[…] Got my red glitter coffin, man, just need one last nail
[…] Racist everyman, what have you done?
Man, you've made a killer of your unborn son. . .
[…] Crown my fear your king at the point of a gun
All I want to do is love everyone. . .
[…] There's no time for hatred, only questions
Where is love, where is happiness, what is life,
where is peace?
[…] And tell me where is the love in what your prophet has said?
Man, It sounds to me just like a prison for the walking dead
And I've got a message for you and your twisted hell
You better turn around and blow your kiss goodbye
to life eternal angel. . .
[…] Ecco la mia bara rosso sgargiante, manca solo l'ultimo chiodo
[…] Nullità d'un razzista, che hai fatto?
Amico, hai reso il figlio tuo mai nato un assassino. . .
[…] Incorona la mia paura al cospetto di un'arma. . .
tutto ciò che voglio è amare il prossimo
[…] Non c'è tempo per odiare, solo domande
dov'è l'amore, dov'è la felicità, cos'è la vita,
dove sta la pace?
[…] E poi dimmi dove sta l'amore nelle parole del tuo profeta?
Amico, sembra a me più una prigione per morti
Ed ho un messaggio per te e il tuo inferno di sbarellati
Fai meglio a voltarti e dare il tuo saluto alla vita eterna, angelo. . .
(Jeff Buckley, Eternal Life)
libera traduzione di Stefano Parenzan©
Alla luce dei recenti fatti di Parigi, non sono incredibili queste liriche?
Per me, la strage di Parigi è stata la sparatoria al Bataclan, il luogo simbolo, quello che nella grandiosa confusione ingenerata da ogni evento abominevole assume la curiosa funzione di segnalibro mentale. L'immagine delle due persone appese alle sue finestre è un chiodo sparato nel cervello. Il teatro, dunque. Lo stesso dove nel 1995, l'autore di Grace teneva un concerto poi finito su vinile; la stessa persona che di lì a due anni avrebbe conosciuto – chi lo sa? - quella 'vita eterna' cantata nel testo; lo stesso dove due settimane addietro quelle liriche sembrano avere avuto un'influenza esotericamente ispirante, per i folli che hanno scelto (?) il pubblico degli Eagles Of Death Metal come strumento di un'azione eclatante. Leggete il testo attentamente, se già non lo conoscete. È del 1994, ma potrebbe essere stato scritto a caldo della strage. Il teatro è il luogo dove va in scena il canto e la rappresentazione della vita, dove l'essere umano può trovare modi e tempi per riflettere, piangere o ridere della propria vicenda. Non sarò mai sufficientemente grato a mia moglie per avere trascinato un villico come me, più di dieci anni fa, alla prima rassegna teatrale della sua vita. Fu amore a prima vista (oltre che della consorte, del teatro).
Ho sentito discutere, alla radio, di un testo di recentissima pubblicazione, intitolato – spero di ricordare correttamente - I Fatti Di Parigi Spiegati Ai Bambini. Si parlava della necessità, sentita come civile, di spiegare ai piccoli l'orrore di quanto accaduto. In questi frangenti mi sento vecchio. Penso ancora che ai bambini l'orrore vada risparmiato (che – sebbene non l'abbia mai avuto tra i preferiti – è la tesi morale portante del film, Oscar 1999, La Vita È Bella, ed anche l'unica ragione per cui lo cito). È materia prima che abbonda, su questa terra. Ne disponiamo in tale quantità da non doverci preoccupare del suo razionamento per le generazioni future come per quelle che stanno crescendo or ora. Verrà presto il tempo, per i giovanissimi, quando, loro malgrado e senza l'ausilio di sciagure planetarie, dovranno fare i conti con l'orrore che gli verrà sottoposto dalla loro stessa sensibilità. Ho l'impressione – brutta – che questo bisogno sia, da una parte, incapacità degli adulti a fronteggiare l'orrore in alcune delle sue forme; da un'altra, strumentalizzazione di un bisogno naturale – la comprensione che segue alla curiosità – per fini indicibili. Penso che la più patetica della frottole sia preferibile, per dei piccoli, alla più chiara e semplice spiegazione dell'orrore di qualunque fatto – escludendo quanto ci tocca vivere in prima persona. Prepariamoci, piuttosto, al giorno nel quale ci verrà chiesta giustificazione di orrori non glorificati da dirette televisive, streaming e prime pagine. L'orrore del non detto, della consuetudine, del quieto vivere, del rispetto incondizionato e di chissà cosa altro. Non ci saranno sussidiari in grado di venirci incontro. Solo il nostro livello di crescita personale.
