mercoledì 25 novembre 2020

PECORE, LUPI & CANI-PASTORE. La nuova morale impartita dal cinema.

Nel suo libro cult Il Giorno Della Civetta, Leonardo Sciascia diede vita ad una classifica, divenuta celebre, a metà tra la boutade e l'amara constatazione. A colloquio con il Capitano Bellodi, in un dialogo davvero indimenticabile, il capomafia Don Mariano – assurto al ruolo massimo non tanto perché esperto di crimine, si intuisce, ma perché capacissimo nel cogliere l'essenza delle persone - stabilisce una sorta di top five dei tipi umani. A salire: i quaquaraquà, i pigliainculo, gli ominicchi, i mezz'uomini ed infine gli uomini. “Lei, anche se mi inchioderà a queste carte come un Cristo, lei è un uomo...”, dice Don Mariano. E Bellodi: “Anche Lei.”. Fantastico. Per almeno cinque decenni, questa classificazione, ha rappresentato impietosamente l'antropologia italica (la quale, naturalmente, ha dato nel frattempo il meglio di sé immettendo sul mercato umano svariati esemplari dei primi e “pochissimi” dei secondi, proprio come profetizzato dal saggio capomafia). Da allora, fino, diciamo, allo spegnersi dell'inchiesta Mani Pulite, nessun nuovo ingresso in classifica è stato in grado di scardinare questa visione: sia per ciò che riguarda le posizioni di fondo (il proliferare sconcertante di pigliainculo ed ominicchi) sia per il suo vertice (la scarsità di veri uomini). Una vera e propria tavola periodica dell'umanità, ordinata, parascientifica eppure inossidabile.

Poi è successo qualcosa.

Una mutazione radicale, avvenuta in termini di perdita di informazione (parliamo, quindi, di un processo involutivo), ha interessato la società in cui viviamo. Si è assistito, cioè, ad un innalzamento delle forme di violenza, di abuso, di sopruso, di inciviltà, di disumanità in generale. I protagonisti della classifica sciasciana, negli anni, si sono resi colpevoli di gesta sconcertanti, spregevoli e spesso inspiegabili: uomini straordinari finiti sotto indagine e persino condannati per casi gravi di corruzione ed omicidio; ominicchi della terra di mezzo dell'alta finanza, dell'imprenditoria e financo della filantropia condannati per abuso sessuale, sfruttamento della prostituzione, pedofilia; pigliainculo ritenuti inoffensivi, hanno improvvisamente trovato la forza bruta per sterminare le rispettive famiglie a seguito di un 'no', di un amore legittimamente negato; quaquaraquà sui quali non si sarebbe giocato un soldo, scoperti con fortune senza precedenti quasi sempre sottratte ai fondi pubblici per la sanità, per i terremotati, per la prima accoglienza. Predatori grandi e piccoli accomunati dalla spinta a soddisfare senza mezze misure i propri appetiti: sessuali, di potere, monetari, di controllo. Il nostro tempo, si può dire, è quello che ha visto l'avvento della gratuità del gesto violento ed inconsulto (assenza di movente, anaffettività). Aberrazioni con le quali ci si è trovati a convivere, nostro malgrado, scoprendo nel vicino di casa, nel conoscente, nel giovane del quartiere, nel parente alla lontana, nel prossimo, ma anche, a volte, nell'amico e nel congiunto, una insospettata doppiezza che persino lo sguardo indagatore del Don Mariano di Sciascia - personaggio di in un mondo bidimensionale dove l'essere umano ancora conservava aspetti della personalità accessibili ed interpretabili, trasparenti di quella trasparenza con la quale da tempo ci riempie la bocca invocandola in ogni frangente come la virtù risolutiva, l'arma finale contro le tante derive della società -, persino un osservatore così attento avrebbe faticato a decifrare.

