giovedì 12 marzo 2020

NOTTE HORROR. Il 'monologo' di Diletta Leotta a Sanremo.


"Essere o non essere? Questo, è il problema."
Ho frequentato il teatro di prosa per un tempo sufficiente a poter dire, con cognizione di causa, che il monologo è genere squisitamente teatrale, nel quale gli attori chiamati ad interpretarlo sono portati, per tradizione, alla propria, massima espressione virtuosistica, similmente a quanto avviene in musica con l'assolo. Si da per scontato che esso – il monologo – sia tributato al più bravo, al fuoriclasse della compagnia, e che da quest'ultimo sia spesso visto come riconoscimento della propria eccellenza, sovente conseguita al prezzo di grandi sacrifici, tipici di questa particolare scelta di vita. Si pensi – per fornire, qui, un esempio pop – alla performance di Jack Nicholson in The Shining di Stanley Kubrick, dove la pazzia crescente del protagonista è resa attraverso i tanti monologhi presenti nella sceneggiatura, e che ancora oggi, a 40'anni di distanza, rappresenta la più grande interpretazione nella carriera dell'attore statunitense (e quanto il cinema abbia mutuato dal teatro di prosa, e sia in qualche modo ed esso debitore, è argomento esaustivamente trattato ed appurato). Esternamente a questi ambiti, però, il termine vanta un'accezione prevalentemente negativa, in quanto connota spietatamente l'atteggiamento di coloro di parlano come da un pulpito, sordi alle parole altrui ed incapaci di dialogare. Per nuovamente esemplificare: il papa, quando parla, tiene un discorso. Piaccia o no, ne ha titolo e, sovente, l'autorità. Ma dire che ha fatto un monologo è invece diplomaticamente irrispettoso ed obiettivamente infamante. Implica un parlare addosso più tipico dei suoi predecessori medievali che dei prelati assurti in tempi moderni al soglio pontificio. Similmente, dire che qualcuno ha fatto un monologo, non è esattamente un complimento.
Per tutti questi motivi, quando YouTube, giorni fa, mi ha proposto 'monologo di Diletta Leotta a Sanremo' per mezzo il suo fantasmagorico algoritmo, la curiosità ha avuto il sopravvento, facendomi così avventurare in sei minuti di imbarazzo, seguiti da giudizi sessisti bestemmiati a voce bassa che non mi è stato possibile trattenere.

Da tempo, al Festival di Sanremo, va di moda impiegare il termine con evidente abuso. Nessuno dei suoi ospiti – e prego tutti di risparmiarmi la descrizione del tipo umano che maggiormente alletta la dirigenza artistica della manifestazione – tiene un discorso: fanno monologhi. Come Laurence Oliver.

E così è capitato anche alla nostra di tenerne uno. Sulla bellezza (un argomento così ricco di asperità che persino i filosofi, quando si occupano di estetica, si guardano bene dell'affrontare con la guardia abbassata). Avevo già avuto qualche sospetto quando, in una recente pubblicità di intimo, Leotta è apparsa in uno spot con tette strizzate e zero battute. Nemmeno uno slogan striminzito (curioso, per una che solo qualche mese dopo riceve un invito a monologare).

Ora, che un uomo, di questi tempi, attacchi una bella figa perché parla, si sa, non porta lontano (a proposito: congratulazioni alle donne di MeToo, che giusto ieri hanno assicurato Harvey Weinstein a 23, meritati anni di reclusione, dopo averlo denunciato in branco e non prima di essersi assicurate rendita a Hollywood e proprietà a Laurel Canyon). Invito pertanto tutti voi a munirvi di un sacchetto per il vomito e a visionare in autonomia il filmato del monologo in questione, che trovate di seguito (se poi ne avete voglia, fatevi due risate leggendo i commenti disparati che questa performance ha scatenato).

