domenica 2 agosto 2020

IMMUNITÀ DI GREGGE. Le donne in difesa di Irene Pivetti.

Giorni fa, nel corso di una pausa dal lavoro, ho sparato a zero contro Irene Pivetti, indagata da ben tre procure e dalla Corte dei Conti per riciclaggio e frode. Normalmente ad un personaggio come il suo presto l'identica attenzione tributata al contatore del gas. Ma il fatto di averne sentito parlare da una collega ha fatto sì che la mia socialità, tarpata da mesi di lockdown, avesse la meglio sulla riservatezza, e così mi sono fatto avanti per dire la mia. In tempo zero, quello che consideravo un attacco del tutto giustificato nei confronti di una persona che spudoratamente compensa il proprio declino politico con intrallazzi di ogni sorta, mi si è ritorta contro con l'accusa di sessismo. Secondo la collega il mio livore non è dettato da una condivisibile indignazione civile per chiunque abusi della propria posizione di privilegio, bensì dal fastidio provocatomi nel vedere assurta agli onori della cronaca una donna con un curriculum che farebbe impallidire molti maschietti, me compreso. In più, ha aggiunto, Irene Pivetti è una donna che, lasciata la politica, non è rimasta sugli allori: ha saputo reinventarsi come giornalista, affrontando tutte le difficoltà che un simile cambio di ruolo comporta. Insomma: torna alla tua caverna, troglodita, e fatti rivedere quando ad un uomo verranno mosse identiche accuse.

Povero femminismo: oltre un secolo di lotte, e tutto ciò cui si è giunti è la consegna della causa nelle mani di persone convinte che la donna sia
sempre e comunque  vittima. D'altronde non ci si poteva aspettare altro da un movimento nato con esponenti del calibro di Emily Pankhurst e Margaret Sanger ed oggi rappresentato da Asia Argento e le donne di Me Too. Il declino era scritto nelle stelle: prima del cielo, ora del cinema. (Da appassionato della settima arte, poi, sono colpito dal silenzio con il quale i difensori dei diritti delle donne hanno accolto il fatto che il film più straordinariamente femminista mai realizzato sia stato scritto e diretto da un uomo. Sto parlando di Kill Bill di Quentin Tarantino).

Per tornare a noi. Ho voluto concedere alla collega il beneficio del dubbio (non sul mio sessismo: sul curriculum di Irene Pivetti). Ho pertanto svolto alcune modeste ricerche, scoprendo: a) che la nostra si è sempre guaradata bene dall'abbandonare la politica (si è candidata ancora lo scorso anno, ma ormai non la votano più neanche i parenti stretti, e difatti non è stata eletta); b) che la sua carriera giornalistica  ammonta ad occasionali collaborazioni a testate partitiche, tutte puntualmente finite in rovina, qualche rivista patinata e nulla più (ad oggi non risulta  nemmeno iscritta all'albo professionale). Quanto alle indagini in corso, anche volendo applicare ad Irene Pivetti lo stigma della persecuzione giudiziaria, c'è da chiedersi: cui prodest? Il peso politico della ex presidente della Camera è pari al mio, cioè nullo. Di conseguenza, se ricevo l'avviso di garanzia da tre procure e financo la Corte dei Conti, è davvero improbabile che l'opinione pubblica sia disponibile ad accettare la tesi della persecuzione (sebbene debba riconoscere che, nel nostro spaventoso paese, si possono contare un certo numero di casi illustri dove ciò è accaduto).

Detto questo, l'episodio tradisce, da parte di una schiera abbastanza nutrita di persone, una visione del giornalismo, del ruolo di questo, che ne spiega esaurientemente la crisi irreversibile. Molto generalizzando, il giornalismo moderno nasce come strumento di controllo del potere, la cui efficacia dipende essenzialmente dal suo grado di indipendenza. In parole povere, chi esercita il controllo non può essere, nel contempo, il controllato. Andrebbe quindi spiegato, quanto meno ai sessisti come me, quale tipo di contributo, Irene Pivetti, per oltre 20'anni giornalista e parlamentare, abbia dato alla stampa nostrana, quale miracolosa indipendenza essa sia riuscita a mettere in campo nei suoi articoli - al momento introvabili ovunque, compreso il suo sito web, "fuori servizio per manutenzione" (ma guarda il caso, a volte...). Non mi sembra sia necessaria una laurea per comprendere che, se fai affari con il governo e con la pubblica amministrazione (è il caso di Irene Pivetti e delle sue società controllate), è un po' difficile che tu, l'indomani, esca con un articolo a tuo nome dove avanzi critiche ed accuse all'uno e all'altra. Non scherziamo: questo fulgido esempio di femminismo rampante - perché questo è, agli occhi dei suoi fedeli, Irene Pivetti -, il tirocinio, lo ha svolto nella scuderia di Lele Mora, non nella redazione del New York Times, come invece sembra suggerire la narrazione dei suoi più accaniti difensori. Questo atteggiamento, inoltre, è inconsapevolmente irrispettoso del sacrificio di donne straordinarie quali furono Veronica Guerin ed Anna Politkovskaja, giornaliste che con il loro lavoro contribuirono fortemente alle tante verità che noi, oggi, possiamo sfoggiare senza rischio alcuno.

Chiudo. In una delle intercettazioni operate nel filone milanese delle indagini, Irene Pivetti è stata sentita descriversi a Lele Mora (suo maestro di giornalismo, immagino) come una dalla faccia come il didietro. A riprova, Maurizio Crozza la sta ridicolizzando da quasi due mesi senza che alcuna diffida sia giunta a porre fine ad uno stillicidio meritatissimo. Ecco: che per esprimere liberamente un giudizio su una simile donna, io ne debba prima ventilare uno identico su di un uomo, è un ricatto al quale non intendo sottostare.

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