domenica 21 giugno 2020

SÌ, BUANA. Dietro gli attacchi alla figura di Indro Montanelli.


Un gigante della cultura italiana: Indro Montanelli.
Di questi tempi, il commento ai fatti di cronaca, mi sento di dire, è attività miserrima persino a livello professionale. A livello amatoriale – dove anche questo blog trova la sua naturale collocazione - rischia sovente di sconfinare nella pura chiacchiera. Ma essendo, io, un montanelliano convinto, non posso esimermi dal prendere posizione nella recente bagarre – perché di questo si tratta – intorno la figura di Indro Montanelli, che proprio le pagine di cronaca ha occupato nell'ultima settimana.
Senza girare intorno all'argomento: le campagne diffamatorie, di odio e discredito, condotte contro questo esponente della cultura italiana – ma certo qualcuno avrà da ridire anche riguardo questa specifica iscrizione -, hanno un'origine precisa nel tempo e nel movente. Nascono dalla lettera aperta con la quale, il 10 gennaio 1994, l'allora direttore de Il Giornale palesa la propria opposizione a servire, a livello editoriale, l'ingresso in politica di Silvio Berlusconi, proprietario della testata. Punto. Chi tocca muore. Questo andrà scritto, quando sarà il momento, sulla lapide dell'ex presidente del consiglio. Prima di quel giorno, Montanelli se lo filava solo il suo seguito più appassionato. Era, come ho scritto in apertura, un uomo di cultura. E in un paese di ignoranti come il nostro, rappresentava, in tale veste, quanto di meno appetibile vi fosse, per pance già ben addomesticate come quelle degli italiani – che, difatti, due mesi più tardi, dopo un decennio abbondante di programmi Mediaset, tributeranno a Berlusconi la sua più grande vittoria. In Italia puoi attaccare selvaggiamente il papa. Ma se te la prendi con Berlusconi, hai finito di vivere. Il seguito di quest'ultimo, cui anche i sentinelli di Milano vanno iscritti per filiazione spirituale, è del tipo adorante a la Charles Manson. È questa compagine, e non l'ex cavaliere in prima persona, a farsi carico delle azioni in difesa del proprio, sotterraneo guru. Sondate di persona: scoprirete senza fatica che questi fanatici, dell'opera di Montanelli, non sanno nulla, non ne hanno letto una sola riga. Tutti gli attacchi sferrati da allora e proseguiti post mortem non nascono da motivazioni personali, ma da un odio conto terzi, mutuato e messo in atto con piglio da vero e proprio lavoratore dipendente. È questa la diabolicità del berlusconismo: essere riuscito a mutare tutti in sottoposti, convincendo anche i più recalcitranti a 'farsi assumere', a 'lavorare' per 'la causa'. Figuriamoci, perciò, con quale bava alla bocca detto seguito deve avere accolto, al tempo, il rifiuto di Montanelli. Roba da rischiare la pallottole una seconda volta.
Montanelli, quindi, risulta colpevole, secondo questi cervelli sopraffini, di lesa maestà, principalmente per due motivi: per avere scritto, in tempi non sospetti, che, tra il '43 e il '45, in Italia, non vi fu una resistenza, ma una guerra civile; per avere detto no a Berlusconi, cioè al potente di turno. È colpevole di avere dato il la a giornalisti come Elio Veltri, Marco Travaglio e Daniele Luttazzi, gli unici ad avere posto a Berlusconi quelle domande che nessuno osava anche solo concepire. E allora, non avendo argomenti da opporre, ma solo fuffa della migliore selezione, ecco fioccare le accuse di ingratitudine nei confronti di Berlusconi-editore, di ipocrisia, di razzismo, di pedofilia e quanto di meglio il repertorio di questi figli di Drive-In avevano in serbo (impiego il passato perché il repertorio, da allora, è sempre lo stesso, non ha subìto modifiche, non registra, e non registrerà, novità alcuna). Sebbene non tutti, molti di coloro che oggi accusano Montanelli di razzismo e pedofilia sono gli stessi che, al tempo del processo Ruby, hanno difeso Berlusconi dagli attacchi della pubblica opinione, sostenendo che questa muoveva esclusivamente dall'invidia per la straordinaria vita sessuale dell'allora presidente del consiglio.
È poi chiaro che, se pensi l'opera Montanelli sia quella di un razzista financo pedofilo, i suoi libri ed i suoi articoli, non li hai mai letti – e, a questo punto, consiglio caldamente di non metterli in elenco alla voce 'letture per l'estate': bastano ed avanzano i fraintendimenti di questi ultimi 20'anni.
Contrariamente ai suoi detrattori, ritengo Montanelli un'ottima lettura per tutte le stagioni. I motivi per i quali il suo corpus librario e giornalistico andrebbe sapientemente inserito nei programmi scolastici sono:
  • chiarezza espositiva
  • narrazione lineare
  • ricchezza lessicale
  • coraggio interpretativo
  • assenza di conformismo
  • passione civile
  • affilata ironia
Tratti, ne converrete, che non sono esattamente quelli né della maggior parte degli italiani, né, tantomeno, di quegli 'ominicchi' che ancora oggi non cessano l'attacco in absentia alla sua figura, al suo ricordo, alla sua opera.
E non mi sorprenderei di trovare, parte dell'ultima categoria, anche degli appartenenti al corpo docente.
Magari quegli stessi professori che hanno insegnato la storia ai giovani sentinelli.