Personalmente, rimango con un dubbio – per quanto tutt'altro che amletico -: ma, gli autori del Festival di Sanremo, chi sono? Scrivono queste mostruosità perché vi credono, o più semplicemente, attagliano forma e contenuto al tipo di pubblico cui sanno bene di rivolgersi (quesito retorico: la risposta esatta è la numero due)? Quanto a Diletta Leotta, colpisce l'assoluta assenza di vergogna con la quale si è fatta il processo in diretta televisiva, naturalmente assolvendosi con formula piena (io so' io e voi nun siete 'n cazzo). Ha solo un alibi: l'aver ricevuto un tale compenso da permettersi, dopo questa figura barbina, di farsi dimenticare per un po', magari svernando ai tropici in una struttura sei stelle deluxe (da dove è però certo verrà inviato via social un numero di scatti con maglietta bagnata che nemmeno Salgado in tutta la sua carriera ha numericamente mai fatto).

Dobbiamo, però, essere onesti. Né il Festival né la prestazione di Leotta sono risultati un insuccesso. Tutt'altro. Ottimi indici di ascolto e grande favore per musica, i testi ed ospiti.
Al che si giunge al nocciolo della questione: il pubblico di Sanremo e quello della televisione generalista.
Il primo è vecchio, decaduto, figlio mediocre di quella piccola e borghesia imprenditoriale che, in tempi non sospetti, ha fatto dell'Italia quello che non era: un paese industrializzato. Che in una manifestazione come il Festival vedeva davvero il meritato svago dalle lunghe, spesso dure, giornate di lavoro - e nella presenza all'Ariston l'attestazione di un benessere consolidato. Ha vissuto nell'unica incarnazione concessagli, il baüscia, protagonista della trasformazione della Costa Smeralda in un arcipelago di località da pappone con prezzi da usura, e della riviera di ponente in un buen ritiro a poche miglia dalla salvezza fiscale. Pretendere anche solo un pensiero da una categoria che altro non ha saputo concepire se non il proprio, particolare interesse, è pia illusione. Che la stessa partorisca un pensiero critico di fronte ad un delirio come quello appena ascoltato, fantascienza.

Il secondo, invece, è il popolino ormai stracotto da decenni di palinsesti televisivi a guida unica, completamente defraudato di ogni possibità di scelta razionale, ma non per questo incolpevole della propria situazione. È il teledipedente così come profetizzato da David Foster Wallace, privo degli strumenti culturali - metalinguistici - necessari a leggere tra le righe, ad interpretare parole ed azioni.

Con un siffatto pubblico, Diletta Leotta non ha nulla da temere.

Considerato il successo, c'è da attendersi il bis, con un bel monologo sul sesso.
Speriamo, almeno, ci risparmi gli esempi con nonna Elena.

giovedì 5 marzo 2020

PESCATO DEL GIORNO. Le Sardine in pasto a Maria De Filippi.


