile concerto di Vasco Rossi in quel di Modena nell'estate di tre anni fa.

In piena passività digestiva (mia suocera, Dio la benedica, eccitata dalla visita, ha cucinato anche le tende), ma con le orecchie ben aperte, ho quindi subìto tutto il rituale che puntualmente prelude ai grandi eventi mediatici: l'imbarazzante passerella dei soliti 'vipponi' nostrani - naturalmente tutti estimatori della prima ora ed amici di vecchia data -; le impressionanti riprese della distesa umana del pubblico; l'inizio del concerto con lo Zarathustra di Richard Strauss ed immagini di chiara filiazione kubrickiana; lo stupore di mio suocero, ultraottantenne ("Ma come fa, questo, ha portare tutte 'ste persone?"), e, alla fine della fuffa, la salvifica apparizione di Vasco - in forma smagliante e per nulla intimorito dalle oltre 220.000 paia di occhi che lo fissavano in preda al delirio. Dopodiché in concerto si è aperto con un classico del primo periodo: Colpa D'Alfredo. Ed è in quel momento che sono stato colto da un'illuminazione.

Premetto che non sono mai stato un suo fan
- sebbene io lo apprezzi per più di una canzone e nonostante Va Bene Va Bene Così sia uno dei dischi che più ho ascoltato nella mia vita. Io, per Colpa D'Alfredo, avevo fatto una vera e propria malattia. Anzitutto è stato il primo brano nel quale si sentiva il cantante parlare, e parlare chiaro, diretto, sboccato. Questa cosa mi aveva fatto impazzire. Mi aveva messo di fronte alle immense possibilità della canzone come mezzo espressivo. Il cantato, poi, quando subentrava, non era convenzionale e lineare come nello sdolcinato repertorio italiano che avevo conosciuto fino a quel momento (erano i primi anni '80). Era fatto di urla ed urletti, di un'intonazione volutamente imprecisa, di versi sbiasciati e di altri emessi con tono alticcio, alterato. Ed infine c'era quella chitarra distorta che era una vera novità sonora nel panorama nazionale, improntato com'era alle sviolinate di stampo sanremese. Per un giovane appassionato di musica rock, quale ero al tempo, si trattava di aria fresca di montagna - e di una vera e propria goduria. Una canzone politicamente scorretta al tempo della sua uscita, e - si ponga attenzione a ciò - politicamente scorretta 40'anni dopo.

Ma è solo nel corso della visione di Modena Park che mi sono reso conto delle implicazioni sadicamente sottili insite nella scelta di aprire il concerto - che per Vasco è stato certamente 'il concerto della vita' - con un brano come Colpa D'Alfredo, del filo rosso che partendo da questo arriva all'estate 2017.

Il soggetto della canzone, per chi non la conoscesse, è il resoconto di un abbordaggio andato male. Una tipa ha appena chiesto a Vasco se può darle un passaggio a casa. Il nostro va subito su di giri, ma l'amico Alfredo, inopportuno come suo solito, attacca bottone con un pippotto che non finisce più, e la ragazza, senza perdere altro tempo, se ne va via insieme ad uno di colore, con grande invidia di Vasco. Era il 1980. Era l'Emilia tossica raccontata da Andrea Pazienza, ma anche, più in generale, l'Italia dei 'drogati', come li si chiamava allora. Esistenze periferiche che già, però, avvertivano l'abitare un paese a doppia velocità, con alcuni - pochi - impegnati nella corsa, ed altri - molti - esclusi. Giovani per i quali anche la semplice richiesta di un passaggio a casa da parte di una ragazza rappresentava 'l'America', tanto era il vuoto ed il grigio di quegli anni lontani, geograficamente e cronologicamente, dalla "Milano da bere". Questo, a grandi linee, il retroterra culturale, se così si può dire, di Vasco, l'ambiente che lo ha portato a scrivere una canzone come Colpa D'Alfredo e, nello specifico, i versi che seguono:
 
E quella stronza non si è neanche preoccupata 
Di dire almeno qualche cosa, che so, una scusa
Si era già dimenticata

