sabato 14 gennaio 2023

PALLE AL CAZZO DEL 21ESIMO SECOLO (“IT'S ALL BOLLOCKS”). Il fenomeno Yungblud.

Vi sono diverse ragioni di carattere personale, a spiegare la mia improvvisa infatuazione per Yungblud. L'aspetto esteriore, una certa qual tendenza al travestitismo, l'Inglese genuinamente brit, il fatto non trascurabile dell'essere un millenial con ancora del sangue nelle vene e, ça va sans dire, trattandosi di un artista pop, le sue canzoni.
L'incontro, se così si può dire, è avvenuto grazie ad un promo, propostomi dall'algoritmo della 'rete', per quella che è stata la sua apparizione a X Factor Italia di qualche mese fa.
- E chi cazzo è, questo belloccio carico a pallettoni? - mi sono detto.
A parte il fare diretto, spigliato, ma non sfacciato, mostrato nel videomessaggio, è stata principalmente la parlata northener (Yungblud è originario di Doncaster, 50km nord-est di Sheffield, il cuore duro dell'Inghilterra working class) a rendermelo simpatico fin da subito.
Yungblud, scopro, è un artista di conclamato successo commerciale.
Classe '97, comincia a scrivere canzoni all'età di diciassette anni. Appartiene a quella generazione di giovani inglesi che, all'esordio nella cabina elettorale, viene chiamata a decidere riguardo alla Brexit, il più grande evento nella storia moderna britannica dopo la decolonizzazione e lo scioglimento dei Beatles. Il suo primo singolo, King Charles, con qualche aggiustamento interpretativo, è facilmente riconducibile a questa esperienza generazionale.
Nel giro di soli quattro anni passa dalle serate nei “peggiori bar di Caracas” al tutto-esaurito alla Brixton Academy di Londra , strappando recensioni entusiastiche persino ad una rivista gloriosamente hard-edge come Kerrang. (Un tempo Kerrang, che non è esattamente Rolling Stone Italia, è stata la Bibbia dell'heavy metal a livello planetario. Oggi, cessata la diffusione cartacea e riconvertitasi ad una critica di costume più al passo con i tempi, non si fa problemi a recensire positivamente, con leggerezza, competenza e senso della misura, il concerto di un idolo pop quale Yungblud, a dimostrazione che a] è possibile cambiare, se lo si desidera davvero; b] c'è ancora fermento, nell'underground britannico.).
Nello stesso periodo della serata di Brixton, viene pubblicato il suo primo album, una raccolta di brani in cui l'eclettismo stilistico risulta perfettamente funzionale alla messa in risalto dei testi. (Questa, e solo questa, è la grande missione del pop. Non innovare, bensì comunicare attraverso l'impiego di forme e stili codificati.).
Da allora, il suo seguito è cresciuto in maniera esponenziale, e ad oggi sono poche le
venue in grado di contenere il richiamo esercitato dai suoi concerti.
Punto.
Ora, chi scrive di musica o di costume, in Italia, non può, suo malgrado, non tenere conto del contesto nel quale si trova ad operare. Il paragone con quanto sta fuori dai confini del paese è, come sempre, inevitabile, quasi fosse un atteggiamento ormai inscritto nei geni in ragione della sua infinita ripetizione.
A patto, beninteso, di non essere un nazifascista od un ottuso della prima ora – che è poi la stessa cosa.
Il successo di Yungblud, al di là dell'aspetto e dei meriti artistici, è da attribuirsi essenzialmente all'ironia, al disincanto; una certa trasparenza; una personalità inusuale per un
millenial, e alla capacità, sempre più rara, di non prendersi troppo sul serio, di ridere in faccia alle proprie sventure. È assai probabile che lo stesso suo seguito risulti sprovvisto di queste caratteristiche salvifiche, e che, comprensibilmente, veda in lui, né più né meno, ciò che vorrebbe essere una volta alzatosi la mattina. Scrive Spin Magazine, in un recente servizio: “Se Yungblud si mettesse a capo di una setta, è certo che lo seguirebbero in molti. Dispone di un'aura, di una visione e di un'affabilità davvero contagiose”.
Quale artista, da noi, è capace di un simile atteggiamento? Aprire il disco d'esordio con il discorso commemorativo delle tue esequie, ridere all'immagine che queste possano andare deserte, fantasticare una lobotomia all'A.S.L. pur di farla finita con certi pensieri e da lì muovere per parlare di disagio, di sedazione, di malinconia, di sogni che si pensano irrealizzabili, di stragi e di amori che non stanno né in cielo né in terra.
È importante ricordare che stiamo parlando, qui, di un giovane di appena 20'anni appartenente alla generazione più inetta e problematica mai vista.
Dite: chi sono, in ambito italiano, i coetanei di Yungblud?
Chi, di questi, avrebbe il coraggio di intitolare il proprio disco d'esordio
21st Century Liability anziché Teatro d'Ira Vol.1? (Traduco per i “poveri in ispirito”. Nella lingua di Sua Maestà, liability è termine che definisce sia la responsabilità penale della persona fisica, in ambito giuridico, sia, nel gergo famigliare, il peso metaforicamente inteso, duplicità che, conseguentemente, etichetta il nostro come qualcosa a metà strada tra il problema e la palla al cazzo, ma attraverso un lemma rubricato come tecnico e forbito dal Merriam-Webster Dictionary of standard English.).
Perché l'Inghilterra, con i tanti e non poco gravi problemi che l'affliggono, riesce comunque a partorire un giovane capace, con un verso, di definire un'intera generazione, nessuno escluso (“
In a place where they fail to inspire / I'm drinking the bleach so that I feel the fire” sembra scritto da uno che ha appena terminato la lettura di un saggio di Umberto Galimberti sul nichilismo), mentre noi tutto quello che sappiamo fare è andare in delirio per un brano come Beggin'?
Vi siete mai concentrati, per un secondo, sul testo di
Beggin''?
MA DI COSA STIAMO PARLANDO?