Le Sardine ad 'Amici'.
Qualcuno ricorda la gag strepitosa di Bill Murray in Lost In Translation quando, al termine di una giornata interamente passata a ripetere lo slogan della pubblicità per la quale il protagonista è stato ingaggiato, all'educata richiesta di uno sconosciuto riguardo l'ora, risponde: "È l'ora di Santori."?
Ecco: quell'ora è arrivata davvero.
Una decisione forte che rivendichiamo e che ci dà l’opportunità di parlare ai giovani e di portare i nostri valori in un programma che premia il talento.”.
Una decisione forte. Un programma che premia il talento. I loro valori.
Avevo già scritto male delle Sardine già tempo fa, su Facebook, prima di chiudere definitivamente l'account, così consegnandomi ad un solipsismo divenuto funzionale alla mia attuale condizione di fuori-casta a tutto tondo.
E già allora, al tempo della loro comparsa sulla scena politica, le avevo date per spacciate. Profezia oggi confermata dalla sottomissione di Mattia Santori - leader maximo del movimento - e compagni a sua maestà Maria De Filippi ad appena il sesto mese di vita. In fasce, praticamente.
Mi rendo conto, qui, della necessità di essere quanto mai chiaro.
Sono un 50'enne che, in questo specifico frangente, sta tenendo a giudizio dei giovani che, potenzialmente, potrebbero essere suoi figli.
Sono anni che attendo di imbattermi in un giovane con attributi così virili da mettermi a tacere al primo round. Questo è, per me, uno dei compiti delle nuove generazioni: fottere a morte quella precedente. Presentarle il conto e chiedere spiegazioni. Metterla di fronte alle proprie, innegabili responsabilità, e ad una nuova, diversa visione della vita.
Mettiamola così, allora: se questi tre venduti dell'ultima ora che sono i rappresentanti delle Sardine credono davvero di poter parlare ad uno come me e, magari, persino di riuscire a persuaderlo con il loro vuoto spinto, beh: si sopravvalutano davvero.
La realtà, però, è un'altra. E cioè che i nostri eroi ben se ne guardino dal voler persuadere uno come me. Hanno altre e ben più ambiziose mire da perseguire. Tre giovani che non dopo anni ed anni di militanza, dopo essersi per bene scottati e scontrati, bensì sul nascere del proprio movimento calano le brache di fronte a Maria De Filippi, accettandone supinamente l'invito; che si fanno irretire così facilmente dalla promessa di uno spazio libero; che, non paghi di questa palese sottomissione, cerchino persino di sdoganarla ai nostri occhi presentandola come meritocratica, dialogica, valoriale e, nel suo insieme, financo coraggiosa, fa solo pensare una cosa: che i nostri tre eroi abbiano le idee molto chiare su come scalare il sistema, in culo ai meriti, senza doverne chiedere conto a nessuno – tantomeno ai coetanei che dicono di rappresentare – ed in barba ai valori (“la bellezza”, sì, buonanotte) fino a quel moneto professati.
Sono probabilmente andati a scuola meno di Greta Thunberg, ma si sentono investiti (da chi?) della missione di portare noi la luce (quale?). Richiamano tutti alla pratica della bellezza, ma all'uscita del film di Sorrentino stavano, probabilmente, alla proiezione de I Guardiani Della Galassia.
Qui i casi sono due. O il seguito delle Sardine (duole persino conferire loro la maiuscola) è ben più malmesso dei loro fedifraghi leaders – e per questo non si rende conto del vuoto assoluto che li caratterizza – o, più semplicemente, sono come loro e li seguono nella sola speranza di poter salire presto sul carro dei vincitori (pia illusione, visto come gli attuali padroni del vapore li hanno già inquadrati ed irregimentati).
Maria De Filippi è la personificazione di quel potere mediatico, orwelliano, onnivoro e predatorio, negli ultimi decenni promosso fortemente dalla politica, che ha messo la generazione delle Sardine nella condizione indubbiamente disperata nella quale si trova oggi. È la regina incontrastata dei palinsesti tutti, concorrenza compresa – che ben si guarda anche solo dal pensare di interferire con una particolare prima serata presentata o voluta dalla nostra. Dispone – a suo indiscutibile piacimento - di un format per ogni tipo di subcultura dominante: la pietà (C'è Posta per Te), l'arrivismo (Amici), l'infatuazione (Uomini & Donne). E tutti di grandissimo successo. Regna per censo, insomma, ed i suoi talenti – gli stessi che si sforza di individuare strenuamente nei partecipanti di 'Amici' - sono ai più sconosciuti. Giusto ieri l'altro, Nicola Porro (non propriamente la personificazione del giornalismo d'inchiesta, ma va da sé che questo passa, il convento) si è permesso una critica all'acqua di rose ad 'Amici' e De Filippi, proprio sul tema dell'invito fatto alle Sardine. Apriti cielo. Replica immediata di De Filippi e, l'indomani, scuse di Porro e redazione. Insomma: chi tocca, muore.
Che le Sardine, per mezzo dei propri rappresentanti, cedano così mollemente al ricatto del sistema (o da noi o porte chiuse) e lo facciano con parole di elogio per colei che così munificamente lo rappresenta, è un segno che non lascia speranza sull'effettivo valore di quest'ultima generazione.

lunedì 2 marzo 2020

OUT OF ENGLAND. Gli italiani e l'Inglese dopo la Brexit.