Di quello che mi aveva detto prima
 
"Mi puoi portare a casa questa sera? 
Abito fuori Modena, Modena Park" 

La "stronza" è dimentica di avere chiesto un passaggio in direzione Modena-Parco. Ma non così il nostro Vasco il quale, 37 anni più tardi le restituisce il favore portando proprio lì, in quel posto preciso (un caso? dubito) qualcosa come 225.173 spettatori. Chi mi conosce sa che non sono incline alle facili emozioni. Posso pertanto affermare che poche volte mi è capitato di averi brividi come quelli avuti per Vasco quando finalmente urla "Abito fuori Modena, Modena Park". So di sconfinare pericolosamente nel fantasioso, ma mi piace pensare che tra il pubblico, quella sera, vi fosse anche "la stronza", impegnata a mangiarsi le dita per quel passaggio chiesto e poi bellamente ignorato. Ma se questa è fantasia - e lo è -, la verità è che non c'è cosa peggiore del non saper riconoscere il talento nel prossimo, trattandolo con sufficienza e perdendo in tal modo un'occasione d'oro - qual è sempre quella del potersi confrontare con chi è dotato di una particolare sensibilità.

Mi sono allora reso conto d'improvviso di quanto coerente è stata l'ascesa al successo di questo signor nessuno partorito dalla provincia emiliana, di quanto poco si sia venduto al sistema, di quante belle canzoni ha scritto specie all'inizio (sulla sua lapide dovranno obbligatoriamente venire inscritti i versi universali di Siamo Solo Noi, "Generazione di sconvolti, senza più santi né eroi"), di come sia riuscito ad evitare prediche e moralismi cantando sempre e solo delle proprie esperienze personali, del proprio sentire, e di come proprio per questo sia divenuto, suo malgrado, rappresentante degli ultimi, dell'emarginazione urbana, di un pubblico sicuramente fedele, ma che in modi diversi avverte un malcelato senso di inadeguatezza di fronte alla vita (prova ne è il saluto che Vasco, a fine concerto, gli ha voluto tributare: "Ce la farete. Ce la farete tutti!", un'iniezione di autostima che manco il Papa o Bono...).

La mia idea di successo è questa: riuscire a riempire il frigorifero facendo, nella vita, ciò che maggiormente ci appassiona - e per cui ci si sente maggiormente portati -, cercando, nel contempo, di restare il più possibile fedeli a noi stessi. Ecco: mi sembra che questa condotta si attagli alla perfezione a quella che è stata la carriera di Vasco Rossi, classe '52, rocker in un paese di neomelodici, protagonista di una vicenda di successo meritato, onesto e per questo raro, all'apparenzan senza invidie e cadute di tono (io continuo persino a credere che un riff de La Combriccola Del Blasco sia stato impiegato dagli U2 in The Blackout).

Bravo, Vasco: le avevi promesso un passaggio a Modena Park, alla "stronza". E sei stato di parola.

P.S. Nel mentre assistevo alla performance di Modena Park - veramente perfetta sotto ogni punto di vista -, ho realizzato che molti dei nomi celebri del rock - i cosiddetti big, U2, Rolling Stones, Muse, Springsteen, Coldplay e compagnia bella -, un concerto così, se lo possono solo sognare la notte (non sto esagerando: lo penso davvero). Fra i tanti pregi, il documentario, per quanto impregnato di toni fortemente autocelebrativi, ha quello di avere fornito un'immagine estramamente fedele dell'Italia nell'anno 2017: quella di un paese in costante crisi - politica, sociale, strutturale, economica -, ma capace, se adeguatamente incentivato, di guizzi di assoluta, incomparabile eccellenza.

domenica 21 giugno 2020

SÌ, BUANA. Dietro gli attacchi alla figura di Indro Montanelli.


