mercoledì 26 giugno 2019

RIO GRANDE. Un fiume. Un padre. Una figlia.


Sebbene molti, persino tra i frequentatori di questo blog, si dicano sconcertati di ciò, va da sé che, tra i ruoli che ho scelto di assumere nella vita, da sette anni vi è quello di genitore. Nello specifico, sono padre di una bambina.
Pertanto, a menti ben arredate, non dovrebbe risultare difficile intuire come io mi sia sentito quest'oggi al vedere la foto d'apertura del sito di quell'ultimo barlume di grande giornalismo targato Inghilterra che è The Guardian.
È un periodo, questo, nel quale, proprio nella veste di genitore, ho dovuto rapportarmi con frequenza via via crescente alle tante piccole e grandi meschinità del quotidiano. Scuola, lavoro, amicizie, conoscenze, parentele. Bassezze spesso dettate da una assoluta vacuità personale, e messe in campo proprio a compensare quell'assenza di talento, qualità, competenze e sensibilità che dovrebbero invece essere i tratti distintivi, unici, di ognuno. Uno spreco di tempo ed una dimostrazione di arroganza che maggiormente avvalorano le disincantate parole che Paolo Sorrentino ed Umberto Contarello fanno pronunciare al protagonista de La Grande Bellezza: “Stefania, madre e donna, hai cinquantatré anni e una vita devastata, come tutti noi. Allora invece di farci la morale, di guardarci con antipatia, dovresti guardarci con affetto. Siamo tutti sull'orlo della disperazione, e abbiamo un unico rimedio: farci compagnia e prenderci un po' in giro.”. E difatti, in un paese di stronzi quale è divenuto irrimediabilmente il nostro, il film non ha goduto di consenso popolare proporzionato al suo riconoscimento in campo internazionale.
E così mi ritrovo a guardare la foto di padre e figlia annegati nel Rio Grande non solo nella certezza, sconcertante, che l'inaccettabile è solo un episodio debitamente rubricato e documentato di una delle tante tragedie umanitarie in corso sul pianeta, ma anche che le domande ultime sul senso dell'esistenza poste da questo scatto – domande che dovrebbero sorgere spontanee e costituire l'essenza di ogni discorso tra genitori davvero impegnati nell'educazione sentimentale dei propri piccoli – verranno affrontate in una solitudine priva di conforto e di consolazione.
Non credo si possa davvero contemplare una simile raffigurazione della sofferenza umana ed uscirne puliti, come nulla fosse.
Questa sera, per combattere la calura, ho portato mia figlia a fare un giro lungo la costa del lago, quindi ad una mostra di pittura ed infine ad un aperitivo. Siamo stati insieme. Come una famiglia si pensa debba essere. Io, lei e la mamma. Felici. Al punto che le dimostrazioni d'affetto, da parte sua, in questo breve arco di tempo, sono state molteplici e gratificanti.
Poi il caldo ha cominciato a mostrare i suoi effetti sul mio corpo, complice l'alcol, aumentandone la sudorazione e macchiando, di conseguenza, volgarmente la maglietta che avevo indosso.
In quel preciso istante ho pensato a come starebbe, mia figlia, se, nel tentativo disperato di salvarne la vita, tentassi di infilarla in quello stesso indumento, similmente a quanto fatto dall'uomo della foto in un ultimo gesto di amore disperato. Sentirebbe, per cominciare, l'odore acre tipico del corpo sudato quando vi si viene a contatto. Il temporaneo disgusto verrebbe quindi cacciato dal senso di soffocamento, inevitabile per chiunque decida di abitare in coppia un capo d'abbigliamento cucito per un singolo. Infine la sensazione di soffocamento da contatto lascierebbe il posto a quella da immersione, appresa per gioco durante le giornate in piscina, con lei sulle mie spalle. Quindi toccherebbe a me avvertire gli spasmi incontrollati del corpo che annega. Il corpo di mia figlia.
Ho nuotato sufficientemente a lungo, nella mia vita, per sapere che è esattamente così che va, in acqua.
Quel che non so – e che mi auguro la vita voglia tenermi nascosto – è se io sia capace, nella difficoltà, nella disperazione più grande e profonda, il vero banco di prova dell'essere umano, di un simile gesto, di tanto sacrificio.
Il padre di questa piccola guatemalteca lo è stato. Il braccino, che neanche la più tragica delle fini ha saputo togliere dal collo del suo papà, lo testimonia. Come il padre di The Road, di Cormac McCarthy, questo uomo ha tenuto vivo il fuoco della speranza fino dove gli è stato possibile. In un mondo popolato sempre più da padri inadeguati o negligenti, non è poco.
E nonostante questa grande differenza, oggi lo sento molto più fratello di tante altre persone a me più vicine.

sabato 15 giugno 2019

ATARI TEENAGE RIOT (LIVE). Arluno (MI), 9/6/2019.