mercoledì 24 agosto 2022

AMICI MIEI, ANDATE AFFANCULO. Roger Waters si depura del proprio pubblico.


Nel bellissimo This Is Not A Drill, allestimento della migliore produzione dei Pink Floyd, pensato e realizzato da Roger Waters con il visual artist Sean Evans, il pubblico pagante è fatto oggetto, ad apertura dello show, di un messaggio letto fuori campo dallo stesso Waters.
Parodia della messaggistica obbligatoria di ogni sacrosanto volo commerciale, consta sostanzialmente di tre semplici ed elementari inviti. Il primo è a rilassarsi e a godere dello spettacolo, il secondo a spegnere i telefoni, il terzo – e qui tenetevi forte, perché viene il bello – ad andare a fare in culo nel caso si intenda ammorbare l'intera serata per mezzo di reiterato biasimo per le posizioni apertamente politiche del buon Roger.
Waters non dev'essere una persona facile. È probabile che certi suoi tratti caratteriali particolarmente spigolosi, gli stessi che lo hanno sovente reso inviso a parte del grande pubblico e agli stessi membri dei 'Floyd', siano connaturati da una parte allo status di creativo, dall'altra alla propria vicenda personale. Entrambi gli aspetti – nel caso si intenda approfondirne la conoscenza – sono stati raffigurati con grande afflato poetico in The Wall, di Alan Parker, film la cui visionarietà, a decenni di distanza, è ancora in grado di parlare ad un pubblico che si dica sensibile ai quesiti ultimi dell'esistenza. Una visione, insomma, che mi sento di consigliare caldamente.
Quanto alle posizioni politiche, Waters penso possa ben dirsi un socialista libertario a la Noam Chomsky, un anarco-socialista con una forte componente antiautoritaria. È come minimo dalla pubblicazione di Wish You Were Here, il primo album meramente politico dei 'Floyd', che il nostro va esprimendo queste tendenze in maniera aperta - per quanto, a volte, caratterizzata da una rigidità ed un'ostilità tutt'altro che funzionali alla creazione di proseliti.
Tutto questo per dire: è da 50'anni che l'opera di Waters, specie quella solista - nell'opinione del vostro umile scrivano, apertasi con The Final Cut e non con The Pros And Cons Of Hitch Hiking –, tratta di temi fortemente connaturati all'anarco-sindacalismo, quali l'opposizione al sistema, le politiche di condizionamento, l'antimilitarismo, la manipolazione dell'informazione e via dicendo.
Sconvolge, quindi, dopo un arco di tempo così ampio, che ancora qualcuno, ai suoi concerti, si dica sorpreso per un attacco verbale sferrato nei confronti – che so? - di Donald Trump, un immagine di Nancy Regan associata al climax di un brano come Sheep, la comparsa di svastiche nei passaggi tratti da The Wall o per quelle dichiarazioni spontanee con le quali Waters, spesso, reagisce alla cronaca internazionale.
Ed ecco perché, per tornare all'oggetto di questo scritto, l'invito ad andare a fare in culo (“... you might do well to fuck off to the bar right now”) è rilevante al di la del contesto di This Is Not A Drill.