Parliamo ora di noi italiani, popolazione giustamente e ripetutamente bastonata – e sanzionata - da 'quelli di Bruxelles' per le reiterate inosservanze nei mille campi della competenza comunitaria. Come la mettiamo ora che a Milano si prosegue ininterrotti la movida sui Navigli mentre nella città sede del parlamento europeo regna – ha regnato - il coprifuoco? L'allievo supera il maestro. Limitando la polemica alla famigerata 'questione dei flussi', sembra evidente che quelli belgi non siano stati amministrati “mica tanto bene” - come direbbe Salvini. Mi sento certo di una cosa. Già si parla di sospensione del trattato di Schengen – realtà ratificata, della quale ognuno, a livello comunitario, ha già dato prova di disporre a proprio piacimento. Quando fallirà – se fallirà, insieme con il concetto di continente federato -, sarà anche grazie al largo contributo di queste realtà nazionali, Francia e Belgio. Quando la popolazione è invitata per ordinanza a restare in casa, non solo tu non sai chi è presente sul territorio: non sai nemmeno chi è presente nel giardino di casa. Casa tua. Per me l'Europa è già finita, unione monetaria di popoli inconciliabili nella quale ho creduto con innocente candore, ancora ventenne, convinto di un futuro di comunione e condivisione culturale oltreché giuridica – mentre ora siamo qui, barricati in casa con il fucile a pompa sempre carico, come il protagonista di Gran Torino.
I funerali di stato concessi a Valeria Soresin mi sono sembrati fuori luogo. Immagino la sua famiglia li abbia accettati in preda a quella forma di lucidità che a volte si acquisisce nel lutto, e non sperimentabile a priori. In Francia Valeria Soresin vi si è recata perché da noi la carriera accademica in un campo come la demografia – e non solo in quello- è impresa infausta per motivi che conosciamo benissimo ed è quindi superfluo analizzare. Sappiamo tutti, difatti, che, uscita viva dal concerto degli EODM, avrebbe proseguito incensita - e beatamente ignorata dagli apparati accademici italiani - la sua vita di cervello in fuga. Va da sé, quindi, che lo stato che le ha attribuito questi onori è lo stesso dal quale presumibilmente era in fuga. È un gesto ipocrita. Denota un senso di colpa sorprendente per una classe politica come la nostra. Al che mi sovviene che proprio in quanto tale non fa nulla per nulla, ed anche le esequie dell'unica vittima italiana della strage di Parigi diventano allora l'occasione per denunciare una sacralità violata che ben si addice alla conduzione di certe manovre - per il cui avvallo il presidente francese va cercando alleanze proprio in queste ore. Ma soprattutto un modo 'furbetto' per tenere buono il vicino di casa che si sta facendo violento. Da noi – cazzo, diciamolo! - sarebbe finita, magari, in qualche cesso di teatro-tenda alla performance de Il Volo, pausa in un dottorato gratuito a tempo indeterminato, incerto nello svolgimento della carriera. Poco altro da dire. C'è morte e morte.