martedì 9 giugno 2020

TRISTE, SOLITARIO Y FINAL. La difficoltà di rapportarsi agli altri.


Il miglior amico dell'uomo: Charlie Brown.
Mia moglie, psicoterapeuta dal cuore grande, sostiene che, con molta probabilità, io sia un solitario mascherato. Tesi tutt'altra che balzana, considerato quanto - specie dopo i recenti assestamenti sociali post-lockdown -, sempre più, io, fatichi a trovarmi a mio agio con le persone (“Alcuni si trovano meglio con gli animali, non sono uomini della ragione”, cantava Morgan ne Lo Psicopatico). Molto meglio passare il tempo al computer tentando di scrivere qualcosa di decente per questo blog – che penso rappresenti abbastanza fedelmente buona parte di luci ed ombre della mia persona.
Da un lato, la manifesta incapacità dell'uomo moderno nel fronteggiare anche la più modesta delle solitudini è fonte di infinite disgrazie, tutte rubricabili alla voce effetto-farfalla. Se le perone, cioè, stessero un po' più spesso a casa propria, il numero delle disgrazie che, ad oggi, affliggono l'umanità, risulterebbe ridotto di molto. È una tesi che da ragione più alla saggezza popolare e al grande Maestro Mimmo Rapetto che alle scienze sociali, lo so. Le donne vittime di violenza domestica – gesto che ha registrato una drammatica impennata, durante la reclusione di questi mesi -, certo non sarebbero d'accordo. Ma questa è un'altra storia.
C'è poi tutto uno scoramento dovuto ai tanti, piccoli segnali che ogni santo giorno giungono a confermare quanto meglio si stia, da soli, se il livello di condivisione e di empatia è quello dato da un radioascoltatore, giusto stamane, al filo diretto di Radio 3: “Chiamo dalle Dolomiti, ma tendo a specificare che mi ritengo un cittadino del mondo”. Cioè: in un pianeta in subbuglio, scosso da crisi sociali, economiche, umanitarie e financo sanitarie; in una Europa che, nella difficoltà, come istintiva reazione, ha chiuso molte della sue frontiere; in un paese – il nostro – dove il Coronavirus ha portato alla luce abissali – e, a mio parere, insanabili - divisioni regionali, il nostro bravo connazionale – il cui cervello, uno si aspetta, dovrebbe meglio di altri funzionare, data la straordinaria qualità dell'aria delle Alpi Orientali – se ne esce con una presa di posizione, sterile, anacronistica e banale come quella riportata. E, uno, dove trova la forza, la positività, per uscire di casa, nella speranza di poter fare due chiacchiere che non siano assimilabili a questo infimo livello di riflessione?
Da tempo, poi - sempre per portare acqua al mulino dell'isolazionismo -, il costume civile della presentazione risulta letteralmente scomparso, assente, spesso, anche nelle persone dalle quali ci si aspetta di vederlo praticato. Ciò tradisce un certo tasso di disillusione, penso, riguardo la sua effettiva utilità. Sotto sotto molte persone sono convinte, e a ragione, dell'assoluta anonimità della chiacchiera. Se un qualsiasi parere o presa di posizione è assimilabile per banalità a milioni di altri, va da sé che è inutile conoscere nome, cognome e biografia di chi se ne è fatto latore. Risulterebbero, né più né meno, riconducibili e quelli dei tanti Kevin e Sharon che abitano luoghi di lavoro, social networks, gruppi chat e bar diurni del paese.