Waters conosce il suo pubblico. Sa bene che a questo deve sostanzialmente la sua intera carriera, ma anche che essa è stata costruita in buona parte, e suo malgrado, sui franintendimenti di una grossa porzione di detto seguito, compagine spesso rivelatasi estremamente ignorante ed incolta.
Sinceri: quanti degli ormai numerosi nostri principi del sold-out sarebbero capaci di trattare il proprio pubblico per quello che realmente è, per la pasta di cui è fatto? Jovanotti, forse, che affronta l'annus horribilis 2022 saltando sul palco vestito da pirata dei Caraibi? Vasco Rossi, con il suo 'grazie' a fine-concerto ad occupare il maxischermo? O Max Pezzali, 30'anni a cantare dell'uomo-ragno e dell'industria del caffè, e il mese scorso, a San Siro, non c'era un posto libero?
Per tornare a This Is Not A Drill, è significativo che il primo brano in scaletta sia Comfortably Numb.
Comfortably Numb - qualcuno lo saprà, altri forse no – oltre a rappresentare il punto di svolta del soggetto di The Wall ed una delle canzoni più famose dei Pink Floyd -, è di per sé un brano epico, grazie alla sua commistione di cantato e parlato, allo sdoppiamento delle voci a simboleggiare la regressione del protagonista e, non ultimo, al leggendario solo di chitarra in chiusura. Insomma, una vera e propria hit che nessuno, nemmeno i fan meno intransigenti, si aspetta di sentire in apertura. Tanto più se completamente trasfigurata nel nuovo – stupendo e, per quanto mi riguarda, definitivo – arrangiamento di Waters. Assente la sezione ritmica, spariti i soli, l'intero cantato trascritto nel registro grave, voci femminili comprese. Nessun orpello: solo i versi e le armonie dell'originale. La domanda è: perché 'smarginare' un grande brano, quale è Comfortably Numb, proponendolo addirittura provocatoriamente ad inizio-concerto? Risposta semplice: per restituire ad esso tutta la profondità che infinite, sconclusionate interpretazioni gli hanno letteralmente depredato. Mi pare utile ricordare, a suffragio di quanto appena affermato, che, non molto tempo fa, un conduttore di Radio Freccia, emittente tra le più seguite del paese, ha descritto Comfortably Numb come “brano perfetto per darsi la carica la mattina”. Inimmaginabile, che un artista dalla sensibilità estremamente vibratile come Waters non sia consapevole di tale livello di travisazione. Ecco spiegato, allora, il colpo di genio di presentare Comfortably Numb nella sua più scarna nudità. Così è, se vi piace.
Viviamo tempi duri, difficili, a volte terribili, inquietanti.
L'impossibilità, sempre più frequente, a comunicare con il prossimo acuisce questa sensazione, ancor più se i travisamenti del nostro sentire più profondo, di quelle che avvertiamo come intime verità, sono operati proprio da coloro che ci sono più vicini (nel caso di Waters, dal proprio pubblico).
È nostro preciso dovere morale allontanare non tanto chi dissente da noi, quanto chi dissente da ciò che siamo.
Questo ha fatto, Waters, a mio modesto parere, con l'amara ironia del messaggio ad apertura di This Is Not A Drill.
Perché questa, signori, non è un'esercitazione.
Non c'è proprio nulla di cui scherzare.

domenica 31 luglio 2022

'SPEAK UP!' La lingua morta della classe politica italiana.