Ora che, come è giusto che sia, si cerca di vincere la paura appunto affrontandola nella sua più recente incarnazione occidentale – i luoghi di ritrovo, culturali, culinari ed atletici -, ecco comparire Jovanotti con sottobraccio la promozione della sua nuova tournée nei palazzetti. Non per lucro – quando mai? Bensì con il pensiero a Parigi, per “[...] continuare a fare questo mestiere. Celebrare la vita, la libertà, nel nostro linguaggio universale che è la musica”. Ma stare zitti no? Nessuna sorpresa, quindi, se Adelmo Zucchero Fornaciari si permette di dichiarare che la musica di oggi è “un panino farcito alla merda”. Voglio sperare abbia contemplato anche l'amichetto nel mentre di questa gustosa riflessione. La strage erompe? La bomba esplode nel mucchio? Novanta persone ed altrettanti feriti rimangono a terra? "È qui la festa." (La giustizia divina ha già operato per punire questa mia arroganza. Leggo su La Stampa, il quotidiano che scambia il proprio direttore con quello di Repubblica, proprio come un avvicendamento in panchina – non era Calabresi a parlare spesso e bene delle opportunità da dare ai giovani? -; leggo che il Cherubini sarà direttore per un giorno – troppo – delle sue pagine culturali. Ed in quale occasione? La quattro date torinesi del nostro. Sempre con il pensiero rivolto a Parigi, certo. Si sprofonda nell'abisso).
Una qualche mente bacata ha proposto l'esecuzione dell'inno francese a precedere gli incontri di Champions League, come non bastassero le già obbligatorie giornate della memoria (Messaggio per i posteri – mia figlia-: nulla è più fascista, prepotente e prevaricatore di chi ritiene le tue facoltà intellettive – e quindi selettive e mnemoniche – suscettibili di un qualsivoglia precetto. Allontana come un appestato tutti coloro che vogliono sacro per te ciò che è sacro per loro. La sacralità imposta è sempre interessata.).
Ricordo male o la Francia mai ha proposto l'esecuzione del nostro inno, in occasioni ufficiali, importanti, per 'alcuni fatti' avvenuti nella tarda sera del 27 giugno 1980?
lunedì 30 novembre 2015
sabato 14 novembre 2015
MARKETTA (CON LA K). Andare in brodo per un singolo di Adele.
Ho trascorso più di metà della mia
vita a coltivare ascolti di qualità, snobbando letteralmente tutto
quanto recasse anche solo una lontana parvenza commerciabile, e
sempre più rifugiandomi nelle nicchie – poche, ma eccellenti (non
ultima quella rappresentata da Public Service Broadcasting, il mio
prossimo live obbligatorio).
Per questo, mai avrei pensato che, di
questi tempi, mi sarei trovato ad accostare la macchina al solo fine di prestare ascolto, incantato, ad una delle regine della vetusta, e
relativissima, hit parade: Adele.
Come non poteva non essere, Hallo, il
nuovo singolo di Adele, è in testa alle classifiche di diversi
paesi. Quindi il tipo di ascolto che scarto di default da
decenni e per il quale nutro un interesse paro a quello per la
politica nostrana. Nullo.
Il fatto è che quando l'auto-tuning
mi ha portato sull'attacco della canzone, su quel primo “Hallo”
che giunge inaspettato come la telefonata narrata nel testo, non ho
potuto far altro che obbedire all'incantesimo.
Hallo è una canzone perfetta. E
bellissima.
Il soggetto
è semplice. Adele è una ragazzaccia che ha spezzato il cuore ad un
maschietto. Fine della storia. Ognuno per i fatti suoi,
allontanamento, sensi di colpa, assenza di notizie. Fino a quando la
nostra non trova il coraggio di comporre quel numero di telefono,
segretamente conservato negli anni. E allora: “Hallo”. Pronto.
Sono io.