È accaduto, allora, che un giorno, l'organigramma sciasciano, per più di tre decenni imprescindibile riferimento bibliografico per un'antropologia dal sapore letterario, è tornato appalto delle poche antologie che ancora oggi ritengono salubre ospitare al loro interno estratti dell'opera di Sciascia, vero e proprio pezzo di antiquariato da mostrare con saccenza alle nuove generazioni (le quali, come è forse inevitabile che sia, l'avranno trovata poco stimolante e del tutto anacronistica, fuori dal tempo). Il cinema, che invece in questa ultima mutazione dell'animo umano ha sempre trovato spunti creativi grazie alla sensibilità della straordinaria generazione di sceneggiatori avente come capostipite Alan Ball, si è sostituito alla letteratura, rivelatasi da allora incapace a risuonare del quotidiano, della everyday life; non più in grado, come sosteneva David Foster Wallace, di trattare argomenti come una giornata di lavoro o la vita di chi si scopa la stessa donna per 30'anni (suggerimento smaccatamente sessista, ma non dimentichiamo che Foster Wallace, come tutti i geni, era un nevrotico della prima ora).

Ci sono tre tipi di persone a questo mondo: le pecore, i lupi e i cani da pastore. Ci sono persone che preferiscono credere che nel mondo il male non esista. E se mai si affacciasse alla loro porta, non saprebbero come proteggersi. Quelle sono le pecore. E poi ci sono i predatori, che usano la violenza per sopraffare i deboli. Quelli sono i lupi. E poi ci sono quelli a cui Dio ha donato la capacità di aggredire e il bisogno incontenibile di difendere il gregge. Questi individui sono una specie rara, nata per affrontare i lupi. Sono i cani da pastore. In questa famiglia noi non alleviamo pecore, e io vi ammazzo a cinghiate se diventate dei lupi. [...] Ma proteggiamo chi amiamo. Se qualcuno prova a picchiarti, se c'è chi fa il bullo con tuo fratello, vi autorizzo a farlo smettere.”.

Il brano riportato, è opera dello sceneggiatore statunitense Jason Hall, ed è tratto dal film American Sniper, di Clint Eastwood.

Quella di Eastwood è una visione del vivere civile molto tradizionale, repubblicana, di vecchio stampo e genuinamente guerrafondaia – per non dire anche in parte apologetica. In questa pellicola in particolare, è facile ravvedere una presa di posizione solidale nei confronti di quegli americani cui tocca il compito, in verità assai ingrato, di condurre le guerre che, di volta in volta, i vari governi, nessuno escluso, vanno dichiarando per fini destinati a restare oscuri. Una volta costituito il contingente, però, Eastwood sembra attivare una sottomorale: trascura le motivazioni di natura aggressiva con le quali gli Stati Uniti d'America, da decenni, muovono guerra agli stati reputati nemici, e si concentra sul corpo di spedizione che diviene, così, il gregge da difendere dai lupi del succitato dialogo. Diciamo, semplicemente, che, a 90'anni, puoi permettertelo.

Pecore. Lupi. Cani-pastore.

C'è un modo dignitoso e condivisibile per essere di destra - per essere repubblicani, nel caso dei fratelli statunitensi - senza vergogna, senza avvertire una compromissione colpevole ed irreversibile della propria reputazione (sempre che se ne abbia una: è tendenza recente e diffusa, infatti, quella di rivendicare primati morali difficilmente verificabili). Nelle cronache dell'Africa postcoloniale, per citare un esempio, vennero registrati casi di manipoli di mercenari - non propriamente tesserati del Fronte Della Gioventù - che offrirono le proprie competenze belliche alle minoranze oppresse dallo sfruttamento occidentale (valga su tutti il caso del Biafra). Con il senno di poi, è quindi possibile affermare che questi specialisti della guerra (i Dogs Of War magnificamente narrati da Frederick Forsyth) furono moralmente assai più ineccepibili dei tanti politici che al tempo rivendicavano per loro stessi patenti democratiche e liberali attraverso retoriche improntate ad un nebuloso pacifismo. Ecco il punto: si può essere e restare onestamente di sinistra e, nel contempo, conservare la libertà di giudizio necessaria a riconoscere che il dialogo genitore-figlio di American Sniper è, ad oggi, l'unico all'altezza di fornire una visione ed una soluzione a questi nostri tempi problematici. Realismo, un po' di sano familismo, comportamenti che fungano da esempio, dedizione ai compiti educativi e responsabilizzazione.

Scrive, Sergio Romano nelle sue memorie: “[...] il conservatore […] Crede che tutti gli uomini «siano stati creati uguali», secondo l'affermazione iniziale della Dichiarazione americana d'indipendenza, ma sa che essi si disporranno lungo la strada della vita secondo una inevitabile gerarchia.”