 

Non ho titolo per discutere di alcunché, io. Figuriamoci di politica! Più passa il tempo e più me ne disinteresso.
È un universo parallelo, la politica. Checché ne dicano i suoi esponenti, rappresenta al momento quanto di più distante vi sia dalla vita vera.
Non vedo quindi in quale modo i miei problemi - intendendo con essi quelli del quotidiano, esperibili da chiunque avverta l'obbligo morale dell'arrivare onestamente a fine-mese - possano essere letti attraverso quest'ottica.

Da quando però ha avuto ufficialmente inizio l'ennesima crisi di governo, un aspetto che ha temporaneamente rinnovato in me l'interesse per 'gli affari interni', è il linguaggio con il quale la classe politica – che della crisi è l'artefice unico - ne ha dato comunicazione al paese.

Mi ha colpito per un semplice motivo: si tratta dello stesso con il quale sono state espresse tutte – dico 'tutte' – le precedenti crisi.

Come molti di voi forse sanno, sono prossimo ai 52. Sono cresciuto in una casa dove la lettura del Corriere della Sera e la visione delle principali edizioni del telegiornale nazionale erano un rito imprescindibile. In conseguenza di ciò, un'embrione di coscienza politica penso si sia andato formando in me intorno agli otto anni, in concomitanza con il caso Moro. In casa nostra, in quei giorni, non si parlava d'altro. Persino le questioni religiose, imprescindibili per una famiglia fortemente cattolica, erano passate in secondo piano, quando non addirittura sotto silenzio. Fu da allora che le parole della politica – quella già allora sprofondata nella crisi più nera - cominciarono a giungere me e ad imprimersi indelebilmente - e nocivamente - nella mia formazione di preadolescente. 'La crisi al buio', 'l'arco costituzionale', 'l'esecutivo balneare', 'la parola alle urne', 'il governo tecnico', 'le larghe intese', 'l'incarico esplorativo', 'l'agenda condivisa', 'l'unione programmatica', 'il dettato politico', 'la fiducia nelle istituzioni'; sono formule che i più attenti di voi avranno sentito in bocca a politici e giornalisti in questi giorni. E sono le stesse con le quali la politica italiana si è espressa nelle sue innumerevoli crisi dagli anni '70 ad oggi. Per capirci - e solo per citare due nomi conosciuti da tutti, anche dai più disincantati –, Giorgia Meloni e Matteo Salvini sfoggiano in questa crisi 2022 un linguaggio che non è di molto difforme da quello di Giulio Andreotti e Bettino Craxi ai tempi dei rispettivi mandati. Riflettiamo. Quanti rapporti sentimentali, di amicizia o semplice conoscenza giungono ad esaurimento con l'accusa di non poco rilievo che lui o lei, da troppo tempo, “dice sempre le stesse cose, ogni giorno”? Cosa pensereste, se mi rivolgessi a voi con il pensiero, il linguaggio e la visione di un ragazzino? Non trovereste imbarazzante ed insopportabile la mia frequentazione? Ecco: lo stesso vale per la politica. Una classe politica incapace di rinnovare il proprio linguaggio - e, conseguentemente, il proprio pensiero -, è inadeguata a rappresentare chiunque all'infuori di sé stessa. E questo spiega l'allontanamento via via crescente delle persone dall'impegno politico come dal voto.
“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”. È così sconfortante, la situazione, da non sentirmi nemmeno più obbligato a nominare la fonte della citazione: se nell'anno del Signore 2022 non hai ancora fatto tuo un concetto come quello appena riportato, è tardi, per rimediare. Imbarazzante quanto volete, ma la verità è che solo il Movimento 5 Stelle, con il 'vaffanculo' degli esordi, ha apportato un mutamento dialettico palpabile nella politica italiana. Per il resto, “cambiare tutto per non cambiare niente”, “Parole, parole, parole”, “Words don't come easy to me”.