La voce, calda e rotonda, priva di
spigolature (al contrario di certe apprezzatissime urlatrici
nazionali che non citerò); la dizione impeccabile (il modo in cui
pronuncia e canta, tutto d'un fiato, “It's so typical of me to talk
about myself I'm sorry”, è da scuola di canto, lezione di
fraseggio, e vale l'acquisto su Itunes); le armonie semplici ed
interamente asservite all'esaltazione della voce (magistralmente
riuscita); la produzione attenta (il missaggio con la voce 'in
avanti' da brivido); la quasi totale assenza di escandescenze (il
brano prende ritmo solo sul finale, senza concessioni accattivanti,
tipo virtuosismi, acuti o distorsioni). La sospetta banalità del
pentimento della protagonista è fugata dal tono pacato e dalla
grazia del cantato. Ma anche il femminismo psicologicamente maturo
della canzone (non dimentichiamo che è la protagonista a prendere
l'iniziativa e a riconoscere le colpe, e senza un Eros Ramazzotti che
provvede al controcanto consolatorio e rassicurante – in culo a
Tina Turner e a I Belong To 'Sto Cazzo'), contribuisce al risultato
finale. Parla ad un cuore spezzato con grazia e garbo, come tante
volte, forse segretamente, vorremmo vedere trattata la nostra più
intima sensibilità.
Un classico, potenzialmente. Ed anche
qualcosa di più, se si ha il coraggio di ammetterlo.
Oggi non crediamo a papa Francesco:
figuriamoci al produttore e al manager di Adele.
Adele Adkins viene da un lungo periodo
di assenza dovuto al blocco dello scrittore – o, almeno, così ci
dicono. Il singolo giunge dunque a sorpresa un po' per tutti. E –
guarda caso – di cosa parla? Di un evento inatteso. Ha venticinque
(!) anni, ma la bellezza matura di una trentenne (afferrate? La
sofferenza invecchia, e così la narrazione ne guadagna). Ha il vezzo
– e la pigrizia – di intitolare i suoi albums con la cifra
della sua età al momento della pubblicazione (ho già prenotato
Fourty-seven, Adele: vedremo se ne avrai il coraggio). C'è l'arte
del commercio, a sorreggere Adele, il suo singolo e l'album
che seguirà. Eppure. . .
Anche intorno a Lionel Messi vi è una
cura finalizzata al massimo risultato per sponsorizzazione,
mantenimento dell'immagine, mantenimento dell'interesse mediatico ed
alimentazione costante della leggenda. E questo, obiettivamente, non
rende il suo calcio giocato meno spettacolare. Andrò oltre, per
intenderci. Apple è il colosso mondiale del commercio, e nonostante
tutto continua a produrre ottimi computers. Non
necessariamente, quindi, ciò che è commerciabile deve essere
carente nella qualità (vogliamo parlare dei Duran Duran?).
Adele è un'artista giovane e brava. Ha
il successo che merita.
Ignoro se dal vivo sia in grado di
riprodurre le magie sintetizzate in studio. Per questo motivo, non
andrò al suo concerto: per non rovinare la bellezza ripetuta di
questo ascolto.
In un'epoca come la nostra, dove tutto
è urlato, dall'elemosina alla mestruazione, Hallo è davvero una
canzone salvavita.
domenica 1 novembre 2015
TROPPO POLITICO. Riflessione sulla malsana concezione della politica da parte degli italiani.
Sono
politico, che c'è di strano?
Ho il nome
di Santoro e il cognome di Gaetano
(Caparezza)
Ho consigliato un libro
di Marco Travaglio ad una conoscente che mi ha consultato per una
lettura su fatti di attualità recente. “Ma Travaglio. . . come
dire: è troppo politico”, replica lei.
Onore al Caparezza –
comunista – per avere anche questa volta anticipato e codificato
l'ennesimo episodio di ignoranza dilagante, della quale ormai ci si
può solo prendere gioco.
Come ci si convince, in
regime di totale assenza di letture, che qualcosa è troppo politico?
Meglio: chi può indurre una simile opinione? Risposta: Silvio
Berlusconi, Laura Pausini, Il Volo, Carlo Conti, Fiorello, il
Festival di Sanremo, One Direction, Alessia Marcuzzi, Jovanotti.
Non voglio in questa sede
prendere le difese di Marco Travaglio. Non lo conosco di persona e
penso non abbia bisogno della mia assistenza. Possiedo un solo suo
libro – Montanelli & Il Cavaliere –; ho letto la prefazione –
brillante – a quello di Bruno Tinti – Toghe Sporche -, e leggo di
frequente i suoi editoriali su Il Fatto Quotidiano.