Ancora pescando in quel lago prosciugato che è divenuto il bacino degli ascoltatori di Radio 3, la rassegna-stampa di stamane ha riservato due perle nere da collezione – con ricavato, beninteso, anch'esso da devolvere alla causa sempre più nobile del voluntary lockdown, la reclusione volontaria (per la mia generazione, suonerà sempre meglio, se detto prima in quella lingua morta che è, oggi, l'Inglese). A denunciare, oltre alla suddetta trasformazione antropologica, la drammatica assenza di argomenti e l'incapacità di giudizio (tratti che, ne converrete, non fungono propriamente da stimolo nel facilitare i contatti umani) è giunto un radioascoltatore che, scevro da ogni preoccupazione interpretativa riguardo le drammatiche notizie lette poco prima del suo intervento, ha bellamente chiesto, in diretta, al giornalista incaricato delle conduzione settimanale: “Lei, in cosa crede?”. Un quesito che poteva risultare esplosivo, in termini conoscitivi, se posto, ad esempio, a Miles Davis, a Edward Snowden, a Chesley Sullenberger, esistenze straordinarie che stimolano la curiosità a conoscerne il pensiero al di la dei rispettivi campi di eccellenza. Ma certo non ad un giornalista, per quanto qualificato. Un simile quesito dice tutto dello sconcertante disorientamento causato nelle persone da questa epoca. Persone che si suppongono adulte, professionalmente in carriera, magari investite da ruoli educativi (genitori ed insegnanti) o di grande esperienza di vita (gli anziani). Chiedere in cosa creda ad un perfetto sconosciuto quale è chiunque si appresti ad una rassegna-stampa, sia essa radiofonica o televisiva, nella veste di titolare o di ospite, sta a significare il vuoto spaventoso nel quale brancolano le persone (le stesse, ricordiamolo, che saremmo tenuti a frequentare per non cadere nel misantropismo). Lo chiedono perché loro stesse, per prime, ignorano in cosa credano e se in qualcosa sia possibile credere (tematiche fondamentali, certo, ma alle quali la filosofia ha dato attente risposte essendovici arrovellata fin dal suo nascere). Non dimentichiamo che, questo è ancora un paese che si rivolge ai singoli giornalisti utilizzando l'appellativo di dottore (e questa è l'altra perla). In una simile scelta sta scritta tutta l'arretratezza culturale degli italiani, si scorge il ragionier Fantozzi che abita in loro e che parla per loro.
E con simili presupposti, ditemi: dove lo trovo, io, l'entusiasmo per uscire?
Come disse Giorgio Gaber, in tempi non sospetti, ad ammiratori che intendevano attaccar bottone, avendolo visto al tavolo del ristorante in compagnia di Paolo Villaggio: “Non intendiamo fare comunella.”.
Ecco.

martedì 2 giugno 2020

UNA COSA SERIA. La drammatica attualità di 'Full Metal Jacket'.