Certo: io continuo ad avere le mie idee, a riguardo dei concerti rock e pop (giusto per individuare facilmente due categorie nettamente opposte al mondo della musica classica), ed una scarsa propensione a metterle in discussione.
 
Sarà pertanto utile, vista la premessa, rifarci ad una fonte terza ed estremamente attendibile, sulla quale, si spera, le pregiudiziali concordino positivamente. Dice, il vocabolario Treccani, alla voce evento: “Avvenimento, caso, fatto che è avvenuto o che potrà avvenire.”. Ed è proprio sulla connotazione casuale dell'evento che vorrei incentrare questa breve riflessione.
Prestate attenzione: ormai da tempo immemore vengono definiti eventi concerti che di ignoto – di affidato al caso, cioè – non hanno nulla, essendone risaputo ogni dettaglio, vezzo e tempistica. Molto spesso si configurano persino come riti stagionali od annuali, similmente ad una festa nazionale o religiosa.
Non c'è quindi dubbio che, quello di Arluno, piccolo comune alle porte di Milano, sia stato un vero e proprio evento (quanto meno per i miei standards): vuoi per l'assoluta non-conformità della proposta vuoi per l'incognita meteo (la minaccia di precipitazioni forti ha tenuto il concerto in forse fino all'ultimo). Senza poi dimenticare quanto il tempo influenzi il contributo di coloro che, all'insegna del vado-non-vado, cioè della massima indecisione, si presentano con il fare di chi, scettico, assiste alla messa per mera curiosità (non dimentichiamo che la resa di un concerto, di ogni concerto che voglia dirsi tale, dipende sempre dal fattore relazionale artista-pubblico).
Introdotti – si fa per dire – da un trio di metallari scassati alla Mötorhead la cui performance ha sortito il solo effetto di raddoppiare la vendita delle salamelle allo stand gastronomico della manifestazione, i nostri si sono presentati ad un'ora nella quale, normalmente, il vostro umile estensore già sta dormendo con i vestiti di casa indosso, e quindi la reattività risulta azzerata.
A risvegliarlo ci hanno pensato i cinque minuti di rumore a volume crescente (fade-in) a introduzione del concerto, somministrati al fine di saturare l'udito prima dell'esplosione ultra-digital, protratta per l'intera serata.
Era da tempo che non assistevo ad una performance così vitale, energica, fuori dai canoni odierni e davvero a tutto volume. Atari Teenage Riot, compagine tedesca definita da Trent Reznor come una delle sue principali fonti d'ispirazione, offre, dal vivo, la messa in scena più situazionista dell'attuale panorama musicale, dove istanze politiche tendenzialmente anarcoidi, elaborazione del suono, eclettismo stilistico, attitudine rock 'n roll ed una buona dose di nevrosi confluiscono in una miscela detonante ad altissimo potenziale adrenalinico. L'equivalente di un'onda d'urto da fissione nucleare. Il suono, potentissimo e mai distorto per l'intera durata dell'esibizione, di gran lunga superiore a quello offerto dai lucrosissimi ingressi di nomi ben più noti, sposato a luci minimali e ad un impianto visivo di immagini astratte e glitch, ha non poco contribuito alla resa del concerto: un'ora e mezza abbondante di miscela techno, trance, hardcore, inserti dance e industrial a fare da sfondo agli slogans genuinamente no-global e black-block delle voci (mai termine fu più appropriato) di Alec Empire e Nic Endo, e ai missaggi folli di un DJ non meglio definito che potrebbe benissimo dare ripetizioni a David Guetta già questo pomeriggio).
Ad occupare la scaletta, quasi tutti brani tratti dagli ultimi due lavori del trio, Is This Hyperreal? e Reset, dischi che, pur non situandosi alle vette dell'ormai ventenne 60-second Wipeout (forse il capolavoro del gruppo), ugualmente danno prova di una spinta creativa ancora genuinamente energica, giovanile, cosciente dei temi di vera rilevanza di questi nostri giorni, con un fare sovente canzonatorio dove l'imminenza di una potenziale minaccia per la società tutta è resa con ritmi da discoteca delle Baleari.
Si può ben dire che, quella di Atari Teenage Riot, è canzone di protesta (sì, avete capito bene: alla Bob Dylan, per intenderci), ma con il deejay-set al posto della fottuta chitarra con armonica.
Insomma: a 49 anni (!), come un verginello, ho assistito al mio primo concerto senza, finalmente, l'ombra di una ballad, senza strumenti tradizionali e senza pagare l'ingresso (l'evento era gratutito).
Sono tornato a casa sudato e galvanizzato come nemmeno in adolescenza.
Yeah.