Non parliamo, poi, della proposta, avanzata da Massimo D'Alema, a poche ore dalle dimissioni di Mario Draghi, di assegnare provvisoriamente l'incarico per la guida del governo a Giuliano Amato. Cioè: questa, è la politica italiana, la sua risposta irriflessa alla crisi. Giuliano Amato! Invocato da Massimo D'Alema! Un 84enne proposto con baldanza, a soluzione del difficile momento, da un politico in pensione, di dieci anni più giovane e formatosi al tempo del Partito Comunista Italiano - e a cui, naturalmente, la stampa italica tributa attenzione come si trattasse di persona in collegamento diretto e costante con Dio.

Sono 30'anni che il nome di Giuliano Amato viene invocato ad ogni crisi, al fine di riempire ad interim ogni vuoto creato dalla caduta – puntuale quasi quanto le stagioni – di tutti gli esecutivi succedutisi.
Non c'è rinnovamento, quindi, sul fronte linguistico, ma nemmeno sul quello generazionale (l'unica volta che lo si è tentato, è arrivato Matteo Renzi: le conseguenze della sua epifania sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere).
La politica è finita.

E al momento non si prospettano alternative praticabili al vivere civile.

lunedì 25 luglio 2022

'INTO THE VOID'. Fianco a fianco con i 'Millenial'.

Com'era inevitabile che accadesse, sono finito a lavorare con dei millenial.
Fino a poco tempo fa, sul fronte dell'anzianità aziendale, sono sempre risultato, mio malgrado, come 'quello giovane', il 'ragazzo', un Gianni Morandi dei poveri, per anagrafe ed esteriorità. Ora, invece, a poche settimane dal 52esimo compleanno, sembra proprio non vi siano altri numeri magici da mostrare al pubblico pagante: lo spettacolo è finito, “Elvis has just left the building”. Sul posto di lavoro ha avuto inizio l'ineluttabile – e, da parte di alcuni, temutissimo - cambio generazionale. E così, per la prima volta nel mio percorso lavorativo, mi ritrovo ad avere accanto persone delle quali potrei benissimo essere il padre (tesi, questa, assai compromettente, ma tant'è). Tecnicamente, si tratta di figli della Generazione X, gente fresca di laurea (triennale) o di licenziamento da una delle innumerevoli realtà del precariato italico. Giovani che, anche quando nati sul finire dei '90, hanno comunque subìto in maniera forte sia l'arrivo che il successivo imporsi della millenial attitude, e sono quindi da considerarsi, a tutti gli effetti, dei nativi digitali.

Sono determinati, i colleghi. Entusiasti, svegli e migliori di quanto io fossi alla loro età. Vivono l'incanto del nuovo impiego. La mia ipercordialità (strette di mano, formule di rito, parvenza di interessamento alle condizioni pregresse ed attuali del nuovo arrivato), roba da vero piemontese falso cortese, ha contribuito non poco ad una accoglienza con i fiocchi. Se avessi avuto un po' più di coraggio, li avrei probabilmente trattati con freddezza e distacco, senza alcun tipo di coinvolgimento. Scostante, certo. Ma sicuramente più in linea con un certo mio sentire. Però si sa: noi della Generazione X - figli legittimi di boomer veri, non quelli della costante e deliberata travisazione a tutto tondo operata dal mondo millenial -, con tutti i nostri difetti, un'educazione l'abbiamo ricevuta. Ed il nostro super-io (il genitore-boomer) ci impone di usarla ad ogni piè sospinto.
Lavorando fianco a fianco con i nuovi colleghi, ho ricavato l'impressione di non piacere:
loro vedono in me 'il matusa'; io, in loro, la generazione più a secco di contenuti di sempre. È cioè in azione il pregiudizio. Da entrambe le parti. I sociologi più arditi sostengono che il punto di forza millenial stia nel saper vivere, sostanzialmente, senza avvertire in alcun modo l'urgenza di un nesso tra le cose. Un'urgenza 'boomer' , quella del senso delle cose. Ordine e logicità ad ogni costo rappresentano effettivamente un'ossessione che la Generazione X ha coltivato come si trattasse di una specie rara, da preservare. Prova ne è il rapporto che essa ha avuto con la psicoterapia, facendo outing e sdoganando il tabù dello strizzacervelli. Sinceri: riuscite, voi, ad immaginarlo, un millenial in terapia? Che vada bene, alla terza seduta di risposte vaghe o mancate e di consultazione occasionale del cellulare, lo 'strizza' lo manda a fare in culo, e se ne torna a trattare nevrosi maggiormente gratificanti e codificate. Giusto oggi mi è capitato di sentirne uno in rete fare della critica di costume (evento quanto mai raro, ma che dimostra come sotto sotto anche ai nostri piccoli 'sorcini' piaccia dire la propria). Ad un certo punto, il giovane amico istituisce un paragone con Blob - Di tutto di più. Dice: “Per chi non lo sapesse, Blob è un programma che – spero sia ancora in onda su Rai 3 -, parecchio strano, effettivamente. Perché sono tanti spezzoni di tanti programmi diversi, tutti quanti slegati tra loro. Solo così: un meshup” (sic). Ecco: è questa incapacità di lettura mista ad indolenza a risultarmi davvero intollerabile.
Esperienza insegna, però, che quando si è genitori di
millenial e ci si atteggia in questo modo, oscuri presagi sono destinati ad addensarsi all'orizzonte. Indro Montanelli, riflettendo sull'opportunità di mettere al mondo dei figli, sottolineava come questi, al di la delle migliori intenzioni genitoriali, siano sempre e solo figli del tempo che li vede nascere.
Penso avesse ragione. Probabile, quindi, che anche mia figlia, molto presto, si disferà agilmente del dettato materno e paterno per seguire – che so? - delle lezioni di 'corsivo', diventare una
influencer, una tiktoker o, peggio, uno dei tanti 'disposable teens' che ad oggi intasano il Web con il loro vuoto pneumatico.
Perché QUESTA, alla fin fine, è la grande colpa della generazione
millenial: avere fatto virtù del nulla.