Un gigante della cultura italiana: Indro Montanelli.
Di questi tempi, il commento ai fatti di cronaca, mi sento di dire, è attività miserrima persino a livello professionale. A livello amatoriale – dove anche questo blog trova la sua naturale collocazione - rischia sovente di sconfinare nella pura chiacchiera. Ma essendo, io, un montanelliano convinto, non posso esimermi dal prendere posizione nella recente bagarre – perché di questo si tratta – intorno la figura di Indro Montanelli, che proprio le pagine di cronaca ha occupato nell'ultima settimana.
Senza girare intorno all'argomento: le campagne diffamatorie, di odio e discredito, condotte contro questo esponente della cultura italiana – ma certo qualcuno avrà da ridire anche riguardo questa specifica iscrizione -, hanno un'origine precisa nel tempo e nel movente. Nascono dalla lettera aperta con la quale, il 10 gennaio 1994, l'allora direttore de Il Giornale palesa la propria opposizione a servire, a livello editoriale, l'ingresso in politica di Silvio Berlusconi, proprietario della testata. Punto. Chi tocca muore. Questo andrà scritto, quando sarà il momento, sulla lapide dell'ex presidente del consiglio. Prima di quel giorno, Montanelli se lo filava solo il suo seguito più appassionato. Era, come ho scritto in apertura, un uomo di cultura. E in un paese di ignoranti come il nostro, rappresentava, in tale veste, quanto di meno appetibile vi fosse, per pance già ben addomesticate come quelle degli italiani – che, difatti, due mesi più tardi, dopo un decennio abbondante di programmi Mediaset, tributeranno a Berlusconi la sua più grande vittoria. In Italia puoi attaccare selvaggiamente il papa. Ma se te la prendi con Berlusconi, hai finito di vivere. Il seguito di quest'ultimo, cui anche i sentinelli di Milano vanno iscritti per filiazione spirituale, è del tipo adorante a la Charles Manson. È questa compagine, e non l'ex cavaliere in prima persona, a farsi carico delle azioni in difesa del proprio, sotterraneo guru. Sondate di persona: scoprirete senza fatica che questi fanatici, dell'opera di Montanelli, non sanno nulla, non ne hanno letto una sola riga. Tutti gli attacchi sferrati da allora e proseguiti post mortem non nascono da motivazioni personali, ma da un odio conto terzi, mutuato e messo in atto con piglio da vero e proprio lavoratore dipendente. È questa la diabolicità del berlusconismo: essere riuscito a mutare tutti in sottoposti, convincendo anche i più recalcitranti a 'farsi assumere', a 'lavorare' per 'la causa'. Figuriamoci, perciò, con quale bava alla bocca detto seguito deve avere accolto, al tempo, il rifiuto di Montanelli. Roba da rischiare la pallottole una seconda volta.
Montanelli, quindi, risulta colpevole, secondo questi cervelli sopraffini, di lesa maestà, principalmente per due motivi: per avere scritto, in tempi non sospetti, che, tra il '43 e il '45, in Italia, non vi fu una resistenza, ma una guerra civile; per avere detto no a Berlusconi, cioè al potente di turno. È colpevole di avere dato il la a giornalisti come Elio Veltri, Marco Travaglio e Daniele Luttazzi, gli unici ad avere posto a Berlusconi quelle domande che nessuno osava anche solo concepire. E allora, non avendo argomenti da opporre, ma solo fuffa della migliore selezione, ecco fioccare le accuse di ingratitudine nei confronti di Berlusconi-editore, di ipocrisia, di razzismo, di pedofilia e quanto di meglio il repertorio di questi figli di Drive-In avevano in serbo (impiego il passato perché il repertorio, da allora, è sempre lo stesso, non ha subìto modifiche, non registra, e non registrerà, novità alcuna). Sebbene non tutti, molti di coloro che oggi accusano Montanelli di razzismo e pedofilia sono gli stessi che, al tempo del processo Ruby, hanno difeso Berlusconi dagli attacchi della pubblica opinione, sostenendo che questa muoveva esclusivamente dall'invidia per la straordinaria vita sessuale dell'allora presidente del consiglio.
È poi chiaro che, se pensi l'opera Montanelli sia quella di un razzista financo pedofilo, i suoi libri ed i suoi articoli, non li hai mai letti – e, a questo punto, consiglio caldamente di non metterli in elenco alla voce 'letture per l'estate': bastano ed avanzano i fraintendimenti di questi ultimi 20'anni.
Contrariamente ai suoi detrattori, ritengo Montanelli un'ottima lettura per tutte le stagioni. I motivi per i quali il suo corpus librario e giornalistico andrebbe sapientemente inserito nei programmi scolastici sono:
  • chiarezza espositiva
  • narrazione lineare
  • ricchezza lessicale
  • coraggio interpretativo
  • assenza di conformismo
  • passione civile
  • affilata ironia
Tratti, ne converrete, che non sono esattamente quelli né della maggior parte degli italiani, né, tantomeno, di quegli 'ominicchi' che ancora oggi non cessano l'attacco in absentia alla sua figura, al suo ricordo, alla sua opera.
E non mi sorprenderei di trovare, parte dell'ultima categoria, anche degli appartenenti al corpo docente.
Magari quegli stessi professori che hanno insegnato la storia ai giovani sentinelli.