Matthew Modine nei panni di Soldato Joker.
Nel vuoto di senso crescente che caratterizza questa fase storica, imbattersi in colpi di genio – come è capitato ieri l'altro – è qualcosa che mi commuove. Tutto ciò connota il vostro umile estensore come un anziano, una persona che lentamente va perdendo il controllo sulla propria emotività e sul proprio corpo. Ma ben venga: voglio morire restando capace di provare qualcosa. E qualunque sentimento è buono, pur di mantenere uno status di dignità umana.
Stavo svolgendo un modesto lavoro di ricerca per un canovaccio radiofonico (sì: ho velleità autoriali), quando ho avuto necessità di visionare alcune sequenze tratte da Full Metal Jacket, il film di Stanley Kubrick del 1987, ed altre ancora da, invece, Stanley Kubrick: A Life In Pictures, documentario voluto e diretto da Jan Harlan, storico produttore dei film del grande regista statunitense, e caratterizzato dalla vera e propria perla che è la narrazione fuori campo affidata a Tom Cruise (è una visione che, naturalmente, consiglio a tutti, per ritrovare la giusta misura di cosa sia davvero un grande talento, un genio, in un tempo dove si tende a riconoscere come tali persone, in realtà, senza arte né parte).
Sono settimane che, causa reclusione da Coronavirus, mi tocca sorbire il pippotto delle stazioni Mediaset sull'attendibilità della loro informazione ("Le notizie sono una cosa seria. Fidati dei professionisti dell`informazione. Scegli gli editori responsabili, gli editori veri. Scegli la serietà."). Ora, non mi dilungherò, sull'argomento. Come venne giustamente specificato al tempo dell'uscita di Videocracy – Basta Apparire, di Erik Gandini (era il 2009), se ancora, i cittadini italiani, di fronte ad un simile messaggio, necessitano di spiegazioni, ciò significa semplicemente che il danno non solo è fatto, ma persino irreversibile.
Ed è così, quindi, che, come specificato in apertura, mi sono trovato con gli occhi lucidi, quando ho avuto davanti a me, in tutta la sua magnificenza, la sequenza dove i soldati protagonisti del film vengono intervistati dalla troupe dell'esercito nel bel mezzo della battaglia di Hue, e il grande Kubrick decide di includere nell'inquadratura, come fosse un personaggio a sé, la telecamera che insiste sugli intervistati in maniera che si potrebbe dire minacciosa. Venne realizzata sul finire del 1986, cioè in tempi non sospetti, quando tutti, tranne forse Orson Wells, eravamo persuasi della bontà dell'informazione che ci veniva somministrata, della sua assoluta imparzialità come dell'etica da cui muoveva. Eravamo a otto anni da The Truman Show e a quattordici da Grande Fratello, e già questo genio immortale ci stava educatamente, sottilmente mettendo in guardia dal pericolo della propaganda televisiva, dalla possibilità di una deformazione pressoché integrale della notizia come della realtà. Si potrebbe persino dire che con quell'ennesimo colpo di genio anticipò il discorso sul potere ipnotico, persuasivo, e tossicomaniacale dell'informazione che, dieci anni più tardi, sarà la colonna portante del romanzo di un suo pari: Infinite Jest, di David Foster Wallace.
First to go – Last to know. We will defend to the death your right to be misinformed”, recita uno striscione nella sequenza della riunione di redazione. Un Inglese intenzionalmente bizzarro, quello impiegato, che, con un po' di coraggio, può essere tradotto, per quelle capre ignoranti che sono ormai gli italiani, come segue: i primi a muoversi, gli ultimi a sapere, difenderemo alla morte il vostro diritto ad essere disinformati.
Rattristano, i tanti travisamenti dei quali è stata oggetto la pellicola nel nostro paese come, va riconosciuto, in molti altri. È un Vietnam-movie, non è realistico, non è storicamente corretto, è ridicolo, sul fronte le cose non andavano così e via di questo passo. Il messaggio a riguardo di propaganda e manipolazione mediatica, invece – solo uno dei tanti contenuti nel film –, sembra sistematicamente passare inosservato.
Può ben essere che l'inconscio italico, a fronte della vergognosa accettazione del verbo televisivo berlusconiano, ormai lunga di oltre 30'anni, abbia operato una tutto sommato sana rimozione, e non si renda quindi conto del livello di acritica, supina sottomissione alla notizia – la news – al quale è in realtà sceso.
L'opinione pubblica è esattamente come il soldato Joker: partito alla ricerca della verità – il più nobile dei tentativi di approdo al senso della vita -, fa ritorno dal fronte in una muta disumana, irriconoscibile.
È la nota più dolente di questo film immortale.
Ma non più dolente della stupidità, della violenza, dell'assenza di empatia e della sostanziale incapacità di amare oggi circolanti.