mercoledì 7 giugno 2017

30. L'Età Dell'Innocenza.


Sebbene pubblicato nel marzo di quell'anno ed io fossi un loro fan già da tempo, ricordo di non averlo acquistato nell'immediato, e di avere ascoltato le sue note per la prima volta quando già era settembre. Lo ricordo bene. Perché fu tale e tanta l'impressione che ebbe su di me quell'ascolto da averne associato al ricordo il tempo (la fine di una bellissima estate) ed il luogo (la casa di un amico stronzo) in cui si tenne.
The Joshua Tree, l'album della svolta Americana degli U2, compie 30'anni. Tanto è passato, cioè, dal pomeriggio nel quale i tre accordi di organo in fade-in e la chitarra in delay di Edge – una delle introduzioni più memorabili della storia del rock - fecero irruzione nella nostra vita adolescente, letteralmente fermando il tempo in maniera indefinita. Un'atemporalità che, in gioventù, non mi fu più dato modo di sperimentare.
È passato così tanto tempo che l'America idealizzata dai solchi di quel vinile è divenuta l'America di Donald Trump, di un potere becero e personale, della fine del 'sogno' in ogni sua rappresentazione (mi si dirà che lAmerica reganiana, l'America dell'Iran-Contras, nella quale The Joshua Tree venne inciso non era politicamente migliore di questa – che è vero -, ma quantomeno il 'sogno' ancora reggeva, si viveva di un ultimo bagliore di illusione).
Questa personalissima considerazione sembra però essere anche il presupposto, ventilato da Edge, con il quale gli U2 si sono imbarcati, il mese scorso, in un tour celebrativo che, da rituale, ripropone The Joshua Tree per intero nella sequenza originale. Opporsi a Trump con il revival di un disco di 30'anni fa. Presuntuoso, no? Disco che 'il nostro' non solo non avrà mai acquistato per il semplice fatto che, quanto a gusti musicali, sarà suppergiù dalle parti di Dolly Parton, ma soprattutto perché, se nel 2016, a 70'anni, sbaragli ogni logica partitica e di schieramento e ti insedi alla Casa Bianca, va da sé che con ogni probabilità a 40 non stavi in fila fuori dalla Tower Records ad attenderne una copia fresca di stampa. Il che, per tornare a noi, fa degli U2 degli amabili paraculi (e non dimentichiamo che qui si parla di gente che pur di apparire accetta di essere ripetutamente intervistata, di stagione in stagione, da Fabio Fazio, come dire che anche il culo di un mulo va bene, l'importante è accoppiarsi).
Riascoltato oggi, The Joshua Tree mostra sommessamente tutti i suoi anni (30 per un disco sono come 30 per un cane). L'opacità analogica della registrazione (riscontrabile già allora), una certa rovinosa propensione al singolo (I Still Haven't Found..., With or Without You), misticismo prêt-à-porter (In God's Country). Rimane un album storicamente importante, ma non imperdibile (lo era, per fornire un esempio, The Unforgettable Fire). In compenso, Bullet The Blue Sky mantiene inalterata tutta la sua potenza politica ed evocativa. Il solo di chitarra (strepitoso) che segue il parlato rimane uno dei momenti artisticamente più alti della premiata ditta Edge & Bono. Running To Stand Still, non avendo conosciuto il successo commerciale, rimane la vera ballad del disco. One Tree Hill un bell'esempio di franchezza. Ed Exit, con le sue esplosioni musicali e le sue liriche di un lucido deragliamento umano, si conferma come la classica perla nascosta – e dimenticata.
Mothers Of The Disappeared chiude tristemente il disco secondo una logica che gli U2 o i loro produttori, in quegli anni, non hanno mai tradito: l'ultima traccia è sempre una fottuta ballad. La prima di molte canzoni da accendino che di lì a poco avrebbero portato gli U2 definitivamente nel campo della mega-produzioni. La gioventù ormai bruciata di Bono – in quell'anno ventisettene proprio come il 'giovane bruciato' James Dean – necessitava di una causa all'altezza delle proprie ambizioni pontificie. E cosa di meglio dei desaparecidos, l'apartheid, Nelson Mandela, Desmond Tutu, e poi Amnesty International e Greenpeace, tutti finiti nel tritacarne di una ben architettata strumentalizzazione?
“Gli U2 hanno girato un omaggio da venti milioni di dollari alla propria irreprensibile moralità e alla sempre meno mascherata megalomania di Bono.” Sono le parole, come sempre precise e penetranti, con le quali David Foster Wallace liquidò l'autoproduzione da parte della band di Rattle And Hum, il bel film di Phil Janou che documenta in poco più di un'ora e mezza le 109 date dello Joshua Tree Tour del 1987.
Da allora il processo non si è più fermato. L'elefantismo di Bono e compagni ha raggiunto livelli e risultati verificabili in maniera autonoma, e che quindi vi verrano risparmiati in questa sede.
Cosa resta, allora, di quel tempo? Resta l'immagine di un albero nel deserto, un segno di vita nel luogo della morte e della tentazione bibliche, un'ombra protettrice e l'idea che radici profonde possano attingere a risorse inaspettate. Quattro ragazzi irlandesi che forse, sul ramo lungo di quel vecchio albero, vi trovarono attorcigliato un serpente altrettanto vecchio che fece loro 'una promessa'. Un pomeriggio di fine estate e la sensazione che qualcosa di meraviglioso stesse per accadere proprio lì, in quel momento.
Nell'anno 2000, l'albero di Giosuè, lo Joshua Tree immortalato dagli scatti di Anton Corbijn, e da allora attrazione -feticcio del parco del Mojave Desert, è stato abbattuto.