Lo 'Union Jack' secondo l'artista britannico Banksy.
Giorni fa, Boris Johnson, il primo ministro inglese, ha reso noti i requisiti che, nell'Inghilterra post-brexit, verranno ritenuti essenziali ai fini dell'ottenimento di un visto UK per soggiorno o lavoro. La lingua inglese sarà un requisito imprescindibile, e questo mi ha fatto subito pensare ai tanti italiani residenti a vario titolo, certificato o millantato, nel Regno Unito. Quelli, per capirci, che “vado a Londra” e puntualmente si accampano a Camden, circondati di connazionali, a perpetrare il mito infamante dell'italiano medio. Per costoro si annuncia una stretta che renderà il futuro lavorativo e residenziale alquanto incerto. Quale sarà il livello di capacità linguistica necessario ad evitare un imbarazzante - quanto improbabile – rimpatrio? Quello di Johnson, elitario e sudista, od il semplice, formale livello basic ottenibile con uno sforzo intellettuale minimo? Sono quasi certo che nemmeno il ministero competente sia in grado, in questo momento, di rispondere a questo semplice quesito. La mia impressione è che nel Regno Unito non vi sia grande chiarezza sul da farsi, in questa fase storica, e che le parole di Johnson non valgano più delle sparate di Matteo Salvini. È l'euforia del momento, a dettarle. Ben altra cosa è farne un programma serio di controllo degli accessi. D'altronde, gli stessi inglesi sono i primi a non saper pronunciare senza scadere nel ridicolo due parole che non appartengano alla lingua madre: hanno solo avuto la grande fortuna di vederla imposta come seconda lingua per il resto del mondo. Vedremo. Per tornare ai nostri “cervelli in fuga”, ad assistere a certe prestazioni linguistiche, si ha davvero l'impressione che molti di essi - alcuni, senza dubbio, eccellenze assai gradite all'estero - in tutto siano stati impegnati fuorché nello studio dell'Inglese, vera e propria bestia nera di ogni italiano, da sempre. Si pensi, ad esempio, al caso scandaloso di Radio Freccia, emittente di musica rock con ottimi ascolti in termini numerici, i cui conduttori, quotidianamente, danno prova di un rapporto con l'Inglese a dir poco travagliato (occuparsi di musica rock senza conoscere l'Inglese è come voler approfondire la musica di Richard Wagner bellamente ignorando il Tedesco: impossibile). Giorni fa, la conduttrice di turno propone agli ascoltatori la lettura dell'ennesima biografia di musicista rock (genere letterariamente ignobile, ma va da sé che ad un pubblico come quello di Radio Freccia difficilmente altre e migliori letture possono essere sottoposte). Attenzione: non lo fa con la consueta edizione tradotta: si arrischia a consigliarne l'originale in Inglese. Il lavoro, ennesimo resoconto degli eccessi pre-pensionamento di Ozzy Osbourne, reca il titolo The Nine Lives Of Ozzy Osbourne. La nostra conduttrice lo legge, ma sbagliandone marchianamente la pronuncia (“livs”). Lancia quindi un ascolto in tema e, terminato questo, torna con slancio inconsapevole alla sua bella marchetta. Ripete il titolo con l'identico errore. Altra