Improbabile che Eastwood e Hall abbiano letto le pagine di questo nostro principesco memorialista. Ma la sintonia con la chiusa del dialogo citato è impressionante. “Quello aveva preso di mira Jack”, dice il giovane Chris. “È vero?”, chiede il padre al piccolo Jack il quale subito annuisce. E di nuovo rivolto a Chris: “Allora tu sai chi sei.”.

Chissà cosa penserebbe Sciascia, di tutto questo.



giovedì 12 novembre 2020

DIVENTARE (E RESTARE) SÉ STESSI. I Nine Inch Nails nella 'Rock 'n Roll Hall Of Fame'.

Forse l'unico aneddoto che valga la pena raccontare, riguardo il legame estetico, emotivo – ed, in parte, anche filosofico -, che da 25 anni or sono mi lega, con con alti e bassi, a Trent Reznor e ai suoi Nine Inch Nails, è quello di quando decisi che era ora di partire per gli Stati Uniti d'America e finalmente assistere ad un concerto di quella che già allora poteva dirsi la mia band preferita. Era il 1999, ed entrare negli Stati Uniti non rappresentava la seccatura che è divenuta oggi. Sbarcai in California, dove, al contrario del nostro paese, Internet era già altamente performante e capillarmente diffuso. A San Francisco prima e a Los Angeles qualche giorno dopo, con atteggiamento da vero provinciale, visitai in rapida sequenza tutta una serie di librerie e di negozi di dischi del circuito indipendente, chiedendo notizia di date californiane dei Nine Inch Nails. Risposero quasi tutti che la cosa migliore era consultare il 'Web' (azione per la quale sembravo evidentemente del tutto inadeguato, al punto che un giovane commesso, mosso da umana pietà, si offrì di compierla per me). Scoprii così, con divertito stupore, che, in quello che sarebbe passato alla storia come uno dei periodi più straordinari di questa one-man band, l'anno, cioè, che aveva da poco visto la pubblicazione di uno dei suoi dischi più belli e più ricercati,The Fragile; nel mentre battevo le strade della California alla loro disperata ricerca, i Nine Inch Nails sbarcavano all'Alcatraz di Milano per l'unica data italiana di Fragility v1.0 (!).

Insomma: ero andato nella West Coast per un gran scopata, e me ne stavo tornando a casa con un carico di pugnette accuratamente rubricato nelle statistiche di quella che poteva comunque dirsi, a bilancio chiuso, una vacanza memorabile – e non senza prima aver vagabondato per bene tra i tanti luoghi della scena indie e di quella pregevolissima del jazz alternativo.