martedì 9 giugno 2020

TRISTE, SOLITARIO Y FINAL. La difficoltà di rapportarsi agli altri.


Il miglior amico dell'uomo: Charlie Brown.
Mia moglie, psicoterapeuta dal cuore grande, sostiene che, con molta probabilità, io sia un solitario mascherato. Tesi tutt'altra che balzana, considerato quanto - specie dopo i recenti assestamenti sociali post-lockdown -, sempre più, io, fatichi a trovarmi a mio agio con le persone (“Alcuni si trovano meglio con gli animali, non sono uomini della ragione”, cantava Morgan ne Lo Psicopatico). Molto meglio passare il tempo al computer tentando di scrivere qualcosa di decente per questo blog – che penso rappresenti abbastanza fedelmente buona parte di luci ed ombre della mia persona.
Da un lato, la manifesta incapacità dell'uomo moderno nel fronteggiare anche la più modesta delle solitudini è fonte di infinite disgrazie, tutte rubricabili alla voce effetto-farfalla. Se le perone, cioè, stessero un po' più spesso a casa propria, il numero delle disgrazie che, ad oggi, affliggono l'umanità, risulterebbe ridotto di molto. È una tesi che da ragione più alla saggezza popolare e al grande Maestro Mimmo Rapetto che alle scienze sociali, lo so. Le donne vittime di violenza domestica – gesto che ha registrato una drammatica impennata, durante la reclusione di questi mesi -, certo non sarebbero d'accordo. Ma questa è un'altra storia.
C'è poi tutto uno scoramento dovuto ai tanti, piccoli segnali che ogni santo giorno giungono a confermare quanto meglio si stia, da soli, se il livello di condivisione e di empatia è quello dato da un radioascoltatore, giusto stamane, al filo diretto di Radio 3: “Chiamo dalle Dolomiti, ma tendo a specificare che mi ritengo un cittadino del mondo”. Cioè: in un pianeta in subbuglio, scosso da crisi sociali, economiche, umanitarie e financo sanitarie; in una Europa che, nella difficoltà, come istintiva reazione, ha chiuso molte della sue frontiere; in un paese – il nostro – dove il Coronavirus ha portato alla luce abissali – e, a mio parere, insanabili - divisioni regionali, il nostro bravo connazionale – il cui cervello, uno si aspetta, dovrebbe meglio di altri funzionare, data la straordinaria qualità dell'aria delle Alpi Orientali – se ne esce con una presa di posizione, sterile, anacronistica e banale come quella riportata. E, uno, dove trova la forza, la positività, per uscire di casa, nella speranza di poter fare due chiacchiere che non siano assimilabili a questo infimo livello di riflessione?
Da tempo, poi - sempre per portare acqua al mulino dell'isolazionismo -, il costume civile della presentazione risulta letteralmente scomparso, assente, spesso, anche nelle persone dalle quali ci si aspetta di vederlo praticato. Ciò tradisce un certo tasso di disillusione, penso, riguardo la sua effettiva utilità. Sotto sotto molte persone sono convinte, e a ragione, dell'assoluta anonimità della chiacchiera. Se un qualsiasi parere o presa di posizione è assimilabile per banalità a milioni di altri, va da sé che è inutile conoscere nome, cognome e biografia di chi se ne è fatto latore. Risulterebbero, né più né meno, riconducibili e quelli dei tanti Kevin e Sharon che abitano luoghi di lavoro, social networks, gruppi chat e bar diurni del paese.