sviolinata sul madman e quindi via con nuovi ascolti. Si noti questo. Tra l'errore e la sua ripetizione, passano svariati minuti. Un arco di tempo più che sufficiente a qualunque essere umano con un bagaglio culturale ordinario per accorgersi delle brutta figura e suggerirne la correzione. Intervento che, nel caso in questione, però, non ha luogo, facendo sospettare identici problemi con l'Inglese vi siano anche da parte di redazione e regia. Questa, a mio parere, è l'Italia. Una nazione che da una parte si sopravvaluta (esempio ne è il numero via via crescente dei cosiddetti 'tuttologi'), dall'altra una che nutre, a propria difesa, la malcelata certezza che il prossimo sia sempre un inetto o un cretino. Non si spiegano in altro modo, le figure barbine che gli italiani fanno quotidianamente, quando tocca loro di impiegare l'Inglese. Molti dicono che queste sono da attribuirsi alla mancanza d'amore per la lingua di Shakespeare. Anche a voler seguire questa logica infantile, perché, allora, impegnarsi in tutti quegli ambiti dove l'Inglese è la lingua ufficiale? Ingegneri, musicisti, scienziati, astronauti, piloti, tecnici informatici, medici con alti livelli di specializzazione: come può essere possibile ricoprire questi ruoli senza avere dimestichezza con l'Inglese? È come odiare il latino e poi iscriversi al liceo classico. In occasione della recente cerimonia di consegna dei Globe Awards (gli Oscars di serie b conferiti dalla stampa estera residente a Hollywood), Ricky Gervais, nel mostrarsi stupito per l'ennesimo invito a presentarne la serata (causa l'ironia spietata e tagliente messa in campo nelle precedenti occasioni), ha dichiarato: “Per mia fortuna, la stampa estera di Hollywood, a malapena parla Inglese.” (“Lucky for me, the Hollywood foreign press can barely speak English.”). Il problema è quindi condiviso, e non esclusivo del 'bel paese'. Ugualmente, trovo irritante l'atteggiamento degli italiani quando hanno a che fare con l'Inglese: denota provincialismo – che, a ben vedere, è uno dei nostri grandi problemi, quello con le più gravose conseguenze su tutto il resto. Per nostra fortuna, questa situazione è destinata a non durare a lungo. La Cina sempre più imporrà al mondo, similmente a quanto fatto 75 anni fa dagli Stati Uniti d'America, la propria egemonia, fino a quando la lingua di Confucio diverrà ufficialmente ciò che oggi l'Inglese fatica sempre più ad essere: una lingua franca, in grado di garantire quel minimo di informazione senza il quale il mondo globalizzato, come noi tutti lo conosciamo, non può esistere. Quelli come me, a ragion veduta, saranno considerati dei matusa, tutti ripiegati su di una lingua dei tempi che furono, di quando eravamo giovani, esattamente come io ed i miei compagni vedevamo gli insegnanti di Francese negli anni '80, quando l'insorgere del bilinguismo anglosassone cominciava a farsi largo a spallate. Io stesso, quest'oggi, non saprei scrivere il nome di un solo uomo politico cinese – a riprova che la selezione è già cominciata. God save the Queen, musi gialli.