I Nine Inch Nails, che da quel mese di novembre di più di 20'anni fa hanno suonato in Italia poche volte e con un riscontro di pubblico del tutto relativo, specie se confrontato con le immancabili vendite sold-out di molti loro colleghi, sono entrati ieri l'altro nella Rock 'n Roll Hall Of Fame (istituzione yankee di grande decadenza e del tutto ininfluente sotto il profilo artistico, una sorta di Confindustria per rockettari). Questo significa sostanzialmente due cose. La prima è che la vacca del circuito mainstream deve avere realmente finito il latte, se per conferire ancora un po' di lustro a questo inutile luogo (la 'Hall O Fame' è un museo sito a Cleveland, nell'Ohio) e raggranellare qualche soldo si è dovuto ricorrere alla nomina di un gruppo che, diciamolo, non è mai stato famoso per il suo repertorio per famiglie. La seconda è che, per quanto ipocrisia ed opportunismo, da oltre un decennio, continuino a praticare il più grande lavaggio del cervello di massa dell'era moderna, il talent show, basta un poco di attenzione per accorgersi che tra la migliore performance di Marco Mengoni ed anche solo un primo ascolto di The Slip (il disco uscì più o meno al tempo dell'affermarsi di X Factor in Italia), c'è un abisso incolmabile. Per quanto cerchino, lor signori, di persuaderci riguardo all'inflazione di talenti a loro completa disposizione, per fare un disco così, non bastano quattro accordi di chitarra ed un po' di faccia tosta. Questo a livello artistico. A livello personale (ed invito tutti coloro che, mi auguro, a seguito di queste righe, vorranno cimentarsi con il repertorio della band, a non sottovalutare l'aspetto autobiografico della sua intera produzione), Trent Reznor è stato uno sfigato, un disadattato, un fallito, un depresso, un misantropo ed un autolesionista. I Nine Inch Nails sono stati la sua salvezza e la sua cura. Grazie ai progressi tecnologici del tempo (il primo disco uscirà nel 1989), poté dare vita ad una band della quale figurare come unico componente, ed in questo modo fare delle proprie difficoltà relazionali il punto di forza, il tratto caratteristico del progetto. In questa veste, ha dato vita vita a registrazioni sui generis e sofisticate. Ha toccato tematiche strettamente – e spudoratamente – legate alle sue personali problematiche. In 30'anni, questo provinciale dell'Ohio, è passato da una condizione al limite con il patologico a quella di musicista professionista con almeno due dischi seminali a proprio carico, autore di colonne sonore, collaboratore stretto di registi quali David Fincher e David Lynch (mitica, l'esibizione dei Nine Inch Nails nell'episodio n°8 di Twin Peaks), produttore richiestissimo e selettivo. Dall'incontro con il fotografo Rob Sheridan, i Nine Inch Nails hanno dato vita ad una serie di spettacoli avanguardistici e pregnanti, di grande coesione tra musica ed immagine, che farebbero impallidire quasi tutte le megaproduzioni dei grandi nomi dello spettacolo (e non è detto, sotto sotto, che ciò non sia persino avvenuto). Il tutto attraverso la produzione di un mondo sonoro estremo: oscuro, disturbante, ossessivo, pulsante. Il mio incontro con la loro musica avvenne in maniera del tutto non intenzionale. Ero reduce dalla visione di Assassini Nati, di Oliver Stone, quando decisi di acquistarne la colonna sonora. “Produced by Trent Reznor”, stava scritto sul retro di copertina. Conoscevo, al tempo, quasi tutti gli artisti ed i brani che vi erano stati inclusi, con una sola eccezione. Un nome decisamente originale che ero certo di non avere mai sentito prima di allora: Nine Inch Nails: Burn. Mettiamola così: avete presente, anche solo vagamente, la procedura di eiezione degli aerei da combattimento? I piloti militari dell'era moderna ne subiscono la simulazione in concreto (si tratta di treni speciali lanciati in folle corsa e dotati di dispositivo d'espulsione). L'unico aspetto della procedura che ancora oggi non può essere ricreato è la reazione psicologica alla effettiva velocità con la quale, nel momento della vera emergenza, il tuo corpo reagirà all'impatto con l'aria. Può essere quella controllata che segue ad una perdita di spinta. O da shock conseguente a velocità supersoniche – eventualità, quest'ultima, che rende la sopravvivenza all'eiezione di poco superiore all'uno per cento. Ecco: il giungere improvviso del chorus di Burn fu, per me, l'equivalente di un impatto a velocità supersonica. Non posso inoltre censurare il fatto che, ancora oggi, il videoclip realizzato per questo brano, riesce a farmi vivere brevi, sporadici momenti di vero disagio. Insomma: Trent Reznor - suo malgrado, penso – è, oggi, il più importante influencer della musica moderna, di quel che resta del rock (poco), cioè; il musicista da ascoltare con regolarità per mutuarne idee e soluzioni, ma con parsimonia, per evitare che qualcuno se ne accorga.

Per concludere, quindi: il successo è perseguibile anche restando se stessi. Questo il messaggio implicito nel recente riconoscimento della 'Hall Of Fame'.

E non è, questo, anche il più grande messaggio di speranza auspicabile in questi nostri tempi difficili?

Diventare se stessi e rimanervi fedeli.

È un risultato che, se garantito, non avrebbe prezzo.

Per chiunque.

P.S. Sapevate che nella formazione dal vivo di questa band formidabile milita da anni un italiano? Si chiama Alessandro Cortini. Emiliano, polistrumentista, nerd. Così. Giusto per sapere, prima che qualcuno attacchi l'ennesimo pippotto sulla bravura inarrivabile di Giuliano Sangiorgi.