domenica 3 aprile 2022

'IMAGINE'. Il mondo ambiguamente fascista di John Lennon.


In aggiunta all'incalzante retorica del siamo-tutti-ucraini – divenuta stucchevole tanto quanto coloro che se ne fanno portatori -, un'altra insopportabile componente di questa ennesima ondata di pacifismo prêt-a-porter è l'immancabile Imagine, di John Lennon, puntualmente strimpellata, con tanto di occhi lucidi, nelle recenti manifestazioni per la pace (in primis, Piazza San Giovanni). A fronte di questo mio evidente disgusto – che sono certo venga ormai percepito con pesantezza anche dai pochi, ma fedeli, lettori di questo blog -, penso sia giunto il momento di spendere due parole su questo tormentone, davvero senza tempo, del pacifismo occidentale e sulla strumentalizzazione che di esso hanno fatto le varie gioventù bruciate nei decenni seguiti alla sua pubblicazione. Lennon lasciò i Beatles - oltre che per i motivi fino ad oggi stagionalmente indagati e quindi straconosciuti – a causa dei ripetuti attacchi che, dal tempo della comparsa al suo fianco, gli altri membri della band avevano puntualmente rivolto a Yoko Ono, giapponese, visual artist, attivista, compagna e, successivamente, consorte di Lennon. La si accusava di averlo plagiato, distolto dalla sua arte, dal suo vero sentire di musicista, ed in tal modo di avere fatalmente contribuito alla disgregazione del quartetto. Lennon non perdonò mai a Paul, George e Ringo questa posizione e cotanto accanimento, ed in tutta risposta, nel periodo immediatamente successivo allo scioglimento dei fab four, pubblicò due dischi fortemente caratterizzati, nelle intenzioni programmatiche come nei contenuti musicali e testuali, dall'influenza di Ono. Imagine, brano d'apertura dell'album omonimo, checché ne dicano gli adepti della 'seconda chiesa di Lennon', fa infatti il paro con il precedente John Lennon / Plastic Ono Band nel mostrarne l'autore in tutta la sua ordinarietà, in netto, sconvolgente contrasto con la figura autorale messa in campo nel periodo precedente. Colui che solo cinque anni prima aveva dato vita ad un brano come Tomorrow never knows, è ora divenuto una figura di culto, politicamente rilevante, in apparente simbiosi con la visione di vita della consorte. A tale visione, Lennon aderisce con un'intensità ed una coerenza tali da portare un contributo tutt'altro che marginale alle tensioni che, di li a breve, provocheranno lo storico scioglimento della 'band' di Liverpool. Le istanze pacifiste di Ono, suffragate in parte dalle proteste montanti nei campuses statunitensi e da un malcontento ormai diffuso nella pubblica opinione, trovarono concreta realizzazione artistica nel brano in questione. Quella che il pacifismo, da allora, ha assunto come proprio inno, e che oggi, declinata alle odierne esigenze 'del campo', risuona nelle bocche di tanti dei personaggi senza arte né parte del pacifismo nostrano, è, nel parere di scrive, una delle canzoni più deludenti tra quelle scritte da Lennon - per quanto coerentissima con la sua condotta del tempo. Nel mondo di Imagine – e c'è di che tremare, a pensare che Lennon possa avervi creduto – un'uguaglianza a tutto campo, orizzontale, regna