lunedì 9 dicembre 2019

JOIE DE VIVRE. Il mio, personale ricordo di Michel Petrucciani.

 L'immenso Michel Petrucciani.
È davvero sorprendente come la radio, nel fiume pressoché ininterrotto di quella verbosità insensata che caratterizza ormai, uniformemente, ogni suo canale, sia ancora in grado di donare momenti di pura bellezza e grande stupore a chi, come il sottoscritto, ancora l'ascolta con una passione d'altri tempi.
È successo stamane (5 dicembre), all'alba, su quell'isola che non c'è che è il terzo canale RAI (riconosco, da me insistentemente citato, come ne fossi un azionista, ma va da sé che lì, e solo lì, è avvenuto il miracolo).
Ricorre infatti quest'oggi – ma ne ero completamente dimentico – il ventesimo anniversario della scomparsa di Michel Petrucciani (per chi non lo conoscesse, un incantevole pianista jazz francese cui la natura aveva dato tutto ciò che abbisogna ad un essere umano per eccellere in campo musicale, avendo però la stessa privatolo dalla nascita di quella condizione di sana e robusta costituzione essenziale per la longevità, così imponendogli una scomparsa prematura sia dal punto di vista musicale sia da quello biologico).
Quando ti devi alzare all'alba per recarti al lavoro, la voce radiofonica è una fonte di conforto non di poco conto, sebbene, come accennato in apertura, il nonsense sia sempre in agguato.
Ed ecco allora che, data l'ora spaventosa dell'uscita di casa - corrispondente, oggi, ad una fascia oraria dove ogni emittente, persino la più scalcinata e provinciale, dispone di un format mattutino e consolatorio dedicato a tutti coloro che abitualmente od occasionalmente sono costretti a tirare la carretta al cantar del gallo - mi sintonizzo su Radio Rai 3, dove, va riconosciuto, è possibile sentirsi un poco più protetti, in termini contenutistici, rispetto agli abissi della concorrenza.
È una fascia oraria di repliche, puntualmente seguite da proposte di ascolto in ambito classico di musiche legate tra loro da una parola differente giorno per giorno.
La parola di oggi era vita.
Nonostante l'ora piccola, la conduttrice sembra d'improvviso riprendersi, come se qualcosa, finalmente, l'avesse risvegliata dalla noia di palinsesti a volte troppo uguali. Ricorda agli ascoltatori del triste anniversario. Aggiunge che la parola del giorno ben si adatta all'opera del pianista francese, avendola egli amata così tanto, la vita, da averle persino perdonato la malattia che questa gli aveva donato in nascita. Senza ulteriori preamboli, parte Brazilian-like, dal vivo. E non c'è null'altro che io possa fare, in quel momento, che accostare, occhi lucidi, e farmi avvolgere per qualche minuto da questa musica viva, ricca, meravigliosa.
Ho avuto l'onore e la fortuna di sentire Petrucciani dal vivo due volte. La prima, mi sembra, intorno al 1997, in occasione di un'esibizione privata con finalità benefica per i Lions del Lago Maggiore. Insieme ad un amico attraversai i binari di un tratto di ferrovia per poi arrampicarmi (!) sul costone della cappella privata, sede del concerto. Fummo issati all'interno della proprietà dagli addetti alla sicurezza, spaventati, più che dall'incursione, dall'eventualità, verosimile, di una caduta all'indietro sui binari, con sopraggiungere fatale di treno merci transalpino in transito notturno. Al fine di non turbare il clima ormai consolidato dell'evento, ci fu consentito di restare, ma all'esterno della struttura. Data la stagione mite, le finestre stavano aperte. Ci posizionammo come profughi su quella del retro, che il caso volle fosse a non più di tre metri dal pianoforte. Praticamente, sul palco. Fu come un sogno. In uno degli spasmi dell'esecuzione, Petrucciani riuscì a fotografare i nostri volti, continuando a suonare del tutto indisturbato. Anzi: forse persino galvanizzato dai nostri sguardi imploranti. Lo capimmo quando, al termine, ci riuscì di entrare e raggiungerlo.
“Hey, ragazzi: si sta meglio fuori, no? È più fresco che qui.”.
Petrucciani parlava italiano.
“Michel: complimenti. È stato bellissimo.”
“Grazie, ragazzi.”
Alzò la mano dal suo metro scarso di altezza e diede noi un cinque, contraccambiato con ammirazione assoluta ed un'invidia demoniaca per il livello sconcertante di quanto avevamo appena sentito.
La seconda volta fu nell'anno della sua scomparsa, il 1999. Ad Arona. Parco della Rocca Borromea. Nel solito luglio caldissimo. In quello che sarebbe poi diventato l'ultimo concerto italiano di Petrucciani. Una scadenza della quale egli solo, probabilmente, era consapevole, ma che in nessun modo riuscì ad intaccare quella gioia del fare musica e quell'amore per la vita che così fortemente hanno caratterizzato tutte le esecuzioni della sua carriera. Accompagnato da una formazione di superstar del jazz, quando queste compresero che la sua improvvisazione stava debordando, aveva l'urgenza di comunicare qualcosa che non poteva più essere contenuto, con grande discrezione si fecero indietro e lo lasciarono suonare solo per circa un quarto d'ora, immerso nella bellezza della creazione, gratificato dall'incanto e dalla commozione del pubblico.
Michel Petrucciani, è morto a soli 36 anni, lasciando dietro di sé, oltre al compianto per la perdita di una grande voce – in senso naturalmente lato - della musica, un esempio di dedizione alle proprie, naturali, predisposizioni che davvero meriterebbe di essere proposto ai nostri giovani.
In un tempo dove il format unico televisivo tenta insistentemente di persuaderci che basti un po' di faccia tosta e quattro accordi di chitarra per sentirsi attribuire un non meglio specificato 'talento x', la vicenda musicale di Petrucciani può essere il miglior antidoto per riportare il giusto ordine nelle nostre menti e nei nostri cuori.

martedì 26 novembre 2019

RESPECT THE COCK. La capacità di motivare.


