È davvero sorprendente come la
radio, nel fiume pressoché ininterrotto di quella verbosità
insensata che caratterizza ormai, uniformemente, ogni suo canale, sia
ancora in grado di donare momenti di pura bellezza e grande stupore a
chi, come il sottoscritto, ancora l'ascolta con una passione d'altri
tempi.
È successo stamane (5 dicembre),
all'alba, su quell'isola che non c'è che è il terzo canale RAI (riconosco, da me insistentemente citato, come ne fossi un
azionista, ma va da sé che lì, e solo lì, è avvenuto il
miracolo).
Ricorre infatti quest'oggi – ma ne
ero completamente dimentico – il ventesimo anniversario della
scomparsa di Michel Petrucciani (per chi non lo conoscesse, un
incantevole pianista jazz francese cui la natura aveva dato tutto ciò
che abbisogna ad un essere umano per eccellere in campo musicale,
avendo però la stessa privatolo dalla nascita di quella condizione di sana
e robusta costituzione essenziale per la longevità, così
imponendogli una scomparsa prematura sia dal punto di vista musicale
sia da quello biologico).
Quando ti devi alzare all'alba per
recarti al lavoro, la voce radiofonica è una fonte di
conforto non di poco conto, sebbene, come accennato in apertura, il
nonsense sia sempre in agguato.
Ed ecco allora che, data l'ora
spaventosa dell'uscita di casa - corrispondente, oggi, ad una fascia
oraria dove ogni emittente, persino la più scalcinata e provinciale,
dispone di un format mattutino e consolatorio dedicato a tutti
coloro che abitualmente od occasionalmente sono costretti a tirare la
carretta al cantar del gallo - mi sintonizzo su Radio Rai 3, dove, va
riconosciuto, è possibile sentirsi un poco più protetti, in termini
contenutistici, rispetto agli abissi della concorrenza.
È una fascia oraria di repliche,
puntualmente seguite da proposte di ascolto in ambito classico di
musiche legate tra loro da una parola differente giorno per giorno.
La parola di oggi era vita.
Nonostante l'ora piccola, la
conduttrice sembra d'improvviso riprendersi, come se qualcosa,
finalmente, l'avesse risvegliata dalla noia di palinsesti a volte
troppo uguali. Ricorda agli ascoltatori del triste anniversario.
Aggiunge che la parola del giorno ben si adatta all'opera del
pianista francese, avendola egli amata così tanto, la vita, da
averle persino perdonato la malattia che questa gli aveva donato in
nascita. Senza ulteriori preamboli, parte Brazilian-like, dal
vivo. E non c'è null'altro che io possa fare, in quel momento, che
accostare, occhi lucidi, e farmi avvolgere per qualche minuto da
questa musica viva, ricca, meravigliosa.
Ho avuto l'onore e la fortuna di
sentire Petrucciani dal vivo due volte. La prima, mi sembra, intorno
al 1997, in occasione di un'esibizione privata con finalità benefica
per i Lions del Lago Maggiore. Insieme ad un amico attraversai i
binari di un tratto di ferrovia per poi arrampicarmi (!) sul costone
della cappella privata, sede del concerto. Fummo issati all'interno
della proprietà dagli addetti alla sicurezza, spaventati, più che
dall'incursione, dall'eventualità, verosimile, di una caduta
all'indietro sui binari, con sopraggiungere fatale di treno merci
transalpino in transito notturno. Al fine di non turbare il clima
ormai consolidato dell'evento, ci fu consentito di restare, ma
all'esterno della struttura. Data la stagione mite, le finestre
stavano aperte. Ci posizionammo come profughi su quella del retro,
che il caso volle fosse a non più di tre metri dal pianoforte.
Praticamente, sul palco. Fu come un sogno. In uno degli spasmi
dell'esecuzione, Petrucciani riuscì a fotografare i nostri volti,
continuando a suonare del tutto indisturbato. Anzi: forse persino
galvanizzato dai nostri sguardi imploranti. Lo capimmo quando, al
termine, ci riuscì di entrare e raggiungerlo.
“Hey, ragazzi: si sta meglio fuori,
no? È più fresco che qui.”.
Petrucciani parlava italiano.
“Michel: complimenti. È stato
bellissimo.”
“Grazie, ragazzi.”
Alzò la mano dal suo metro scarso di
altezza e diede noi un cinque, contraccambiato con ammirazione
assoluta ed un'invidia demoniaca per il livello sconcertante di
quanto avevamo appena sentito.
La seconda volta fu nell'anno della
sua scomparsa, il 1999. Ad Arona. Parco della Rocca Borromea. Nel
solito luglio caldissimo. In quello che sarebbe poi diventato
l'ultimo concerto italiano di Petrucciani. Una scadenza della quale
egli solo, probabilmente, era consapevole, ma che in nessun modo
riuscì ad intaccare quella gioia del fare musica e quell'amore per
la vita che così fortemente hanno caratterizzato tutte le esecuzioni
della sua carriera. Accompagnato da una formazione di superstar
del jazz, quando queste compresero che la sua improvvisazione stava
debordando, aveva l'urgenza di comunicare qualcosa che non poteva più
essere contenuto, con grande discrezione si fecero indietro e lo
lasciarono suonare solo per circa un quarto d'ora, immerso nella
bellezza della creazione, gratificato dall'incanto e dalla commozione
del pubblico.
Michel Petrucciani, è morto a soli
36 anni, lasciando dietro di sé, oltre al compianto per la perdita
di una grande voce – in senso naturalmente lato - della musica, un
esempio di dedizione alle proprie, naturali, predisposizioni che
davvero meriterebbe di essere proposto ai nostri giovani.
In un tempo dove il format
unico televisivo tenta insistentemente di persuaderci che basti un
po' di faccia tosta e quattro accordi di chitarra per sentirsi
attribuire un non meglio specificato 'talento x', la vicenda musicale
di Petrucciani può essere il miglior antidoto per riportare il
giusto ordine nelle nostre menti e nei nostri cuori.