Ho riletto Montanelli &
Il Cavaliere proprio per verificare, a debita distanza temporale,
quanto di politico vi sia, effettivamente, nei lavori di Marco
Travaglio.
Cerchiamo di capirci.
Questo libro, che ricostruisce la vicenda italianissima del classico
siluramento di chi si è opposto alla prepotenza del padrone, è
quanto di meno politico vi sia in circolazione. Travaglio scrive ed
enuclea i fatti con stile e rigore da verbalizzante di Polizia. In
quattrocento e più pagine, poche chiose ai paragrafi fanno
trasparire il giudizio estremamente negativo che l'autore ha
dell'ex-premier. L'intento di tanta asciuttezza sembra essere quello
di testare il lettore attraverso una presentazione del materiale tale
da metterlo di fronte ad un atto di responsabilizzazione, consistente
nel giudicare da sé fatti che, se non suscitano alcun moto di
indignazione od un sano interrogativo, sono segno di taciuta
connivenza. Al tempo dell'uscita dell'interessante documentario di
Erik Gandini, Videocracy, venne scritto sulle pagine del
'Corriere' che se la popolazione italiana non è in grado, da sé, di
immunizzarsi da simili storture, non si poteva certo pretendere che
igiene e profilassi civili venissero operate da una pellicola. È
vero. Siamo in grado di vedere e riconoscere solo ciò che già
conosciamo. Quindi perché in assenza di cultura democratica si
ritiene un autore come Travaglio troppo politico? Per i più, la
colpa – tutta italiana – di Marco Travaglio è quella di prendere
posizione in maniera appassionata, al punto da risultare, come si è
detto, troppo politico persino a chi di politica non si è mai
occupato.
Noi esseri civilizzati
(mi si conceda la definizione) siamo politici a prescindere. Quando
ci accusano di fare troppo i filosofi, si è di fronte ad una mezza
menzogna. “Non si può che filosofare”, diceva Kant. Piaccia o
no, persino il tuo parere sul truzzo eliminato al televoto del Grande
Fratello ha una valenza politica. Il giudicare senza pregiudizi è
una stronzata che la scuola – per citarne una – sembra non avere
ancora arginato.
Troppo politico è in
realtà un'accusa che rivela una propria, intima paura: quella del
vedere mortalmente attaccata da un'opinione o un parere la sicurezza
piccolo borghese di chi il culo lo ha sempre avuto al caldo e ben
impomatato. Di chi in una verità appurata da un collettivo vede solo
la minaccia alla propria ereditata serenità. Di chi non ha il
coraggio di una presa di posizione, ignorante al punto da non
rendersene conto.
I danni del berlusconismo
- giusto per esprimere un parere politico -, operati su vasta scala da
coloro che dall'ex-cavaliere si sono sentiti ispirati, e maggiormente
sul piano culturale, vanno oltre gli aspetti monetari denunciati da
Marco Travaglio in tempi non sospetti. Il danno consiste nell'avere
convinto una fetta considerevole della cittadinanza della
pericolosità e del sospetto che, secondo questa compagine, si annida
dietro ogni opinione opposta allo status quo,
con il risultato di avere persuaso di ciò milioni di persone.
L'aggettivo è spesso – o sempre – confuso con il sostantivo, e
'troppo politico' diventa così il giudizio linguisticamente basic
con il quale si opera una squalifica che è dettata da paura, per
imposizione, con prepotenza.
Non ho infine compreso
cosa realmente volesse da me la persona che mi ha chiesto consiglio
per una lettura – e perché a me.
Anni fa, studente e
libraio estivo per l'amico Gianni, consigliai il Diario Di Un Vecchio
Sporcaccione di Bukowski alla commessa dell'esercizio attiguo. Smise
di parlarmi, ma ebbe il coraggio di portare a termine la lettura –
e di giudicarlo solo allora.
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