incontrastata. Abolite differenze, confini, religioni, tensioni, incomprensioni e ogni causa per cui valga la pena vivere o morire, l'invito che viene indirizzato è a lasciar perdere e, in tal modo, a vivere strafatti un'eterna estate dell'amore, finalmente uguali, non belligeranti e totalmente aconflittuali (che è quanto ipocritamente propugnato oggi dai padroni della 'rete', sebbene con altri mezzi ed altre intenzioni). Un mondo dove l'altro cessa di anteporsi con le proprie opinioni, cessa di infastidire, perché è come te, perché tutti sono uguali: stesso pensiero, stesso atteggiamento nei confronti degli eventi della vita, abolizione dell'alterità. In altre parole, l'essenza stessa del fascismo - sebbene non perseguito con la forza, ma fantasticato nelle sue sole risultanze. Il seguito di Lennon, sia quello ottusamente più fedele che quello la cui ammirazione giungeva per inerzia (il mainstream), ha fatto di Imagine fin da subito una vera e propria bandiera del più becero pacifismo - quello, per intenderci, mai teso a propugnare soluzioni, ma sempre ottusamente a favore di uno sterile ed infantile non-interventismo. Volendo finalmente vederne la figura con il dovuto distacco, esattamente come faremmo con la seconda guerra mondiale, l'omicidio Kennedy o, per restare in casa nostra, il sequestro Moro, va detto che, nella fase solista della sua carriera, Lennon fu, in maniera via via crescente, sempre più convinto che ogni suo pensiero messo in musica - ogni nota, cioè, accordo, melodia o arrangiamento - fosse sempre foriero di rilevanti sottintesi anche quando alle orecchie suonava, né più né meno, come l'equivalente di una gran bella strimpellata (si pensi a Give Peace a Chance, al fatto di pubblicare spudoratamente quella che può ben dirsi la registrazione di una grigliata tra amici, financo ottenendone uno straordinario responso commerciale, e si avrà di quanto vado qui sostenendo una prova agghiacciante). Ribelle senza più causa, piegò la sua produzione alle istanze liberal della sinistra statunitense, assai in voga nella società del momento (posizione, quella ideologica, che, con la grande produzione dei Beatles [1966-69], aveva invece accuratamente evitato). Viene insomma da pensare che, fosse ancora vivo, con buona probabilità lo vedremmo suonare alle feste del PD o alla Leopolda. Non credo che il rock, genere politico alla nascita, debba astenersi dal prendere posizioni aperte (se così fosse, verremmo privati in un sol colpo dell'intera produzione dei Clash – produzione, mi permetto di sottolineare, tutt'altro che meschina). Penso piuttosto che molti, troppi artisti, specie in passato, abbiano letto il proprio successo commerciale come un'investitura a guida politica e spirituale, a guru della pubblica opinione, e che, nell'assumere tale ruolo, abbiano spesso cavalcato l'onda mainstream né più né meno con la stessa spregiudicatezza del più navigato dei politici, e che come questi abbiano ambito più ad influenzare le folle che a persuaderle per mezzo della propria arte. È probabile, insomma, che, se in quel lontano agosto di 42 anni fa Mark Chapman non avesse sparato a Lennon, qualcun altro l'avrebbe comunque fatto, prima o poi.