Ancora pescando in quel lago prosciugato che è divenuto il bacino degli ascoltatori di Radio 3, la rassegna-stampa di stamane ha riservato due perle nere da collezione – con ricavato, beninteso, anch'esso da devolvere alla causa sempre più nobile del voluntary lockdown, la reclusione volontaria (per la mia generazione, suonerà sempre meglio, se detto prima in quella lingua morta che è, oggi, l'Inglese). A denunciare, oltre alla suddetta trasformazione antropologica, la drammatica assenza di argomenti e l'incapacità di giudizio (tratti che, ne converrete, non fungono propriamente da stimolo nel facilitare i contatti umani) è giunto un radioascoltatore che, scevro da ogni preoccupazione interpretativa riguardo le drammatiche notizie lette poco prima del suo intervento, ha bellamente chiesto, in diretta, al giornalista incaricato delle conduzione settimanale: “Lei, in cosa crede?”. Un quesito che poteva risultare esplosivo, in termini conoscitivi, se posto, ad esempio, a Miles Davis, a Edward Snowden, a Chesley Sullenberger, esistenze straordinarie che stimolano la curiosità a conoscerne il pensiero al di la dei rispettivi campi di eccellenza. Ma certo non ad un giornalista, per quanto qualificato. Un simile quesito dice tutto dello sconcertante disorientamento causato nelle persone da questa epoca. Persone che si suppongono adulte, professionalmente in carriera, magari investite da ruoli educativi (genitori ed insegnanti) o di grande esperienza di vita (gli anziani). Chiedere in cosa creda ad un perfetto sconosciuto quale è chiunque si appresti ad una rassegna-stampa, sia essa radiofonica o televisiva, nella veste di titolare o di ospite, sta a significare il vuoto spaventoso nel quale brancolano le persone (le stesse, ricordiamolo, che saremmo tenuti a frequentare per non cadere nel misantropismo). Lo chiedono perché loro stesse, per prime, ignorano in cosa credano e se in qualcosa sia possibile credere (tematiche fondamentali, certo, ma alle quali la filosofia ha dato attente risposte essendovici arrovellata fin dal suo nascere). Non dimentichiamo che, questo è ancora un paese che si rivolge ai singoli giornalisti utilizzando l'appellativo di dottore (e questa è l'altra perla). In una simile scelta sta scritta tutta l'arretratezza culturale degli italiani, si scorge il ragionier Fantozzi che abita in loro e che parla per loro.
E con simili presupposti, ditemi: dove lo trovo, io, l'entusiasmo per uscire?
Come disse Giorgio Gaber, in tempi non sospetti, ad ammiratori che intendevano attaccar bottone, avendolo visto al tavolo del ristorante in compagnia di Paolo Villaggio: “Non intendiamo fare comunella.”.
Ecco.