Tom Cruise in Magnolia, di P.T. Anderson.
Motivare significa, in un'ottica psicologica, adoperarsi ad attivare nell'altro quelle capacità che gli sono proprie, al fine di conseguire, nel migliore dei modi, l'obiettivo preposto.
Probabile che l'avvento del motivatore lo si sia avuto in ambito sportivo con la figura del moderno allenatore di stampo statunitense (da cui i termini, ottusamente mutuati dall'Inglese, di coach e mister), tecnicamente preparato, ma anche dotato di una filosofia, volgarmente detta vincente, e di una visione forte, persuasiva, della vita.
(Il tutor stesso può essere inteso come figura motivazionale in quanto, sorto nelle scuole di recupero, ancora oggi, ha il compito, ideale, di creare nell'allievo recalcitrante un meccanismo di autostima ed un metodo di apprendimento, più che di inculcare nozioni molto più facilmente apprendibili in autonomia una volta conseguite le condizione espresse  nei due precedenti punti.).
Si può quindi facilmente cadere nel tranello di credere l'insegnante un motivatore, con il consguente, pericoloso sbilanciamento della responsabilità dell'apprendimento dall'allievo  al docente. Da un punto di vista tecnico, è sicuramente sbagliato. Da quello psicologico (lo ha spiegato benissimo Massimo Recalcati ne L'Ora Di Lezione) l'insegnamento è un rapporto a due, e certo, se il fine è quello di innamorarsi del sapere, serve, in chi apprende, una buona dose di motivazione, sempre intesa come riconoscimento di capacità uniche attraverso le quali può svolgersi ogni trasmissione.
Detto questo, il motivatore può umiliare? No.
Di fronte ad un problema, il motivatore può sicuramente esprimere il proprio biasimo, le proprie riserve, la propria disapprovazione, sempre però vincolando il giudizio non al mancato raggiungimento del fine preposto (umiliazione), bensì al non aver impiegato quelle qualità personali che sono in ognuno (motivazione) e che solo se messe in campo possono portare a risultati caratterizzati da uno stile (gratificazione), non stupida ripetizione di gesti o parole.
Ad esempio. Il motivatore che affronta il soggetto riversandogli addosso voci e giudizi terzi, nel tentativo, si presume, di generare una reazione di orgoglio, confonde se stesso con il galvanizzatore, il cui compito è quello di attivare l'azione nel soggetto ad ogni costo e condizione, prestando, pertanto, un pessimo servizio alla causa motivazionale.
Nella fase iniziale, il rapporto motivatore/soggetto è sbilanciato a favore del primo. Qui lo sport, ancora una volta, è foriero di esempi. Vi sono molti atleti, specie negli sport di squadra, il cui potenziale fatica ad esprimenrsi in campo perché messi in difficoltà dal pubblico, dall'avversario, perché timorosi di essere pesantemente giudicati per un errore o per la propria giovane età. Ecco: in questi casi, la dipendenza da un buon motivatore (allenatore) è quasi totale. Ma è anche chiaro che un simile rapporto può avere solo una durata limitata, deve risolversi con la crescita del soggetto in direzione della massima autonomia.
Forse il peggior motivatore è proprio colui che, attraverso l'impiego delle cosiddette mezze verità, vincola a sé anziché liberare, impedendo in tal modo l'espressione di potenziali che potrebbero, invece, fare la differenza (come sempre accade con un apporto genuinamente personale).