martedì 2 giugno 2020

UNA COSA SERIA. La drammatica attualità di 'Full Metal Jacket'.


Matthew Modine nei panni di Soldato Joker.
Nel vuoto di senso crescente che caratterizza questa fase storica, imbattersi in colpi di genio – come è capitato ieri l'altro – è qualcosa che mi commuove. Tutto ciò connota il vostro umile estensore come un anziano, una persona che lentamente va perdendo il controllo sulla propria emotività e sul proprio corpo. Ma ben venga: voglio morire restando capace di provare qualcosa. E qualunque sentimento è buono, pur di mantenere uno status di dignità umana.
Stavo svolgendo un modesto lavoro di ricerca per un canovaccio radiofonico (sì: ho velleità autoriali), quando ho avuto necessità di visionare alcune sequenze tratte da Full Metal Jacket, il film di Stanley Kubrick del 1987, ed altre ancora da, invece, Stanley Kubrick: A Life In Pictures, documentario voluto e diretto da Jan Harlan, storico produttore dei film del grande regista statunitense, e caratterizzato dalla vera e propria perla che è la narrazione fuori campo affidata a Tom Cruise (è una visione che, naturalmente, consiglio a tutti, per ritrovare la giusta misura di cosa sia davvero un grande talento, un genio, in un tempo dove si tende a riconoscere come tali persone, in realtà, senza arte né parte).
Sono settimane che, causa reclusione da Coronavirus, mi tocca sorbire il pippotto delle stazioni Mediaset sull'attendibilità della loro informazione ("Le notizie sono una cosa seria. Fidati dei professionisti dell`informazione. Scegli gli editori responsabili, gli editori veri. Scegli la serietà."). Ora, non mi dilungherò, sull'argomento. Come venne giustamente specificato al tempo dell'uscita di Videocracy – Basta Apparire, di Erik Gandini (era il 2009), se ancora, i cittadini italiani, di fronte ad un simile messaggio, necessitano di spiegazioni, ciò significa semplicemente che il danno non solo è fatto, ma persino irreversibile.
Ed è così, quindi, che, come specificato in apertura, mi sono trovato con gli occhi lucidi, quando ho avuto davanti a me, in tutta la sua magnificenza, la sequenza dove i soldati protagonisti del film vengono intervistati dalla troupe dell'esercito nel bel mezzo della battaglia di Hue, e il grande Kubrick decide di includere nell'inquadratura, come fosse un personaggio a sé, la telecamera che insiste sugli intervistati in maniera che si potrebbe dire minacciosa. Venne realizzata sul finire del 1986, cioè in tempi non sospetti, quando tutti, tranne forse Orson Wells, eravamo persuasi della bontà dell'informazione che ci veniva somministrata, della sua assoluta imparzialità come dell'etica da cui muoveva. Eravamo a otto anni da The Truman Show e a quattordici da Grande Fratello, e già questo genio immortale ci stava educatamente, sottilmente mettendo in guardia dal pericolo della propaganda televisiva, dalla possibilità di una deformazione pressoché integrale della notizia come della realtà. Si potrebbe persino dire che con quell'ennesimo colpo di genio anticipò il discorso sul potere ipnotico, persuasivo, e tossicomaniacale dell'informazione che, dieci anni più tardi, sarà la colonna portante del romanzo di un suo pari: Infinite Jest, di David Foster Wallace.
First to go – Last to know. We will defend to the death your right to be misinformed”, recita uno striscione nella sequenza della riunione di redazione. Un Inglese intenzionalmente bizzarro, quello impiegato, che, con un po' di coraggio, può essere tradotto, per quelle capre ignoranti che sono ormai gli italiani, come segue: i primi a muoversi, gli ultimi a sapere, difenderemo alla morte il vostro diritto ad essere disinformati.
Rattristano, i tanti travisamenti dei quali è stata oggetto la pellicola nel nostro paese come, va riconosciuto, in molti altri. È un Vietnam-movie, non è realistico, non è storicamente corretto, è ridicolo, sul fronte le cose non andavano così e via di questo passo. Il messaggio a riguardo di propaganda e manipolazione mediatica, invece – solo uno dei tanti contenuti nel film –, sembra sistematicamente passare inosservato.
Può ben essere che l'inconscio italico, a fronte della vergognosa accettazione del verbo televisivo berlusconiano, ormai lunga di oltre 30'anni, abbia operato una tutto sommato sana rimozione, e non si renda quindi conto del livello di acritica, supina sottomissione alla notizia – la news – al quale è in realtà sceso.
L'opinione pubblica è esattamente come il soldato Joker: partito alla ricerca della verità – il più nobile dei tentativi di approdo al senso della vita -, fa ritorno dal fronte in una muta disumana, irriconoscibile.
È la nota più dolente di questo film immortale.
Ma non più dolente della stupidità, della violenza, dell'assenza di empatia e della sostanziale incapacità di amare oggi circolanti.

venerdì 22 maggio 2020

IT'S HIS OWN LIFE. L'ingloriosa fine di Bon Jovi.

Il nuovo calendario di Padre Pio.
Giovanile, brillante, di bell'aspetto, rock 'n roll, baciato dal successo, grande schiacciatore di femmine della specie top model e persino attore (memorabile la sua partecipazione a Sex & The City, quando in molti ancora credevamo fosse una serie immortale). Questo è stato John Francis Bongiovi, in arte Bon Jovi, fino al febbraio 2020, quando saltava da un palco all'altro del pianeta ricordandoci che 'la vita non ha limiti' - "Life is limitless", il suo ultimo singolo -, due settimane dopo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (roba da romanzo orwelliano) dichiarava conclamata la pandemia per il Covid-19, e per il pianeta iniziava una moria, con annessa reclusione, da basso medioevo. Alla faccia dell'assenza di limiti, John! Bella buccia di banana. Complimenti. A parte il fatto che pubblicare un singolo nel 2020 significa, come minimo, credersi ancora negli anni '80 (ma, considerata la bella vita che deve aver fatto al tempo, c'è da mostrare comprensione e compassione, un po' come per certi anziani delle case di riposo, con le loro vite fatte ormai solo di ricordi). Significa tradire una logica imprenditoriale e sorpassata, un'anagrafe che i più accorti manterrebbero ben celata. D'altronde il nostro non è nuovo a queste sborrate - molto berlusconiane, se mi è concesso - sulla vita come campo da gioco, dove il singolo è nel contempo arbitro e giocatore. Ricorderete certamente uno dei suoi più grandi successi, It's My Life, una canzone così 'dimmerda' da far sembrare bella persino Wind Of Change degli Scorpions (che, nella mia personale classifica, è la canzone più brutta mai scritta da un essere umano, ma va da sé che il commercio risponde a ben altre regole). Ebbene: già allora - era il 1999 -, Bon Jovi aveva espresso questa visione tristemente - americanamente - edonistica dell'esistenza ("It's now or never"), banalotta ("I ain't gonna live forever") tautologica e un po' povera nel lessico ("I wanna live while I'm alive"). Stava per finire il millennio con i meravigliosi '90, durante i quali erano state sostanzialmente annunciate portate di fica e caviale un po' per tutti. E quindi ci stava una canzone così, tracotante, da ascoltare, magari, prima di uscire di casa per una serata con gli amici. Ricordo ancora vividamente - e solo per citare un esempio di quanto, questo brano, avesse galvanizzto, alla sua uscita, esistenze altrimenti bruciate alla nascita - di come il mio collega Antonio raccontava, in preda all'orgoglio ed un pizzico di malinconia, del pomeriggio assolato al largo Bangkok quando pagò l'equivalente di uno stipendio mensile tailandese per farsi riprendere in video su un fuoribordo lanciato a massima velocità con le note di It's My Life a fare da colonna sonora (e questo, marginalmente, rende ragione all'opera cinematografica di Danny Boyle ed Eli Roth, registi molto diversi per nascita e stile, ma uniti dall'aver prodotto due dei film più forti e belli sul turismo inteso come illimitata condizione  di acquisto, dall'orecchino all'orgasmo snuff, che sono The Beach e Hostel). Ma Limitless... Davvero è un brano che, oltre alla bruttezza manifesta ad ogni orecchio attento, questa emergenza planetaria, l'ha proprio gufata. "Out the door, into the street", "A million different faces / All from different places", "Step out on the edge / It's worth the risk", "Life is limitless", e via così. Insomma: per una comunità mondiale messa all'angolo dalla reclusione forzata, un poco sopra le righe, direi. Mi risulta persino che lo stesso Bon Jovi abbia dovuto forzatamente annullare una serie di concerti nel suo paese, e, volontariamente, abbia optato per il rimborso dei biglietti con una mossa barbina: "Dovete pagare le bollette e fare la spesa", sembra abbia dichiarato. "Sì, caro John: al contrario tuo, tutti i giorni, anche quando decidiamo di non assistere ad uno dei tuoi concerti, paghiamo le bollette e facciamo la spesa", viene da dire. Ritengo non ci sia fine più ingloriosa per un artista, specie se di genere popolare, del ritrovarsi ad esprimere concetti non difformi da quelli che potrebbero uscire dalla bocca di nostra madre o nostro padre. Cantare di vite che non sono quelle di chi gli presta ascolto. Essere, come cantava genialmente Morgan in Metallo Non Metallo, fuori dal tempo.